Foto di gruppo dell'ultimo congresso di An nel marzo 2009. Fini insieme ai suoi L’importante è chiarirsi sui termini. Perché quando Gianfranco Fini parla di democrazia interna al Pdl e si indigna per essere stato espulso dal partito senza aver potuto esprimere le «sue ragioni», commette un peccato di omissione. E tutt’altro che piccolo. Basterebbe tornare con la memoria a ciò che accadde nel luglio del 2005. È lunedì 18, tre giorni prima, alla Caffettiera di piazza di Pietra, Ignazio La Russa, Altero Matteoli e Maurizio Gasparri sono stati intercettati da Il Tempo mentre «processavano» il leader di Alleanza Nazionale. Fini, incassa le scuse dei tre, fa passare il weeekend, e poi fa diffondere una nota in cui comunica di aver revocato tutti gli incarichi fiduciari del partito. Saltano i vicepresidenti nazionali, i membri dell’ufficio di presidenza e i coordinatori regionali. Contestualmente nomina Marco Martinelli responsabile organizzazione e convoca la direzione nazionale per il 28 luglio. Passano 24 ore e sempre Fini annuncia trionfante: «Ho fatto le nomine del nuovo organigramma del partito».

Niente male come forma di democrazia, non c’è che dire. Fini è a tutti gli effetti il «padre-padrone» di An, anche perché così prevede lo statuto. Tanto che in occasione della direzione nazionale del 28 viene presentato un ordine del giorno per chiedere l’elezione diretta dei coordinatori. Il presidente sbotta: «C’è lo statuto che dobbiamo rispettare. Non capisco il senso di questa proposta: è roba da Bisanzio…» Francesco Storace interviene ed è costretto a rassicurarlo: «Nessuno deve pensare che ti vogliamo togliere i poteri». Fini è irremovibile: «Fin quando c’è questo statuto il coordinatore nazionale è nominato dal presidente del partito». Punto e basta. Dopo quella discussione qualcosa è cambiato, ma l’ultima versione dello statuto, approvata nel 2006, lascia una discreta fetta di potere nelle mani del presidente nazionale che: può «deferire per mancanze disciplinari ogni iscritto agli organi competenti adottando anche, in attesa della decisione definitiva, provvedimenti immediati con effetti sospensivi da ogni attività», «nomina il Segretario Amministrativo Nazionale, con facoltà di revocarlo in ogni tempo», «costituisce i Dipartimenti, gli Uffici, le Consulte e ne organizza l’attività nominandone i responsabili». Non solo ma, sentito l’Esecutivo Nazionale, «determina le direttive per la Stampa del Movimento e ne nomina i dirigenti». Quando poi «ricorrono fondati motivi» può, previo parere dell’Esecutivo Nazionale, sciogliere i coordinamenti provinciali e regionali nominando commissari straordinari. Se questa è la «concezione liberale» di Fini non stupisce che si sia adirato per ciò che è successo: lui certe cose era abituato a farle, non certo a subirle.

Nel 2004, ad esempio, sospese Federico Ghera reo di aver distribuito assieme a Stefano Torri e Federico Mollicone, durante una riunione romana del partito, un volantino di contestazione al governatore Francesco Storace e alla sua lista. Nel 1995, invece, espulsione immediata per il consigliere regionale della Basilica Emilio D’Andrea. La colpa? Aver costituito un proprio gruppo consiliare. C’è anche un precedente che riguarda il ruolo di garanzia di presidente della Camera. Anno 1995 l’allora numero uno di Montecitorio Irene Pivetti partecipa al congresso della Lega Nord e attacca senza mezzi termini Silvio Berlusconi. Fini reagisce: «Se l’onorevole Pivetti non corregge quanto ha detto credo debba prendere in considerazione anche l’ipotesi di rimettere il mandato». E ancora: «La terza carica dello Stato deve essere super-parte, non può dire “ora non parlo come presidente della Camera” e dire le cose gravi dette ieri».