Gianfranco Fini e Lucia Annunziata L’Annunziatone è arrivato. Urbi et orbi Gianfranco Fini ha annunciato in diretta televisiva che «la destra sono io». Punto. Lucia Annunziata «In mezz’ora» ha realizzato il suo scoop e Rai Tre ha avviato la sua mutazione genetica da TeleKabul a TeleGianfry. Il presidente della Camera ha iniziato la sua campagna berlusconiana sul piccolo schermo. Ha fatto professione di «lealtà» ma un secondo dopo ha spiegato che non deve esser scambiata per «acquiescenza», ha detto che «abbiamo tre anni di legislatura davanti per fare le riforme» e che «parlare di elezioni è da irresponsabili». Questo passaggio ha confermato la sua paura del voto e fin qui siamo nel copione previsto. Ciò che è nuovo e interessante sul piano politico è il discorso «doroteo» di Fini. Un ragionamento in apparenza da democristiano di centro, moderato, lontano dalla sinistra.

Fateci caso: durante l’intervista con l’Annunziata – giornalista che stimo – non una volta Fini ha toccato gli argomenti che hanno contribuito in maniera determinante a creare il patatrac nel Pdl. Tanto per citarne qualcuno, cittadinanza e voto agli immigrati sono spariti, il tema della tutela della vita, dell’aborto e il diritto della Chiesa a dire la sua sui temi etici sono eclissati. Niente. Fini s’è presentato in televisione con l’abito grigio della terza carica dello Stato e il sorriso beffardo di chi sta covando qualcosa. Utilizzando la storia della Balena Bianca, possiamo dire che Gianfranco ha interpretato il ruolo del Mariano Rumor che cercava di recuperare i consensi persi a causa dello sbilanciamento della Dc a sinistra. Così è per Fini: lui è la destra e non può che presentarsi così se vuole ripescare se stesso dal limbo in cui s’è cacciato. Destra e Sud sono le due parole che ho segnato nel mio taccuino di cronista mentre parlava. E quando scrivevo Sud pensavo, per opposizione, al Nord e a Giulio Tremonti. Il discorso finiano sottotraccia (e neanche tanto sotto) era una rasoiata continua alla riforma federale della Lega e all’asse con Giulietto.
Fini ha chiesto di incontrare Bossi anche per provare a fare il gioco del blocco su Tremonti. Gianfranco non vuole le elezioni, ne ha una fifa blu, perché il suo obiettivo è di medio periodo e per coglierlo è necessario sopravvivere, arrivare al 2013 in piedi e tagliare la strada ai piani tremontiani per la successione a Palazzo Chigi nel caso in cui Silvio punti al Quirinale. Tutto questo sarebbe legittimo se il Pdl fosse un partito organizzato in correnti e Fini non rivestisse la non trascurabile carica di arbitro di Montecitorio. Il partitone che guida il governo però nello statuto esclude le correnti e durante la direzione in Rugantino style ha ribadito il concetto in un documento ufficiale; il presidente della Camera rivendica un ruolo politico ma trascura il fatto che Sandro Pertini e Amintore Fanfani – non proprio due piccoli calibri della nostra storia politica – una volta saliti sullo scranno di Montecitorio sciolsero le loro due correnti di partito. Lo statista Fini – tale si ritiene, a giudicare dal tono e dalla posizione che assume quando parla – invece lavora alla costituzione di una corrente organizzata dentro il partito. Domani Fini vedrà i suoi fedelissimi e in serata andrà a ribadire la sua nell’altro «salotto intelligente» di Rai Tre, il «Ballarò» di Giovanni Floris, completando un filotto che passerà per un incontro – toh! i casi della vita – con Luca Cordero di Montezemolo, uscito dal garage della Fiat e iscritto di diritto tra le «riserve della Repubblica» (e di Repubblica), il serbatoio dove l’establishment pesca quando la situazione precipita, non si vuol votare e si mettono in piedi governicchi. Fini s’è tenuto a lunghissima distanza dalla nitroglicerina ideologica che in questi mesi ha affastellato contro Silvio. Gianfranco non ha alcun interesse ad accendere la miccia in questo momento. Se tocca la polvere da sparo, salta dentro il bunker che ha costruito.
Sul brevissimo periodo sa di essere perdente. Ha evocato ogni spettro possibile tutte le volte che dalle labbra gli affiorava la parola «elezioni». E s’è premurato di porre all’orizzonte il tesseramento e il congresso del partito. Anche in questo caso sa di non poter ribaltare la situazione: è stato lui a spiegare che la quota di spartizione tra An e Forza Italia (30 a 70) dopo la direzione è saltata (a suo sfavore) ma questo gli farà guadagnare tempo per organizzarsi al meglio e lanciare un’offensiva, sempre di minoranza, ma più efficace e insidiosa. Se Fini rinunciasse alla carica istituzionale che ricopre, questa strategia avrebbe ragione e nobiltà politica. Ma vestire la maglia dell’arbitro e pretendere di indossare anche quella dell’attaccante è imbarazzante. Repubblica, come previsto, ha cominciato a incensare Fini. Visti gli illustri precedenti di geni della politica adottati dal giornale-partito e poi finiti in cantina, al suo posto mi preoccuperei. Fini sente di rappresentare la vera destra? Faccia un giro non edulcorato nelle sezioni del suo ex partito, Alleanza nazionale. Allora s’accorgerà che quel pubblico dalla tribuna non applaude. Fischia. Mario Sechi, IL TEMPO