Archivi per settembre, 2010

IL GIOCHINO DI FINI E’ SCOPERTO

Pubblicato il 28 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Domani il premier Silvio Berlusconi interverrà alla Camera per chiedere la fiducia per andare avanti. Intanto i  “finiani” più oltranzisti chiedono di conciordare il discorso di Berlusconi, smentiti dalle colombe, mentre Fini, ormai sempre più nel pallone, tace. Parla per lui il direttore della sua Fondazione che sembra lanciargli un salvagente chiedendogli di dimettersi da presidente della Camera per meglio guidare il nuovo partiot che per Bocchino è già nato. E’ evidente che questa richiesta del direttore di Farefuturo sembra fatta apposta per tirare fiuori dal pantano in cui Fini si ficcato, anche con il concorso dei suoi più estremisti sostenitori che forse lo hanno danneggiato ancor più delle malefatte del cognato che lo ha impatanato nella casa di Montecarlo. Ecco l’analisi del direttore de Il Tempo, Mario Sechi. g.

Il presidente della Camera Gianfranco Fini Cosa sono i finiani? Bella domanda. Sono un partito politico? Si comportano come tale, ma non lo sono. Sono di destra? Arduo capirlo visto che non riconoscono né Dio né Patria né famiglia. Sono un gruppo parlamentare? Fanno finta di esserlo, ma quando si tratta di prendere decisioni somigliano a una Babele. La giornata di ieri è stata davvero istruttiva: come un fulmine a ciel sereno l’intrepido Italo Bocchino caricava la catapulta finiana con palle infuocate e chiedeva a gran voce un tavolo a tre gambe, cioè un vertice per stabilire prima i contenuti del discorso di Berlusconi e della mozione da votare in Parlamento. Un vecchio cavallo di battaglia della politica politicante. Un film già visto, per il quale non val la pena neppure di pagare mezzo biglietto. Ma il braccio destro, sinistro e la testa di Fini (alias Italo Bocchino) in questi giochetti ci sguazza e pure bene. Non è lui a sorprendere, ma un documento di un’altra parrocchia, sempre finiana, che diceva esattamente il contrario di quanto sosteneva l’esuberante Bocchino.
Un gruppo di «colombe» infatti bollava come del tutto personale la sortita dell’Italo furioso e lanciava l’idea di far pace con il Cav, se non nella sostanza, quanto meno nella forma. Ora, cari lettori, come me vi starete tutti chiedendo ma chi sono i finiani? Chi li rappresenta? E soprattutto, che fa Gianfranco Fini? È o non è il leader del drappello dei futurlibertini? Perché se lo è, allora dovrebbe spiegarci se Bocchino parla per se o per lui. Dovrebbe dire alle sue colombe se possono o non possono smentire il sulfureo deputato campano. Dovrebbe fare quella cosa che un tempo veniva sintetizzata così: dare la linea. Il problema è che l’unica linea che s’è vista tra i finiani è quella del cognato, Giancarlo Tulliani. Una linea che ha portato Fini a scontrarsi con la dura realtà dei fatti. Con questi ultimi ci sono solo due modi di ragionare: o li accetti e ne trai le conseguenze, oppure l’ignori ma ne trai sempre le conseguenze.
Quali sono le conseguenze? Le dimissioni. La vicenda di Montecarlo non é chiusa e ogni giorno che passa aggiunge pezzi nuovi a un mosaico già chiaro. I giornali, nonostante quel che pensa Fini e il suo entourage, non molleranno la presa e le notizie rotoleranno come massi a valle. In queste condizioni, è ogni giorno sempre più chiaro che la terza carica dello Stato non può gestire l’aula, un partito che non c’è, un gruppo in piena ebollizione e un cognato che non ha fornito né a lui né agli italiani alcuna spiegazione sulla casa di Montecarlo. Finchè Fini pretenderà di recitare tre parti in commedia la legislatura sarà in continuo pericolo. Servono coraggio e chiarezza. Né l’uno né l’altro in questa storia sono emersi. Si è visto soltanto alzarsi il polverone del complotto, la panzana della patacca, la fuga in avanti, indietro, a destra e a sinistra della verità e la richiesta pelosa di una tregua che sa tanto di cambiale in bianco per poter vedere meglio il da farsi e soprattutto disfarsi. Al posto di Silvio Berlusconi non mi fiderei. Ma capisco che la politica ha altre categorie d’analisi e dunque è giusto andare a vedere tutte le carte dei finiani. Quelle buone e quelle brutte. Non sono falchi né colombe né soprattutto sono sembrati aquile. Se avessero avuto la vista aguzza non sarebbero finiti in questo marasma che a tratti risulta tragicomico. Sono riusciti nella mirabolante impresa di illudere la sinistra e i suoi opinion maker sulle taumaturgiche capacità di Fini, per cui abbiamo letto in questi mesi scintillanti articoli sull’impalpabile finismo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una catastrofe. Al punto che perfino il proverbiale abbraccio mortale di Eugenio Scalfari s’è dovuto ritrarre per paura di beccarsi la tullianite. Il fondatore di Repubblica ha auspicato la separazione di Gianfranco dalla famiglia Tulliani, non capendo che il problema è assai più vasto. Non una casa a Montecarlo, non un clan parentale, non un cognato in affitto, il problema è che il finismo è semplicemente, irrimediabilmente, totalmente vuoto. E non si può riempire con i desideri di un establishment che sogna la fine del Cavaliere per mezzo di Fini e per inseguire secondi fini. Se il finismo fosse stato pieno, il governo non sarebbe in queste condizioni e Fini avrebbe giocato una partita non per finire travolto dalle gesta del cognatino, non per farsi un partitino, ma per diventare il leader del centrodestra dopo il Cavaliere.
La miopia di Gianfranco per me resta incomprensibile, nelle sue mosse vi è un tasso di irrazionalità troppo alto. È rimasto fregato dal fattore personale (il disprezzo per Silvio) e da quello sentimentale (l’amore per la Tulliani) e ha inanellato una serie di errori gravi. Fini, in sintesi, ha pensato (e pensa) di far fuori Berlusconi con una manovra di Palazzo. Per lui sedici anni di berlusconismo, cioé di rapporto diretto tra popolo e presidente del Consiglio, tra elettore ed eletto, tra programma e partito, tra coalizione e lealtá al patto elettorale, tra comunicazione e politica, tra leader e popolo, sono un fatto che si può ignorare senza arrossire per tornare alla logica del nascondino di Palazzo. È un gioco scoperto. Mario Sechi, IL TEMPO

