di Amedeo Laboccetta , deputato del PDL ex MSI, ex AN

Gianfranco Fini fisicamente è nel Pdl però, da oltre un anno, politicamente è altrove. Tale appare a tutti i commentatori politici, tale è quotidianità dei suoi comportamenti. Diciamolo subito con franchezza: il suo progetto politico non è più compatibile con quello di Silvio Berlusconi. Può dispiacere a chi ricorda il Fini, leader della destra italiana, ma è così! Per mesi ho speso energie nel tentare di convincere Fini a essere coerente con la sua storia e a non dare ascolto a chi, come Bocchino e il suo manipolo, spingeva per andare in rotta di collisione con Berlusconi e con il sentire comune di militanti ed elettori del Pdl. In alcuni momenti mi sono illuso di aver convinto Fini. Poi con realismo ho dovuto prendere atto che hanno vinto gli estremisti. Il mio richiamo alla storia politica e alle radici culturali non ha avuto successo.

In tutta questa vicenda non mancano aspetti tragicomici, poiché per la mia storia, parafrasando un libro di Giulio Andreotti, li «ho visti da vicino», e dunque mi fanno sorridere soprattutto quei personaggi che si atteggiano, in queste ore, a moralisti e a novelli giacobini, ma di cui conosco bene le debolezze personali. Di giorno tentano di apparire intransigenti e di notte sono, invece, pronti a transigere. L’impressione è che Gianfranco Fini, a volte inconsapevolmente, forse guidato da chissà quali dinamiche, si sia incuneato in un imbuto dal quale razionalmente, in alcuni momenti, vorrebbe tirarsi fuori ma nel quale è prigioniero perché consegnatosi ad altri. Per chi viene da una storia comune tutto appare assurdo, inspiegabile. Riceviamo decine di telefonate, incontriamo vecchi amici, e la domanda che ricorre è sempre la stessa: cosa è scattato nella mente di Fini?

Ma ora, consumato l’aspetto psicologico della vicenda, bisogna tornare con senso di responsabilità alla politica prendendo atto della realtà. Attorno a Fini si è coagulata una minoranza rancorosa, dispettosa, con qualche iceberg di cattiveria. Una minoranza guidata da soggetti che non perseguono un progetto politico ma che lavorano solo per far cadere il governo Berlusconi e far saltare il quadro espresso legittimamente dal voto democratico della maggioranza degli italiani. Nel ‘94 lo stesso Fini tuonò contro le congiure di palazzo che sovvertirono il primo governo di centrodestra voluto dagli italiani in ossequio ai diktat dei poteri forti. Ora è lui ad agire allo stesso modo. Una minoranza che vuole sfasciare, siamo di fronte agli sfascisti del terzo millennio. E, purtroppo, tanta tristezza si confonde a rabbia nel vedere Fini lasciar fare, anzi, sembra che il presidente della Camera trovi soddisfazione nel vedere governo e maggioranza in difficoltà. È una minoranza senza scrupoli, capace di tutto, che supera e addirittura va oltre la «cultura» dipietrista. Una minoranza senza consensi nel Paese ma amplificata nella sua entità perché supportata dal network mediatico-politico-giudiziario che odia Berlusconi e la classe dirigente del Pdl.

Oggi questa minoranza finge di indignarsi per tutto ciò che accade ai vertici del Pdl. Adesso è il turno di Brancher. Tuttavia, il vero nodo politico non è qui, non è certo nel falso moralismo sul quale andrebbe steso un velo pietoso. Quello che sta accadendo in queste ore conferma ciò che vado sostenendo da mesi: l’inutilità di logorarsi in una mediazione permanente con i gruppettari nel tentativo di renderli più mansueti. Lo dimostra la vicenda della legge sulle intercettazioni dove la bozza approvata al Senato, nella quale erano state accolte le richieste degli amici di Fini, è stata da loro sconfessata un minuto dopo. Chi pensa ancora a mediazioni possibili non conosce né lo stato d’animo del principale suggeritore di Fini né quello dell’intero contorno che viene da una storia precisa.

Fini ha ceduto troppo ai cattivi consiglieri che come i «cattivi maestri» degli anni Settanta lavorano per il tanto peggio tanto meglio. L’unica loro prospettiva è quella del colpo quotidiano a Berlusconi e all’azione di governo. L’immagine è quella di un uomo politico chiuso nel bunker della sua Fondazione lontano dalla gente e dal sentire comune. La verità è che i gruppettari non hanno alcuna consistenza fra la gente, al di fuori dei Palazzi. Possono manovrare congiure piccole o grandi, fare del sensazionalismo psicologico ma manca loro la materia prima della politica vera: il consenso.

Detto tutto ciò, però, occorre venire alla sostanza immanente di queste ore. È tempo delle scelte. Il Pdl non può restare immobile, deve dare conto delle sue responsabilità all’Italia e agli elettori. Non è più tempo per i giochetti di palazzo con i ragazzetti di Fini. Se occorre contarsi, ci si conti pure. Sarebbe insensato continuare in questa manfrina che penalizza i processi decisionali necessari in una situazione economica globale come quella attuale dove sono in ballo interessi generali. La stessa richiesta di un congresso appartiene a questo gioco inutile di melina. A questo punto Berlusconi riconvochi la direzione nazionale, presenti una mozione politica ben circostanziata e la metta democraticamente ai voti e verificherà che la stessa minoranza finiana si è considerevolmente ridotta a numeri di una mano. Se non lo si fa, ci si assume una responsabilità enorme e si tradisce il patto con gli elettori.