Il 30 giugno di cinquant’anni fa i portuali misero a ferro e fuoco Genova. Le violenze minarono il governo di centrodestra e il possibile cambiamento.

Se cercate la scatola nera della sinistra italiana, potrete trovarla nel porto di Genova. Là, esattamente cinquant’anni fa, in un giugno più caldo del presente, la sinistra sfregiò la democrazia e fece cadere un governo legittimamente uscito dalle urne con un moto violento di piazza. Sto parlando dei ganci di Genova, come furono chiamati in gergo missino i micidiali ganci usati dai portuali comunisti, i feroci camalli che scesero in piazza per impedire lo svolgersi di un regolare congresso nazionale del Msi. Oggi tv e giornali ricordano i fatti di Genova con un sottinteso epico, quasi a celebrare un’epopea partigiana di giustizia e libertà. Affiorano rievocazioni nostalgiche di quel clima, in cui perfino le auto bruciate e le magliette a strisce dei portuali sono ricordate con tono elegiaco da commosso amarcord. E invece quell’evento che Aldo Moro definì «il più grave e minaccioso per le istituzioni» dalla nascita della Repubblica italiana, fu un vero e proprio golpe di piazza che tardò la nascita di una democrazia matura fondata sull’alternanza, resuscitò gli spettri della guerra civile e alimentò nella destra frustrata rigurgiti di neofascismo e sogni di golpe. Il principale testimonial e istigatore di quell’evento, con Umberto Terracini, fu Sandro Pertini, che ritrovò in quella mobilitazione lo spirito bellicoso della lotta partigiana, non accorgendosi che si trattava di una mobilitazione violenta contro un pacifico congresso ed un legittimo governo liberal-democratico. Era l’epoca del governo Tambroni, il primo governo di centro-destra che godeva dell’appoggio esterno dell’Msi. Il Paese viveva il boom economico, ormai pacificato, la violenta contrapposizione tra fascismo e antifascismo si era spenta, e anche la guerra fredda, con l’avvento di Krusciov e Kennedy si era intiepidita (salvo poi riaggravarsi a Cuba), assopendo l’antitesi comunismo-anticomunismo. Non era ancora stato eretto il Muro di Berlino.
In quel tempo l’Msi era guidato da Arturo Michelini, un nazional-conservatore che voleva inserire il suo partito nel gioco politico delle alleanze. Del resto, negli anni cinquanta, molte amministrazioni del sud erano rette dall’appoggio monarchico e missino, e perfino il Pci di Togliatti aveva trescato in Sicilia con l’Msi per sostenere la giunta Milazzo. Insomma, la guerra civile del ’45 e il frontismo radicale del ’48 erano ormai ricordi sepolti, come ricordo lontano erano ormai i celerini di Scelba contro i manifestanti o la legge dello stesso Scelba che vietava la ricostituzione del disciolto partito fascista. L’Msi ebbe l’infelice idea di celebrare il suo congresso a Genova, città antifascista con un forte movimento sindacale e comunista. Di fronte alle minacce della sinistra, il Prefetto di Genova aveva saggiamente proposto di spostare il congresso missino a Nervi. Ma social-comunisti, Anpi, Cgil e portuali non accettarono il compromesso; volevano cogliere il pretesto del congresso missino per abbattere il governo di centro-destra. Sarà proprio Sandro Pertini (che perfino il suo compagno di partito Pietro Nenni considerava un violento) ad accendere il fuoco della rivolta con il «discorso del brichettu» (il fiammifero) del 28 giugno. Due giorni dopo la città fu messa a ferro e fuoco dagli insorti, come accadde poi nel luglio del 2001 ad opera dei no-global. Aggressioni ai delegati missini, rifiuto di accoglierli in albeghi e locande, la celere travolta dai camalli, le jeep della polizia capovolte, incendi e assalti. Forse fece bene la polizia a non rispondere col fuoco e fecero bene i missini a non mobilitare il loro servizio d’ordine che comunque sarebbe stato soccombente. Ci sarebbero stati molti morti, non solo a Genova. Alla fine a morire fu il governo Tambroni e a restare invalida fu la democrazia italiana, che perse da allora il fianco destro. La spuntarono loro, i camalli d’assalto e le sinistre di piazza. Sotto i colpi della piazza i ministri della sinistra dc rassegnarono le dimissioni, il governo Tambroni cadde e gli stessi che avevano giudicato con allarme la violenza di piazza, come Moro e Fanfani, aprirono poi alla stagione del centro-sinistra, portando i socialisti al governo. Quando si parla del rumore di sciabole dei militari e carabinieri italiani, e della strisciante tentazione golpista che attraversò l’Italia tra il ’64 e il ’70, da De Lorenzo a Borghese, coinvolgendo i partigiani Sogno e Pacciardi, si deve considerare quel precedente genovese che rendeva impossibile la nascita per vie democratiche di un centro-destra in Italia. Quel clima violento perdurò a Genova fino ai primi anni 70, se si considera che tra i primi passi del terrorismo rosso in Italia ci furono l’assassinio del militante missino Ugo Venturini e il rapimento del magistrato “destrorso” Mario Sossi. L’insurrezione di Genova diventerà la madre di tutte le mobilitazioni di piazza con cui la sinistra in Italia ha inteso forzare la democrazia italiana, i suoi governi, le sue scelte, le sue alleanze. Un metodo che viene tuttora utilizzato per abbattere con una spallata di piazza i governi usciti dalle urne. Per fortuna il clima è cambiato, i camalli si sono imborghesiti, non portano più le magliette a strisce e i ganci micidiali, né ci sono in giro partigiani pronti a riprendere le armi. Ma quel governo di centro-destra avrebbe accelerato la nascita di una destra postfascista e avrebbe insieme creato le premesse per una democrazia dell’alternanza, spingendo anche la sinistra a superare il massimalismo e a disporsi così a governare. Ma il Pci dell’epoca prendeva ancora ordini e soldi da Mosca e considerava l’America e il Capitalismo due mali da cui liberarsi. Così la Dc, con i suoi alleati, restò al governo vita natural durante. Marcello Veneziani, il Giornale.