A PROPOSITO DELLE DIECI DOMANDE RIMASTE SENZA RISPOSTA

Pubblicato il 27 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Abbiamo pubblicato a parte  le dieci domande a cui, secondo la stampa indipendente,  Fini non ha risposto ma a cui deve rispondere e senza le quali, evidentemente, il caso “politico” non è per nulla chiuso. Ad onta di ciò che dichiara, imbattibilmente arrogante, il suo scudiero Italo Bocchino. Questi, poche ore dopo aver dichiarato che la “casa non è di Tulliani, Fini ne ha le prove e lo dirà nel suo messaggio”, ha dovuto apprendere dalla bocca stessa di Fini che il suo profeta “non lo sapeva e che aveva molti dubbi sul cognato e che aveva commesso ingenuità e che, infine, se avesse scoperto che il padrone è Tulliani mi dimetto da presidente della Camera”. Migliore smentita alle “certezze” di Bocchino non poteva esserci. Il quale Bocchino,a questo punto, declama l’ultimo comandamento : “Fini è onesto e bisogna credere a quello che dice”. Oh, bella. Ma non era stato Fini a dire a Mirabello e poi a Mentana (che non è la cittadina della battaglia risorgimentale) che quando si sarebbe saputa la verità sull’appartamento di Montecarlo ci sarebbe stato da ridere? Si è visto che Fini,  mentre confessava di non saper nulla di  nulla, non rideva, anzi, come ha scritto Libero “faceva pietà“. E non pietà nel senso di commiserazione ma nel senso peggiore. E poi, per caso Fini è Gesù le cui parole sono la “VERITA’”? Andiamo, riportiamoci sulla terra. Fini è uno che per raggiungere il suo scopo è pronto a fare qualsiasi cosa. Per esempio a insultare e sbeffeggiare chi una quindicina di anni fa lo tirò fuori dal pantano dell’incongruenza politica e lo issò sul piedistallo del potere.Fini lo ha fatto durante i nove minuti del suo “assolo” autodifensivo , confezionato senza il confronto con i giornalisti come avviene nelle vere ( e non necessariamente grandi) democrazie occidentali di cui lui si dice “ispirato”.  Invece si è comportato come un ayatollah iraniano, impedendo alla stampa di porgli domande e “sfrugugliarlo” a dovere , costringendolo a dire non la “sua” verità, ma la “verità“. E non soltanto sulla storiaccia di Montecarlo ma anche sulle pressioni esercitate alla stregua di qualsiasi altro componente della casta per favorire suocera e cognato per far loro ottenere contratti milionari con la RAI, senza averne nè titolo nè competenza. E senza dover pagare lo scotto delle scuse dovute ai giornalisti definiti “infami” perchè facendo il loro mestiere,  hanno costretto la terza carica dello Stato ad una figuraccia  “da far pietà“, che dovrebbe avere come unico sbocco le dimissioni da una carica che Fini ha trasformato in strumento per fare spudoratamente politica contro la parte che lo ha eletto, roso da invidia e rancore. Rancore e invidia che sta facendo pagare al Paese, con l’aiuto di una trentina di personaggi privi di consenso ma nominati alla Camera all’interno di liste bloccate, quelle si sotto alcuni aspetti antidemocratiche ma che come tali non fuorno avversate nè da Fini nè dai suoi trenta comparielli. Quelli che ora,  per bocca, di Bocchino (scusate il gioco di parole)   pretendono di metter becco sul discorso che Berlusconi dovrà fare alla Camera il prossimo 29 settembre e subito dopo al Senato.  Con la tracotanza che contraddistingue Bocchino ( e i Briguglio, i Granata, i Barbareschi, etc)c’è da giurarci che se Berlusconi accettasse questa specie di preventivo “imprimatur” potrebbe sentirsi chiedere di parlare male di…Berlusconi. Presidente, non ascolti  questa gente, e poichè quel Fini là, che vende ad una società off-shore una casa non sua e poi fa finta di non sapere che cosa siano le off-shore, salvo quando deve ingiuriarla, non merita che lei gli dedichi neppure una virgola del suo messaggio agli Italiani, non si curi neppure dei suoi adepti. Se in Parlamento dovessero risultare necessari e quindi  ricattatori permanenti del suo governo, non esiti. Butti l’avvenire dietro le spalle e vada a elezioni anticipate. Come ebbe modo di dire Eleanor Roosvelt al marito, il  presidente americano che si struggeva per il proditorio attacco giapponese a Pearl Harbor, “meglio conoscere il peggio che vivere nell’incertezza”. Il Paese, come il destino, premia gli audaci. Pietro Gagliardi

FINI DEVE ANCORA RISPONDERE AD ALMENO 10 DOMANDE. IMBARAZZANTI!

Pubblicato il 27 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Nel suo intervento a pc unificati di sabato sera Gianfranco Fini ha detto poche cose sulla casa di Montecarlo: 1) Non è una reggia, anzi è un misero tugurio di 50-55 mq (ma non erano 70?) da 230mila euro 2) È stata venduta a una società segnalatagli dal cognato 3) È stata venduta a 300mila euro ma forse si poteva spuntare un prezzo più alto 4) Solo dopo la vendita ha saputo che in quella casa ci viveva in affitto il cognato 5) Quando l’ha saputo si è «colossalmente» incazzato anche se il cognato gli ha detto che pagava un regolare contratto d’affitto e che aveva sostenuto le spese di ristrutturazione 6) Ha chiesto sgarbatamente al cognato di sloggiare ma non poteva costringerlo 7) Spera che il cognato sloggi 8) Ha venduto la casa a una società off-shore perché a Montecarlo lo fanno tutti.

