Pubblichiamo un estratto dell’ultimo libro di Davide Giacalone «Terza Repubblica», edito da Rubbettino. Il giornalista, che collabora con Rtl, «Il Tempo» e «Libero», descrive la situazione in cui si trova l’Italia. Secondo l’autore il Paese ha le risorse e la passione per riprendere la via dello sviluppo economico e della crescita civile ma deve chiudere la Prima Repubblica, superare la Seconda e aprirsi alla Terza Repubblica. Di seguito quasi integralmente il capitolo «Bipolarismo bislacco».
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi L’Italia in preda alle convulsioni del manipulitismo scoprì il bipolarismo. Un bipolarismo che da noi non ha storia e non ha tradizioni. Lo si scoprì non grazie a una vocazione, che non c’era, e neanche grazie ai referendum sulla legge elettorale o alla legge firmata da Sergio Mattarella (detta «mattarellum», da Giovanni Sartori), perché nulla di tutto questo avrebbe condotto in quella direzione. Lo si scoprì grazie, o, se si preferisce, a causa di Silvio Berlusconi. La sua «discesa in campo» non si limitò a occupare lo spazio lasciato vuoto dal collasso della Democrazia cristiana e del Partito socialista, da quelle forze che avevano dato vita al centrosinistra, ma portò con sé una rivoluzione logica nel fare politica, affermando che tutte le forze erano buone per opporsi a un governo che sarebbe nato attorno ad un nucleo composto dal vecchio Partito comunista e dalla corrente di sinistra della dc. Coalizzò tutto ciò che era contro quella prospettiva, e con questo vinse le elezioni del 1994. Quello è l’atto di nascita del bipolarismo. Attorno a quel gesto si è a lungo teorizzato, ed è anche nata una scuola di pensiero secondo cui il bipolarismo sarebbe stato la soluzione di tutti i mali. Finalmente l’Italia entrava nel novero delle democrazie compiute, dando agli elettori la possibilità di scegliere e creando le condizioni per far sì che chi vince governa e chi perde va all’opposizione. Le cose sono andate in modo assai diverso. La coalizione messa su da Berlusconi si sfasciò nel giro di pochi mesi, complici le pressioni esercitate dal Quirinale e, naturalmente, anche a causa delle obiettive distanze interne fra le diverse componenti. La Lega abbandonò i vincitori, D’Alema riconobbe nei seguaci di Bossi «una costola della sinistra», e nacque un governo per il quale nessuno aveva mai votato, il governo Dini. Come collaudo, non era un granché. Dopo fu la coalizione denominata Ulivo a vincere le elezioni, nel 1996, con Prodi in testa.
Ai vincitori non bastò certo un Quirinale meno ostile per potere mettere riparo alle divisioni interne, così che la maggioranza cambiò (grazie all’apporto di Francesco Cossiga) e la legislatura si condusse avvicendando quattro governi. Come può, tutto questo, chiamarsi bipolarismo? Difatti non lo è. Berlusconi non ne era solo l’inventore, ne era anche l’unico perno, l’interprete solitario. Se lui aveva coalizzato tutto quanto serviva a battere la sinistra, la sinistra rispose coalizzando tutto quanto fosse utile a battere lui. Nel giro di due anni, dal 1994 al 1996, insomma, la sinistra si era berlusconizzata, ne aveva mutuato il metodo pur di strappargli la vittoria elettorale. Procedendo con questo metodo si sono creati due poli incarnati in due coalizioni che servono solo a vincere le elezioni, ma poi rendono quasi impossibile governare. E, del resto, basterà porre mente a un dato per comprendere l’assurdità nella quale ci troviamo a vivere: dal 1948 al 1992 il governo non ha mai perso le elezioni, le maggioranze si sono allargate in Parlamento, si sono sperimentate formule nuove, ma le forze di governo hanno sempre raccolto la maggioranza assoluta dei consensi liberamente espressi dagli elettori; dal 1992 al 2008 il governo non ha mai vinto le elezioni. Va bene che l’alternanza è un valore, ma si deve essere assai ottusi per non rendersi conto che questa è una patologia. *** Da nessuna parte esiste il sistema perfetto (celebre il detto di Churchill, secondo il quale la democrazia è il peggiore sistema di governo esistente, se si escludono tutti gli altri), ma, di sicuro, il più strampalato è quel sistema che pretende di conciliare il bipolarismo con un assetto istituzionale concepito per il pluripartitismo. E siamo noi. Dunque succede che per vincere si coalizza tutto il coalizzabile, ma, poi, il governo dipende dalla propria coalizione e le diversità, anziché eliminarsi, si esaltano nel corso della legislatura.
