Il discorso di Gianfranco Fini a Mirabello è politicamente importante, ma in realtà per un paio di cose non dette che invece andavano chiarite subito. Fini non è riuscito a mettere la parola «fine» sulle due partite che si sono aperte quest’estate: 1. la vicenda davvero imbarazzante dell’abitazione monegasca occupata da Giancarlo Tulliani, il cognato in affitto; 2. il rapporto ormai logoro con il Pdl, il suo leader Silvio Berlusconi e l’elettorato di centrodestra che l’ha votato. Quello di Fini è stato un intervento eccessivamente lungo, questo ha costretto il Presidente della Camera a recitare uno spartito in due tempi.

Il primo duro e polemico con il Pdl, abbastanza efficace per far emergere l’antiberlusconismo dei suoi ammiratori; il secondo in calando, senza forza, come un ciclista che scala la vetta ma poi arriva spompato al traguardo. Fini era preparato a colpire i suoi avversari interni con la sua nota abilità di oratore, ma è risultato insufficiente nella proposta e nella spiegazione della sua missione politica. Quando un leader prepara un discorso che deve essere il lancio di una svolta, non basta solo attaccare, deve anche avere un obiettivo concreto da dichiarare. E questo è mancato clamorosamente, tanto da lasciare con l’amaro in bocca persino l’opposizione che con Pier Luigi Bersani non ha nascosto la sua cocente delusione. Fini ha giocato con la tattica, tenendo in mente il suo bersaglio minimo: cercare di tenere in piedi la maggioranza, andare avanti e provare a organizzare qualcosa di più di una festa a Mirabello. Resta però la sensazione netta di una comunicazione monca, senza il colpo finale, priva di una sorpresa. Quella che un leader di partito è obbligato a dare in frangenti come questo. Per raggiungere questo scopo Fini avrebbe dovuto annunciare la nascita di un nuovo partito, ma non potendo fare ancora lo strappo, il suo discorso s’è chiuso come un urlo strozzato in gola. Fini ha delineato in lungo e in largo le ragioni di uno strappo insanabile, dell’incompatibilità con Silvio Berlusconi e il suo partito, è arrivato a dire che «il Pdl non c’è più» ma la logica conseguenza del suo discorso, quello che tutti si aspettavano a quel punto, cioè la nascita di una nuova formazione politica, sulle sue labbra non è mai affiorata.
É un punto debole enorme della comunicazione finiana e fa scopa con l’altro silenzio, ancor più imbarazzante. Fini non ha spiegato – e questo è il minimo che ci si attende da un leader politico della sua esperienza – perché Giancarlo Tulliani aveva un contratto d’affitto a Montecarlo in un appartamento che fu ereditato da Alleanza nazionale e poi fu venduto a due società con sede nel paradiso fiscale delle Piccole Antille. Ha liquidato la faccenda accusando i giornali di «infamia», ha detto di attendere sereno il giudizio della magistratura e così facendo ha cercato di liquidare come una questione di carta bollata e aula di tribunale un tema che invece è – e rimane – squisitamente politico. Il caso Montecarlo ieri non s’è chiuso, resta aperto per volontà dello stesso Fini che con il suo silenzio alimenta tutti i sospetti su Tulliani, la vendita dell’abitazione e la gestione dell’eredità della contessa Colleoni da parte di An. Poteva e doveva – così si fa in tutte le democrazie dove la stampa è libera, e in Italia lo è – dare spiegazioni esaurienti sul tema e chiudere la faccenda una volta per tutte. Non l’ha fatto e questo per me resta un mistero poco buffo. Nel dipingere le vicende del partito Fini, inoltre, ha svolto una narrazione che non corrisponde alla verità: Fini non è stato espulso dal partito, è stato oggetto di un documento duro nei suoi confronti, ma non di una cacciata. I suoi esponenti in direzione hanno votato contro quel documento e dunque, almeno dal punto di vista delle regole invocate dallo stesso Fini, la partita è regolare anche se giocata con colpi pesanti da entrambe le parti. Questo aspetto della cacciata emergerà con forza nei prossimi giorni. É chiarissimo infatti che sia Fini che Berlusconi cercano di imputare all’avversario «la colpa» del patatrac.
Come in ogni divorzio che si rispetti, la causa scatenante va attribuita all’altro. Questo perché stiamo entrando in uno scenario in cui le elezioni – presto o tardi – sono un’opzione che non si può escludere a priori, patto o non patto. Fini ha proposto a sua volta un accordo per andare avanti, ma nella sostanza il governo da oggi si trova nella difficile condizione di dover contrattare con un soggetto che non è (ancora) un partito ma si comporta come tale, il programma della seconda parte della legislatura. Il vero nocciolo del ragionamento finiano, al di là degli attacchi, delle polemiche, delle randellate, del sarcasmo, delle rasoiate a Giulio Tremonti (bersaglio continuo del discorso insieme alla Lega), ha fatto la sua comparsa quando Fini ha detto chiaramente che il patto in cinque punti proposto da Berlusconi è pronto a sottoscriverlo, ma bisogna andare al di là dei titoli di quel patto. Questo è l’annuncio di una stagione di conflittualità interna ben più aspra di quanto abbiamo visto finora. Fini ha invitato l’ex alleato a dialogare, ma tiene alzato il ponte levatoio del suo castello e si premura di far vedere a chi s’avvicina all’ingresso le fauci dei coccodrilli. Continui sono stati i tentativi di dividere Berlusconi dai berlusconiani, il Cavaliere dai falchi e in generale dalla sua corte, di volta in volta oggetto di battute di scherno che hanno messo in mostra tutta la rabbia accumulata da Fini. Troppa, tanta da indebolire la lucidità politica del discorso. A questo punto, dentro il centrodestra ci sono almeno tre mondi in rotta di collisione (il Pdl, la Lega e i finiani) e la scissione è un dato ormai ineludibile. É solo una questione di tempo. Non si è compiuta solo per impotenza dello stesso Fini che in questo momento non può permettersi il divorzio. Ora gli costerebbe un assegno d’alimenti che non può pagare, più in là probabilmente avrà abbastanza carburante per provare a rischiare. Sul tavolo di Berlusconi, con queste premesse, manca solo la data delle elezioni. Mario Sechi, Il Tempo