Per otto risposte restano ancora dieci domande. 1) Da chi è stato informato Giancarlo Tulliani che la casa di Boulevard Princesse Charlotte era in vendita? 2) Se è vero che la Printemps venne segnalata da Tulliani, con chi si è rapportato in An per seguire la questione della compravendita? 3) Quando ha scoperto che Tulliani aveva preso in affitto lo stesso appartamento ereditato dal partito e poi ceduto alla società Printemps? 4) Se Tulliani ha pagato le spese di ristrutturazione perché la fattura venne intestata dalla Tecabat alla Timara Ltd, come sostenuto da Luciano Garzelli? 5) Chi ha pagato gli arredi interni? 6) Chi ha fornito le garanzie bancarie a Tulliani per ottenere la residenza nel Principato? 7) Quando la proprietà dell’appartamento di Montecarlo ereditato dalla contessa Colleoni e censito dalle autorità monegasche è passata ad Alleanza Nazionale quali procedure sono state seguite? È stato dichiarata al fisco italiano? 8) Se è vero che la stima fu fatta dalla società che amministra il condominio, perché gli uffici del partito non si sono rivolti anche a consulenti immobiliari o esperti del settore secondo una procedura solitamente seguita da chi vende un immobile volendo trarne il massimo profitto? 9) Quali sono gli uffici di An che verificarono la congruità della cifra e consigliarono di dare il via libera? E, infine, la domanda numero 10: Perché un partito politico vende un immobile a una società off-shore senza informarsi prima su chi possiede quella società o su chi quella società l’ha costituita?

Insomma, perché il presidente della Camera, dopo tutto il gran casino di Montecarlo, non sa ancora chi si nasconde dietro le esotiche Printemps e Timara?

IL TEMPO – 27 SETTMBRE 2010

FINI: LA FURBATA DELLE NON DIMISSIONI

Pubblicato il 26 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Fini non si dimette, appende il suo futuro di presidente della Camera al filo della «certezza» che suo cognato sia, o sia stato, vista la facilità e velocità con cui le società offshore passano di mano, il proprietario della famosa casa di Montecarlo. Non basta che lui stesso abbia «sospetti», non serve che il ministro della Giustizia di Santa Lucia lo abbia certificato. No, a lui l’evidenza dei fatti non interessa, vuole la prova che sa non poter probabilmente esistere trattandosi di società sostanzialmente segreta. Insomma, una furbata che consegna il destino della legislatura nelle mani e nelle parole di un ragazzotto spregiudicato, il cognato Giancarlo Tulliani, che scorrazza in Ferrari per le vie del Principato. Con la mano destra il presidente lo scarica, con la sinistra se ne fa scudo, nel tentativo di salvare la poltrona, il nascente Fli e forse anche la famiglia.
Politicamente, il discorso di ieri sera non cambia le pedine sullo scacchiere. Il buon senso, infatti, dice che Fini dovrebbe lasciare la carica che ricopre indipendentemente dalla soluzione del giallo Montecarlo, in quanto leader di uno schieramento politico ostile alla maggioranza che non esisteva al momento della sua elezione. Ma di questo non ne fa neppure cenno, anzi, rilancia con forza e rabbia la sfida a Berlusconi sul piano personale («io non ho avvisi di garanzia», «io non ho società offshore») senza neppure avere il coraggio di citarlo direttamente. E ci aggiunge pure un ultimatum che sa (…)
(…) di ricatto quando dice: fermiamoci tutti prima che sia troppo tardi. Tutti chi? E tardi per che cosa?
È evidente che Fini vorrebbe vedere Berlusconi morto, almeno politicamente parlando. Ma non ha il coraggio di sfidarlo nell’unica arena che la politica dovrebbe darsi. Che è quella delle elezioni. Infatti allude a complotti che sarebbero organizzati dal premier in persona, ma invece che dire «adesso basta» e rompere rilancia la palla: io sto nel centrodestra, se vuoi far saltare il banco – dice in sostanza – prenditi tu, Berlusconi, la responsabilità, sapendo che il killer della legislatura pagherà qualche pegno alle urne.
Nel videomessaggio non c’è una parola di politica, un segnale che qualche cosa potrebbe cambiare nell’atteggiamento ostile nei confronti del Pdl. E in questo senso è elemento di chiarezza. Semmai qualcuno sperasse ancora in una possibilità di tregua, deve ricredersi. Il prezzo che Fini pone, e che traspare anche dalle parole di ieri, è inaccettabile e così sintetizzabile: caro Pdl, dammi un po’ di tempo per capire meglio che tipo è mio cognato, nel frattempo fammi restare ancora un po’ presidente della Camera e finto alleato in modo da poterti fare più male e, se ci riesco, pure distruggerti. Se poi scopriremo che la casa è proprio del Tulliani, farò un altro videomessaggio per dire che oltre che ingenuo sono anche stato fesso.
A questo punto Berlusconi deve valutare solo se in Parlamento c’è una maggioranza autonoma dai finiani, non in contrasto con le indicazioni uscite dalle urne, e poi decidere. Se c’è, si proverà ad andare avanti, altrimenti la via del voto anticipato sarà inevitabile.

COSI’ VA IN ONDA IL DIMESSO FINI, di Mario Sechi

Pubblicato il 26 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

TRA TUTTI I COMMENTI ALL’INFELICE E PUR ARROGANTE AUTODIFESA DI FINI SULLA BRUTTA STORIA DI MONTECARLO E DEL DI LUI COGNATO, ABBIAMO SCELTO L’EDITORIALE DI MARIO SECHI, DIRETTORE DE IL TEMPO DI ROMA. CI SEMBRA CHE SECHI ABBIA COLTO TUTTE LE CONTRADDIZIONI DI FINI E SOPRATUTTO ABBIA MESSO A FUOCO LA SUA RESA, SIA PURE INFRAMMEZZATA DALLE SOLITE BATTUTE CONTRO BERLUSCONI ‘ MAI  CITATO PER NOME DALLO STESSO FINI.  E L’AVVERTIMENTO A FINI CHE LA SUA “RESA” NON IMPEDIRA’ AI GIORNALI  E AI GIORNALISTI DI CONTINUARE A FARE IL LORO MESTIERE E RIPORTARE LE NOTIZIE, COMPRESE QUELLE CHE NON PIACCIONO ALLO STESSI FINI. ECCO L’ARTICOLO.