A quel punto o il governo decide, governa, e in quel caso cade perché perde la sua maggioranza originaria, o la conserva, se la tiene buona, pagando il prezzo di non decidere e non governare, almeno sulle materie che possono creare dei problemi. Un capolavoro della dissennatezza. E non basta: per vincere si arruolano anche estremismi francamente inguardabili e improponibili, residuati storici, stravaganze campanilistiche, sopravvenienze d’altri continenti (se il parlamentare dell’Oceania fosse stato in un film di Totò se ne sarebbe potuto ridere), se si vince con uno scarto risicato di voti e di eletti tutto questo caravanserraglio diventa determinante, e non nel suo insieme, ma in ciascuna sua variopinta componente, il governo dipende da ciascuno di loro. Ecco perché non è affatto vero che chi vince governa. Al massimo si può dire che chi vince va al governo, ma non è la stessa cosa. Come ha fatto a reggere, allora, il bipolarismo? Ha retto perché viveva del conflitto elettorale, che in Italia si rinnova praticamente ogni anno, e perché c’è il suo inventore, il suo perno, che ancora lo alimenta. Berlusconi. Insomma, non vorrei essere irriverente, ma come definirebbe, ogni persona di buon senso, la coalizione di sinistra se non come il raggruppamento dove si trovano tutti quelli che sono contro Berlusconi? Toglieteglielo e nasceranno immediatamente diverse sinistre, sancendo il divorzio fra il massimalismo antagonista e il pragmatismo riformista, fra il ribellismo antioccidentale e il rispetto dei rapporti con Stati Uniti e Israele. Toglietelo alla destra e sarà sancito il divorzio fra chi vuol fare il federalismo in Europa e chi se lo vuol fare in casa, tra chi guarda alle libertà del mercato e chi guarda all’uso invadente della spesa pubblica. *** Lo sfruttamento politico delle vicende giudiziarie ha prodotto disastri, fra i quali due vale la pena sottolineare. Il primo riguarda il giudizio politico sui fatti e sulle persone. Non credo Giulio Andreotti, come altri governanti, siano immuni da responsabilità, anzi, credo ne abbiano di pesanti, nella gestione del potere fatta in Sicilia, e non credo che la vicinanza con certi ambienti imprenditoriali, che coinvolse anche i comunisti, costando la vita a Pio La Torre, possa meritare altro che un giudizio negativo. Ma se si punta tutto, come fece la sinistra giudiziaria guidata da Luciano Violante, sulla condanna penale di Andreotti, quando poi arriva l’assoluzione che si fa? Si riscrive la storia che si era prima riscritta (illecitamente) con le carte dell’accusa? È evidente a qualsiasi persona civile e ragionevole che una cosa sono le responsabilità politiche e altra cosa quelle penali.
Delle prime posso liberamente parlare, portando argomenti alla mia tesi, ma delle seconde possono parlare solo i tribunali. Se, invece, mi faccio forte delle seconde perché non ho argomenti politici, quando le accuse cadono resto come un citrullo, per giunta incivile. Il secondo disastro consiste nel fatto che se descrivo la parabola politica di Berlusconi puntando tutto sui suoi interessi, anzi, sui suoi affari, per giunta descrivendoli come criminali, mettendo in evidenza che solo per quelli egli si muove e ricordando i tanti procedimenti penali che confermano questa tesi, poi, come spiego i milioni di voti che prende? Tutti complici, tutti criminali come lui, o tutti ipnotizzati? E dato che la coalizione da lui guidata ha preso e continua a prendere la maggioranza relativa dei voti degli italiani, cribbio, la trappola logica della criminalizzazione conduce a ritenere criminale metà dell’Italia. Una totale follia. (da Terza Repubblica – Edizioni Rubettino- Davide Giacalone)