Gianfranco Fini e Francesco Rutelli «Non abbiamo niente da guadagnare da un modello di democrazia populista dove c’è un miliardario che suona il piffero e tutti i poveracci gli vanno dietro».
Pierluigi Bersani, segretario del Pd. Adnkronos, 13 dicembre 2009.

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«E adesso, che succederà? I “coraggiosi” (o i “traditori”, a seconda dei punti di vista) rinunceranno alla loro scelta politica, culturale, ideale? Torneranno indietro, all’ovile? Si accomoderanno sulle loro poltrone con su scritto “riservato”? Difficile. Anzi, impossibile. No, nessuno seguirà il pifferaio di Arcore».
Filippo Rossi, direttore di Fare Futuro Web Magazine. Ansa, 4 settembre 2010.

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Due notizie d’agenzia che hanno lo stesso comune denominatore: il pifferaio Berlusconi. Una metafora usata dall’esponente del principale partito della sinistra italiana e da quello che si ritiene debba essere uno degli intellettuali di riferimento della nuova destra che si ispira a Gianfranco Fini. Opposti che si toccano. È un caso? No, non lo è. Siamo di fronte a una spia rossa accesa che segnala un grosso problema nel motore della politica italiana. A questo punto è meglio far entrare l’auto in officina e dare un’occhiata al motore per capire cosa non va. Lo facciamo dopo aver sentito Fini ieri alla festa dell’Api di Francesco Rutelli e in attesa del suo intervento oggi a Mirabello. Fini userà anche oggi un tono diverso, ne sono sicuro, ma i finiani utilizzano lo stesso linguaggio del Pd e questo a gran parte dei commentatori della politica appare come un fatto normale.

E invece non siamo dentro una semplice questione semantica, sotto le parole c’è un retroterra politico completamente sconvolto. La crisi d’identità del Pd e della sinistra in generale è in corso dal 1989, anno del crollo del Muro di Berlino. I postcomunisti non si sono mai scossi quelle macerie di dosso. La loro seduta di autocoscienza da allora è permanente ed è passata attraverso varie «cose» e sigle fino a snocciolare nel corso della nostra storia contemporanea un rosario di sigle (Pci-Pds-Ds-Pd) e aggregazioni politiche (Ulivo, Unione, Nuovo Ulivo) che nascondevano l’incapacità di formare un soggetto unico della sinistra, un vero partito socialdemocratico. Non vi è stata mutazione genetica, solo un camaleontico cambio di pelle, un continuo rigenerarsi dell’abito dentro un corpo sempre più stanco e privo di idee nuove. Quel che sta accadendo nell’area politica finiana invece è qualcosa che somiglia a una metamorfosi provocata dalle radiazioni dell’antiberlusconismo. Una mutazione genetica che avvicina sempre più i finiani a un surreale progressismo da terza via. Questo gruppo più o meno vasto di persone dedite alla politica, infatti, non ha solo cambiato sigla, ma sta tentando con un’operazione culturale spericolata di mutare i punti di riferimento culturali della destra classica. Il risultato è un guazzabuglio ideologico, la costruzione di un Pantheon di icone a dir poco imbarazzante per chiunque abbia un po’ di confidenza con la filosofia, la letteratura, il cinema, l’arte, la televisione, la cultura tout court, cioè con tutto quel materiale che poi diventa patrimonio di un partito politico e si traduce in azione di governo e/o opposizione. I finiani offrono a un elettore che fino a ieri credeva nel valore della tradizione, nei fondamenti del triangolo Dio, Patria, Famiglia, un nuovo carnet di biglietti per entrare in un teatro dove si suona uno spartito che fino a poco tempo fa era degli avversari, cioè della sinistra. Molto istruttiva in questo senso è la lettura del Secolo d’Italia, in passato quotidiano del Movimento sociale di Giorgio Almirante, poi organo ufficiale di Alleanza nazionale e oggi equivoco «quotidiano nel Pdl» con una linea politica completamente fuori dal Pdl e inserita pienamente invece in quella finiana ora in precario e bizzarro divenire.
A pagina 8 del Secolo d’Italia ieri c’era un articolo firmato da Fiorello Cortiana intitolato «La sfida di Fli? Può ripartire dall’ecologia». A moltissimi quella firma non dirà granché e ad altrettanti l’argomento può sembrare pura ricerca di eccentricità. Non è così. Cortiana è l’espressione di un mondo che oggi viene corteggiato e a sua volta corteggia i finiani, è stato eletto ben due volte senatore dei Verdi, negli anni Settanta faceva parte di Lotta Continua, nel ‘77 era nei Collettivi giovanili, è un non nuclearista e, naturalmente, un antiberlusconiano. E scrive sul Secolo d’Italia, giornale che si autodefinisce «nel Pdl». È un numero qualsiasi di un giorno qualsiasi di un giornale che però non è qualsiasi ma, come leggiamo nella gerenza, il «quotidiano di Alleanza nazionale», diretto dalla finiana Flavia Perina e amministrato dal finiano Enzo Raisi. Non penso affatto che i giornali e le culture di partito debbano essere monolitiche o monocordi, ma in politica un conto è essere plurali, altro è mostrare un minimo di coerenza. Proporsi come destra (nuova o riverniciata, poco importa) e poi parlare lo stesso linguaggio, adottare gli stessi miti di quello che dovrebbe essere il tuo avversario politico, si traduce in un’operazione di doppiezza che nasconde il vero nocciolo della questione: Fini e i finiani non riconoscono più Berlusconi come capo del centrodestra. O meglio, obtorto collo devono accettare il responso delle urne e la sua leadership, ma sotto sotto sognano la dissoluzione del berlusconismo come fenomeno sociale (commettendo lo stesso errore storico della sinistra) e si compiacciono sul Secolo d’Italia della loro superiorità antropologica (come la sinistra) perché sono «un popolo festoso in cui nessuno intona “Meno male che Silvio c’è”».
Si sentono già al di sopra di chi vota l’uomo di Arcore, sono già saliti in terrazza e discettano delle sorti del Paese sorseggiando lo champagne gentilmente offerto dai mecenati del ribaltonismo, hanno esordito in società e già realizzato – contenti loro – la vera scissione dal partito, irreversibile perché ha dentro il virus dell’antiberlusconismo, la separazione da un mondo che considerano ormai lontano dalla loro torre eburnea, dopo averne goduto i frutti (posti, cariche, visibilità) e aver contribuito a fondarlo, quel mondo. È un caso di dissociazione da manuale. E infatti, nonostante tutto questo, si sentono ancora nel Pdl ma rivendicano di essere la terza gamba della coalizione. Un pasticcio. Cambiare idea è possibile, ma stare nella stessa alleanza comportandosi come un partito nel partito è più difficile. Vedremo oggi se Fini sarà più o meno doppio dei finiani.