Signore e signori, ecco a voi il dimesso Fini. Raramente mi è capitato di vedere un leader politico che si presenta all’appuntamento della verità con le ruote sgonfie. Ventiquattr’ore prima il tam tam raccontava di un uomo pronto a dar battaglia, ma qualcosa deve aver consigliato a Gianfranco di cercare una via d’uscita dal pantano in cui s’è cacciato con i suoi fragorosi silenzi. Fini, ancora una volta, ha affidato a un monologo la sua difesa. È la conferma di una debolezza enorme. Dalle parole è emerso un profondo disagio, la consapevolezza di avere le polveri bagnate e tutti i lati del suo fortino scoperti. Neppure un avvocato con un passato burrascoso in politica e una bizzarra memoria che afferma di sapere chi è il proprietario della casa di Montecarlo è riuscito a fornirgli un assist. Se questa doveva essere la riscossa del conducator, i finiani stanno freschi. Se questo è il generale da seguire, è bene che la truppa rifletta sul da farsi. Fini è apparso immerso in una situazione familiare ingarbugliata, travolto dall’azione di un cognato-caterpillar che prima gli ha indicato il compratore per la casa, poi ha pensato bene di affittarsi il quartierino che ora non lascia nonostante Fini l’abbia implorato di farlo. E questa sarebbe la terza carica dello Stato.
Fini aveva il morale sotto i tacchi. E si è visto in maniera lampante. Persino quando ha giocato la carta delle sue dimissioni se emergerà una verità pesantissima – Tulliani dietro le società offshore – aveva il tono di chi lo faceva perché obbligato a calare qualche asso in una mano di poker dove aveva già perso tutto quello che c’era da perdere per un politico: la credibilità. Il paradiso fiscale dell’isola di Santa Lucia per Fini s’è trasformato in un inferno. Ai politici capita spesso di perdere il contatto con la realtà, di non rendersi conto che il potere non è una cambiale in bianco, che i giornali non sono buche delle lettere, che lo scenario è cambiato. Fini è ancora fermo all’era del subgoverno con Marco Follini, il periodo in cui voleva una cabina di regia per Palazzo Chigi e chiedeva a Silvio Berlusconi la testa di Giulio Tremonti e la otteneva. Fini ha continuato ad immaginare un quadro politico in cui poteva condizionare il governo fino a tenerlo in ostaggio. Lo faceva già dentro il Pdl, conta di farlo ancora con il gruppo di Futuro e Libertà. Ma se in passato questo gli è riuscito, almeno in parte, ora se non impossibile è molto difficile. Il suo discorso, soprattutto la conclusione, è figlio di questo schema mentale.
Quando chiede a Berlusconi – senza mai nominarlo – una tregua, immagina che con un colpo di telefono il presidente del Consiglio possa ordinare ai giornali lo stop sul caso Tulliani. È un errore colossale. Non so chi sia il suo consigliere su questi temi, ma se questo è il suo obiettivo, non lo raggiungerà mai. Viviamo in un altro mondo, ma Fini questo non l’ha capito e con lui molti altri politici che non colgono quel che sta accadendo. Quando ero vicedirettore di Libero, nell’estate del 2009, spiegai alla Summer School di Magna Carta che era iniziata una stagione diversa per il mondo dei quotidiani e che la politica non sarebbe più stata la stessa e ci saremmo avvicinati a tappe veloci verso un giornalismo d’inchiesta sempre più forte e marcato, come da decenni esiste in altri Paesi. Dissi chiaramente ai politici che mi chiedevano cosa stava accadendo che la Repubblica, occupandosi delle lenzuola del premier, aveva rotto un argine e che tutti gli altri – a destra e a sinistra – avrebbero a quel punto fatto altrettanto. Non per ragioni politiche, ma di mercato, edicola, copie vendute. In quel periodo a sinistra stava nascendo Il Fatto di Marco Travaglio e Antonio Padellaro e dunque in quell’area ci sarebbe stato un rimescolamento di temi e una concorrenza aspra sul piano delle inchieste giornalistiche.
Altrettanto stava succedendo sul fronte della stampa di centrodestra, con il ritorno di Vittorio Feltri a Il Giornale e l’arrivo di Maurizio Belpietro a Libero. In questo solco si è collocato anche Il Tempo. Tutto questo è accaduto non per questioni di Palazzo, ma perché il mercato editoriale premia solo i giornali che hanno identità, anima, dicono ai loro lettori cosa sono. La recessione del 2008 ha spazzato via le strampalate teorie degli esperti di marketing e si è tornati alle origini di questo mestiere: i giornali si fanno per i lettori che vanno in edicola e cercano notizie originali, non la rimasticatura di Televideo, delle agenzie o dei tg. Gli editori lo sanno e cercheranno sempre più direttori in grado di fare bene questo lavoro e tenere in piedi la baracca. Punto. Fini dovrà farsene una ragione: il caso Tulliani si esaurirà quando non ci saranno più notizie da pubblicare. Vale per lui e chiunque stia al potere e diventi protagonista di un fatto che è degno di esser raccontato e impaginato. Anche in questo caso, Fini è stato deludente: ha definito la sua vicenda un «affare privato» e ha dimenticato che lui è il Presidente della Camera e la vicenda di Montecarlo non è una robetta da liquidare in due righe. In qualsiasi altro Paese avrebbe già dovuto convocare una conferenza stampa e affrontare i giornalisti, non cavarsela con videomessaggi tristi come una telenovela sudamericana.
Cosa succederà ora? Fini ha lanciato un segnale chiarissimo: è alle corde, ha bisogno di una tregua e ha messo sul piatto anche le sue dimissioni. Ma se ripassiamo bene il suo discorso ci sono dei punti che meritano attenta riflessione: senza mai nominarlo, ha attaccato continuamente Berlusconi, il suo modo di far politica, il suo stile di vita e perfino le scelte delle sue aziende. Non sono delle buone premesse per stipulare una tregua, seppure armata. Vedremo cosa accadrà nei prossimi giorni. E quale sarà il tenore del discorso che il Cavaliere terrà in Parlamento. Ora la palla passa a lui. Ha davanti a sè due possibilità: affondare il colpo e dividere il presidente della Camera dai finiani, oppure fare la mossa di accogliere la richiesta di tregua di Fini e vedere se regge. Penso che farà così. E i giornali continueranno a fare il loro mestiere.

FINI: AFFONDATO NEI CARAIBI

Pubblicato il 25 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Editoriale di Mario Sechi, direttore de Il Tempo, secondo il quale in un Paese normale Fini avrebbe già dovuto essersi dimesso da Presidente della Camera. Ma Fini, diciamo noi, non lo farà mai, perche ritornerebbe ad essere il signor nessuno che per far parlare di sè era costretto a dire che “Mussolini era il più grande statista del secolo (scorso)” ad andare in Iraq  a far visita al feroce dittatore Saddam in compagnia del razzista francese Le Pen, a rivendicarela riderminazione dei confini con la Slovenia …..nel frattempo si attrezzava per imparare ad aiutare suocera e cognato a trasformarsi da nullafacenti in imprenditori televisivi…così va il mondo! g.

Gianfranco Fini La lettera del governo di Santa Lucia è autentica. Giancarlo Tulliani è il beneficiario delle società offshore che hanno acquistato la casa di Montecarlo. È lui il proprietario dell’appartamento venduto da An. Così Gianfranco è affondato nei Caraibi. Questo è lo scenario che abbiamo davanti e su cui dobbiamo ragionare per capire quel che accadrà nei prossimi giorni, quelli che ci separano dal discorso di Silvio Berlusconi in Parlamento il 28 settembre. Il presidente della Camera oggi farà il suo contrattacco, si dice che stia armando l’artiglieria pesante contro tutto e tutti. Vedremo cosa tirerà fuori dal suo cilindro bucherellato, oggi vivremo un’altra giornata al fulmicotone, non ci sono dubbi. C’è aria di elezioni anticipate. Fini è rimasto impigliato nella sua strategia difensiva, le sue risposte in queste settimane hanno sempre oscillato tra il nulla omissivo e la teoria del complotto.

Un po’ poco per fermare i fatti e soprattutto Il Fatto, il giornale fondato da Marco Travaglio e diretto da Antonio Padellaro che ha anticipato tutti e per primo (bel colpo ragazzi) ha raccolto la testimonianza del ministro dell’isola caraibica che confermava l’autenticità della lettera messa online da Dagospia. Lettera pubblicata poi da tutti – e sottolineo tutti – i principali quotidiani italiani. Comunque vada a finire, il caso Tulliani passerà alla storia come un gigantesco fiasco di comunicazione politica. Il presidente della Camera quando il pasticciaccio del cognato in affitto è venuto a galla, avrebbe dovuto presentarsi subito di fronte a una conferenza stampa e raccontare tutta la verità. Anche quella più scomoda e dolorosa. Ha scelto invece una linea prima omertosa, poi quella da furbetto del dico e non dico, infine – di fronte a una situazione insostenibile – ha deciso di sollevare il classico «polverone», bollare la lettera come «una patacca», far emergere, attraverso le parole di Italo Bocchino ad Annozero, la teoria del complottone, tirare in ballo i Servizi Segreti, la Spectre, James Bond. Un colossal buono per le gesta comiche del commissario Clouseau. Non bastando le barbe finte, s’è scomodato lo scontro tra potenze globali, con magari Obama impegnato a chieder lumi sull’appartamento di Montecarlo. Più che un thriller internazionale, un romanzo umoristico. Roba buona per la fiction dozzinale non per la politica. Fini ha costruito con le sue mani (e i suoi silenzi) la botola in cui è cascato. Qualcuno, nelle settimane scorse, gli aveva consigliato di cambiare passo e strategia, lasciar perdere questa linea che l’avrebbe condotto al suicidio. Niente. Forse pensava e sperava che la tempesta mediatica prima o poi si sarebbe placata, che i giornali si sarebbero stancati, che tutto si sarebbe concluso a tarallucci e vino. Grave errore.

La fortissima concorrenza che s’è creata tra i quotidiani è un toccasana per la libertà di stampa. Nessun direttore con le palle si sogna di imboscare una notizia sul caso Tulliani. Chi ce l’ha, la pubblica. E gli altri seguono a ruota e ci danno dentro con la cronaca e il commento perché è la stampa bellezza e tu non puoi farci niente. La grande lezione che viene dal caso Tulliani è che il giornalismo è più vivo che mai, con buona pace dei parrucconi di regime. I giornali hanno fatto il loro mestieraccio di sempre. Piaccia o non piaccia, questa è la verità. E ora che succede? In un Paese normale, Fini lascerebbe la presidenza della Camera. Per difendersi meglio. Per dignità istituzionale. Per rispetto di quelli che hanno creduto nella sua campagna di novello moralizzatore. Per lealtà nei confronti dei parlamentari che in buonissima fede gli hanno creduto fino a seguirlo in un’avventura spericolata come quella di Futuro e Libertà. Tutto questo Fini dovrebbe farlo se non per senso dello Stato almeno per sfuggire al ridicolo. E sarebbe la prima cosa giusta che fa dopo mesi e mesi di errori, strappi, discorsoni da statista di carta. Temo invece che non avremo questo dignitoso scenario, ma qualcos’altro. Qualcosa di terribile. Siamo alla vigilia di una guerra senza quartiere dove non si faranno prigionieri. Fini guiderà la sua battaglia personale stando seduto sullo scranno di Montecitorio. Sarà arbitro e attaccante. Guardalinee e tifoso. Allenatore e Presidente. Un paio di parti in commedia di fronte a un Parlamento che sta per trasformarsi in una trincea quotidiana dove pioveranno palle di cannone. I finiani ieri hanno già fatto balenare l’antipasto. Per loro (Italo Bocchino dixit) le parole del ministro della Giustizia di Santa Lucia «non provano nulla» perché l’isola «è un paradiso fiscale dove si generano società offshore e si sa come vanno le cose…».

Appunto, caro Bocchino, se «si sa come vanno le cose…» in quel paradiso fiscale nel mar dei Caraibi, un leader politico non autorizza la vendita di un appartamento ereditato da An per volontà di una donna di nobili principi come la contessa Anna Maria Colleoni, a una società che ha sede proprio in quel posto dove «si sa come vanno le cose…». Se «si sa come vanno le cose…» non si consente al cognato di prendere in affitto un appartamento a Montecarlo da un’altra società che ha sede sempre in quel posto dove «si sa come vanno le cose…». Se «si sa come vanno le cose…», non si impartiscono ordini supremi e inderogabili per concludere transazioni immobiliari fiscalmente opache, scaricando la responsabilità sul povero senatore Pontone, l’unico che in questa vicenda ha la coscienza a posto. Se «si sa come vanno le cose…», non si svende un bene al primo che passa per un paradiso fiscale dove «si sa come vanno le cose…». Se «si sa come vanno le cose…» non si alza il sopracciglio con fastidio e non si grida al complotto quando Il Corriere della Sera, la Repubblica, Il Giornale, Il Tempo, Libero, l’Espresso e tutta la stampa in coro ti chiede in prima pagina come mai un tuo parente firma un contratto d’affitto con una società del posto dove «si sa come vanno le cose…».

Se «si sa come vanno le cose…», chiedi a tuo cognato come mai conosce certa gente che lavora in quell’isola dove «si sa come vanno le cose…» e lo inviti a lasciare la casa che casualmente era patrimonio del partito di cui eri leader, giusto perché quello – come dice il tuo fido Bocchino – «è un paradiso fiscale dove si generano società offshore e si sa come vanno le cose…». Se «si sa come vanno le cose…», allora non si fanno queste cose.

FINI, TRADITORE E LADRO DI SOGNI

Pubblicato il 25 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

IN ATTESA DI CONOSCERE LA “VERITA’” DI FINI SULLA QUESTA BRUTTA STORIA DI MONTECARLO, PUBBLICHIAMO QUESTO ARTICOLO DI MARCELLO VENEZIANI NEL QUALE CI RICONOSCIAMO, INSIEME AI TANTI RAGAZZI CHE VENEZIANI EVOCA NEL SUO ARTICOLO. g.

di Marcello Veneziani

Io so chi c’è dietro le carte che accusano Fini. So chi le ispira, conosco bene il mandante. Non c’entra affatto con Palazzo Chigi, i servizi segreti, il governo di Santa Lucia. È un ragazzo di quindici anni che si iscrisse alla Giovane Italia. Sognava un’Italia migliore, amava la tradizione quanto la ribellione, detestava l’arroganza dei contestatori almeno quanto la viltà dei moderati, e si sedette dalla parte del torto, per gusto aspro di libertà. Portava in piazza la bandiera tricolore, si emozionava per storie antiche e comizi infiammati, pensava che solo i maledetti potessero dire la verità.
Quel ragazzo insieme ad altri coetanei fondò una sezione e ogni mese facevano la colletta per pagare tredicimila lire di affitto, più le spese di luce, acqua e attività. Si tassavano dalla loro paghetta ma era solo un acconto, erano disposti a dare la vita. Il ragazzo aveva vinto una ricca borsa di studio di ben 150mila lire all’anno e decise di spenderla tutta per comprare alla sezione un torchio e così esercitare la sua passione politica e anche di stampa. Passò giorni interi da militante, a scrivere, a stampare e diffondere volantini. E con lui i suoi inseparabili camerati, Precco, Martimeo, il Canemorto, e altri. Scuola politica di pomeriggio, volantini di sera, manifesti di notte, rischi di botte e ogni tanto pellegrinaggi in cerca di purezza con tricolori e fazzoletti al collo. Erano migliaia i ragazzi come lui. Ce ne furono alcuni che persero la vita, una trentina mi pare, ma non vuol ricordare i loro nomi; lo infastidiva il richiamo ai loro nomi nei comizi per strappare l’applauso o, peggio, alle elezioni per strappare voti. Perciò non li cita. Sa solo che uno di quei ragazzi poteva essere lui.
È lui, il ragazzo di quindici anni, il vero mandante e ispiratore delle accuse a Fini. Non rivuole indietro i soldi che spese per il torchio, per mantenere la sezione, per comprare la colla. Furono ben spesi, ne va fiero. Non rivuole nemmeno gli anni perduti che nessuno del resto può restituirgli, le passioni bruciate di quel tempo. E nemmeno chiede che gli venga riconosciuto lo spreco di pensieri, energie, parole, opere e missioni che dedicò poi negli anni a quella «visione del mondo». Le idee furono buttate al vento ma è giusto così; è al vento che le idee si devono dare. Quell’etichetta gli restò addosso per tutta la vita, e gli costò non poco, ma seppe anche costruirvi sopra qualcosa. No, non chiede indietro giorni, giornali, libri, occasioni e tanto tanto altro ancora.
Però quel che non sopporta è pensare che qualcuno, dopo aver buttato a mare le sue idee e i loro testimoni, dopo aver gettato nel cesso quelle bandiere e quei sacrifici, dopo aver dimenticato facce, vite, morti, storie, culture e pensieri, possa usare quel che resta di un patrimonio di fede e passione per i porci comodi suoi e del suo clan famigliare. Capisce tutto, cambiare idee, adeguarsi al proprio tempo, abiurare, rinnegare, perfino tradire. Non giustifica, ma capisce; non rispetta, ma accetta. È la politica, bellezza. E figuratevi se pensa che dovesse restare inchiodato alla fiamma su cui pure ha campato per tanto tempo. Però quel che non gli va giù è vedere quelle paghette di ragazzi che alla politica dettero solo e non ebbero niente, quei soldi arrotolati di poveracci che li sottraevano alle loro famiglie e venivano a dirlo orgogliosi, quelle pietose collette tra gente umile e onesta, per tenere in vita sezioni, finire in quel modo. Gente che risparmiava sulla benzina della propria Seicento per dare due soldi al partito che col tempo finirono inghiottiti in una Ferrari. Gente che ha lasciato alla Buona Causa il suo appartamento. Gente che sperava di vedere un giorno trionfare l’Idea, come diceva con fede grottesca e verace. E invece, Montecarlo, i Caraibi, due, tre partiti sciolti nel nulla, gioventù dissolte nell’acido. È questo che il ragazzo non può perdonare.

Da Berlusconi il ragazzo non si aspettava nulla di eroico, e neanche da Bossi o da Casini. E nemmeno da Fini, tutto sommato. Capiva i tempi, i linguaggi e le esigenze mutate, le necessità della politica, il futuro… Poteva perfino trescare e finanziare la politica con schifose tangenti; ma giocare sulla pelle dei sogni, giocare sulla pelle dei poveri e dei ragazzini che per abitare i loro sogni si erano tolti i due soldi che avevano, no, non è accettabile.
Attingere da quel salvadanaio di emarginate speranze è vergognoso; come vergognoso è lasciare col culo per terra tanta gente capace e fedele nei secoli, che ha dato l’anima al suo partito ed era ancora in attesa di uno spazio per loro, per favorire con appaltoni rapidi e milionari il suddetto clan famigliare. Lui non crede che il senso della vita sia, come dice Bocchino in un’intervista, «Cibo, sesso e viaggi» (si è scordato dei soldi).
Il vero ispiratore e mandante dell’operazione è lui, quel ragazzo di quindici anni. Si chiama Marcello, ma potrebbe chiamarsi Pietrangelo o Marco. Non gl’interessa se Gianfrego debba dimettersi e andarsene all’estero, ai Caraibi o a Montecarlo, o continuare. Lo stufa questo interminabile grattaefini. È pronto a discutere le ragioni politiche, senza disprezzarle a priori. Sentiremo oggi le sue spiegazioni (ma perché un videomessaggio, non è mica Bin Laden). Però Fini non ha diritto di rubare i sogni di un ragazzo, di un vecchio, di un combattente. Non ha diritto di andarsi a svendere la loro dignità, i loro sacrifici, le loro idee. Non può sporcare quel motto di Pound che era il blasone di quei ragazzi; loro ci hanno rimesso davvero, lui ci ha guadagnato. Quel ragazzo ora chiede a Fini solo un piccolo sforzo, adattare lo slogan alla situazione reale e dire: se un uomo è disposto a svendere casa, o non vale niente la casa o non vale niente lui. E la casa valeva.

LA CORRISPONDENZA DEGLI INVIATI DELLA “STAMPA” DA SANTA LUCIA

Pubblicato il 24 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

Santa Lucia, il ministro della Giustizia
“La lettera sulle società è autentica”
La casa ex An in Boulevard Princesse Charlotte a Montecarlo

Dall’isola la conferma sulle carte che accusano il cognato di Fini.
FRANCESCO SEMPRINI, INVIATO A SANTA LUCIA

La lettera che il ministro della Giustizia di Santa Lucia ha inviato al primo ministro dell’Isola King Stephenson riguardo le società off shore che farebbero capo a Giancarlo Tulliani, il cognato di Gianfranco Fini, «è autentica».

E’ quanto ha comunicato l’attorney general dello stato caraibico Rudolph Francis nel corso di una conferenza stampa riservata esclusivamente ai giornalisti italiani. Il ministro della Giustizia ha spiegato che l’indagine preliminare sulle due società off shore (la Timara e la Primntemps) è stata aperta dopo aver preso atto del coinvolgimento dell’isola di Santa Lucia nei fatti di politica italiana.

Alla luce dell’indagine Francis ha inviato un “confidential memo” al primo ministro la cui copia è stata pubblicata da due quotidiani dominicani. Dopo aver annunciato l’avvio di un’ulteriore indagine, il ministro della Giustizia ha espresso preoccupazione per la fuga di notizie riguardo alla lettera. «Il nostro sistema di comunicazione- ha detto- ha dimostrato una chiara vulnerabilità. Chiariremo l’accaduto, in ogni caso quella lettera è autentica».

Nella lettera Francis spiegava al primo ministro Stephenson King che dietro le società off-shore che hanno comprato l’appartamento di Montecarlo ci sarebbe Giancarlo Tulliani, cognato di Gianfranco Fini e su quel documento si è scatenata la polemica politica, con i finiani che hanno accusato l’entourage vicino al premier Berlusconi di dossieraggio. «Dopo le conferme giunte dal Governo di Santa Lucia, se i finiani hanno senso di dignità civile e politica, devono scusarsi con tutti gli italiani oltre che con gli organi di stampa che hanno posto domande fondate e legittime, ottenendo insulti e intimidazioni. Ora è il momento delle assunzioni di responsabilità, senza ulteriori cortine fumogene», attacca subito il portavoce del Pdl Daniele Capezzone. E Chicchitto invita Fini «a fare i conti con la realtà che gli si presenta davanti».

da LA STAMPA  – 24 settembre 2010

MONTECARLO: LA VERITA’ DEL MINISTRO CARAIBICO E QUELLA DI FINI

Pubblicato il 24 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Ripresa da tutta la stampa italiana e forse mondiale, è ormai di dominio pubblico la notizia che il ministro della giustizia dell’Isola caraibica di Santa Lucia, dove hanno sede le due società off-shore che compaiono nella doppia compravendita dell’appartamento di Montecarlo che era di AN e che ora risulta abitato dal cognatino di Fini, Tulliani,  ha convocato una conferenza stampa alle ore 18 (ora italiana) di oggi ed ha confermato che il documento pubblicato a Santo Domingo e ripreso dalla stampa italiana nel quale egli rendeva noto che le due società sono riconducibili alla persona di Giancarlo Tulliani è vera. “L’ho scritta io, ha dichiarato il ministro, ed è un memorandum per il primo ministro. Doveva rimanere riservata e forse per una falla nel sistema di controllo è finita ai giornali. Ma il documento è vero ed autentico”. La dichiarazione del ministro che è rintracciabile sui siti di tutta la stampa italiana mette fine alle cretinate dei vari Bocchino, Granata, Briguglio circa la natura di patacca del documento, costruita ad arte dai servizi segreti deviati, ovviamente al soldo di Berlusconi.I tre però non desistono e più realisti del re continuano a sostenere che nonostante la dichiaraizone di autenticità del sottoscrittore del documento che non è un qualsiasi Bocchino ma il Ministro di uno Stato sovrano,  sempre di patacca si tratterebbe. Intanto per domani è stato annunciato un video-conferenza di Fini che sarà trasmesso sui siti internet vicino al suo partito e nel quale Fini dovrebbe, finalmente,  dire la sua verità sulla casa di  Montecarlo. Vivaddio, era ora, anche se il condizionale è d’obbligo e potrebbe trattarsi di un messaggio simile ai famosi otto punti di agosto nei quali tutto si diceva meno che la verità. D’altra parte lascia perplessi il fatto che Fini sfugga al contatto diretto con i giornalisti. Lui paladino della libertà di stampa che  “non è mai abbastanza” sistematicamente evita di sottoporsi alle domande dei giornalisti come fanno tutti, come ha fatto Verdini di recente. Invece di rilasciare dichiarazioni e basta, o affidarsi ad una video conferenza “solitaria”, Fini convochi una vera e propria conferenza stampa e si sottoponga al fuoco di fila  delle domande dei giornalisti. Anche per dimostrare di che tempra democratica è lui. Ma Fini tutto sa fare meno che essere e praticare la democrazia.

Ma davvvero la democrazia in Italia e’ in pericolo?

Pubblicato il 24 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

La preoccupazione che in Italia sia in pericolo la democrazia è l’ultima dichiarazione, in ordine di tempo, rilasciata dall’alter ego dell’on. Fini, cioè l’on Bocchino. Poco o niente preoccupato della dimensione stratosferica della sua preoccupazione, Bocchino l’ha rilasciata subito dopo che dall’Isola di Santa Lucia, nei Caraibi, è rimbalzata la notizia che la lettera a firma del ministro della Giustizia di quella repubblica  che individua nel signor Giancarlo Tulliani  il titolare delle società off-shore a cui è stato venduto l’ormai arcinoto appartamento di Montecarlo e quindi  quale vero proprietario dell’appartamento in parola  e’ vera e vera è la firma apposta sul documento pubblicato dapprima su giornali di Santo Domingo e poi ripresi dalla quasi tutta la stampa italiana. Ieri sera Bocchino, ad Anno Zero, condotto da Santoro in versione superantiberlusconiana, in totale assenza di contradditorio ha dichiarato che quel documento è una “patacca” costruita apposta per affondare Fini ed ha indicato l’autore del malaffare in un giornalista che non era presente, non poteva difendersi, e che ha annunciato querela. La storia della patacca è andata di pari passo con l’altra, quella che voleva i servizi segreti, veri eo deviati (secondo l’altro pasaradan finiano cioè Briguglio) coinvolti nell’opera di dossieraggio contro Fini per la storiaccia di Montecarlo. I servizi segreti e la Guardia di Finanza sono intervenuti con formali dichiarazioni di smentita cui si è aggiunto un durissimo comunicato della presidenza del Consiglio che ha definito diffamatorie le accuse di dossieraggio rivolte alle istituzioni dello Stato. Nel frattempo è intervenuta la richiamata dichiarazione del ministro caraibico rilasciata non ai giornali berlusconiani ma al Fatto quotidiano, il giornale di Travaglio che pur relegando la notizia fra le riga del catenaccio e non  nel titolo in prima pagina dedicato all’affair monegasco, l’ha dovuta comunque pubblicare. A questo punto è intervenuto Bocchino con la sua esilarante  preoccupazione per la democrazia italiana che sarebbe in pericolo perchè si mette sotto pressione il presidente della Camera. Non vogliamo entrare qui nel merito della vicenda che tutti ormai conoscono. Ma ci domandaimo: perchè mai l’on. Fini non dovrebbe essere oggetto di approfondimenti giornalistici su questioni che se pure non dovessero investire aspetti penali, di certo investono aspetti etici e comportamentali? Forse che Fini è al di sopra di ogni sospetto o, peggio, al di sopra di ogni domanda? Non è mica l’unico uomo di potere che viene sottoposto alle indagini giornalistiche che non possono essere definiti dossieraggi, specie se supportati da documenti, testimonianze, dichiarazioni che sono da sempre le caratteristiche delle indagini giornalistiche. Che qualche volta colpiscono nel segno e mandano a gambe in aria anche superpotenti. Chi non ricorda, valga lui per tutti, il presidente Nixon. Se non ci fosse stata l’indagine giornalistica di due cronisti del Wasghinton Post, mai si sarebbe saputa la verità sullo scandalo Wotergate che costrinse Nixon alle dimissioni. Nixon, che era l’uomo più potente del mondo, che era stato eletto trionfalmente per la seconda volta presidente della più grande potenza del mondo. Sia chiaro, Fini non è nemmeno il dito mignolo di Nixon e di certo non ha commesso le infrazioni di Nixon ma ci sono dubbi su fatti che come abbiamo ricordato investono aspetti etici sui quali gli italiani hanno il diritto di sapere la verità. O la racconta Fini o la raccontano i giornalisti. Senza che ciò metta in pericolo la nostra democrazia, che non sarebbe in pericolo nemmeno se ci fossero centomila Bocchino in circolazione. g.