MIRABELLO, LA CRONACA DELLE COMICHE FINALI DELL’ON. FINI
Pubblicato il 6 settembre, 2010 in Il territorio | Nessun commento »
di Stefano Filippi (Il Giornale)
Gianfranco Fini ha finito il Pdl. Un’esecuzione la cui eco è risuonata per un’ora e mezzo, tanto è durato il discorso di Mirabello. Il Pdl non c’è più, per il presidente della Camera esiste soltanto il «partito del predellino», cioè Forza Italia più «colonnelli e capitani di An che hanno scelto di cambiare generale». Futuro e libertà va avanti, tira dritto e non rientrerà in ciò che non c’è più, «è una legge della fisica». Le parole «nuovo partito» non sono state pronunciate, ma sono il filo rosso della parabola finiana avviata ieri, ormai è solo questione di tempo. Il nuovo ancora non c’è, ma il vecchio è sotto terra. Sulla casa di Montecarlo, nemmeno una parola.
Per la durata e la quantità degli argomenti, il comizio di fatto apre una lunghissima campagna elettorale. E si condensa nei toni contro Silvio Berlusconi e il Pdl. Toni astiosi, pesanti, carichi di veleno e rancore; parole che lanciano una sfida sfacciata. Il pokerista Fini scommette sul fatto che Pdl e Lega non forzeranno verso le elezioni anticipate. Berlusconi è un pragmatico, sibila Fini, e metterà da parte l’ostracismo. «È inutile che dica: facciano ciò che vogliono. Perché lo faremo». Così chiede un nuovo patto di legislatura a tre «nell’interesse di tutti» (principalmente suo!), e lo fa spietatamente, sfregiando a sangue Berlusconi, il governo, i ministri, il programma, il suo passato.
Il numero uno della Camera ricostruisce a modo suo gli ultimi mesi. Definisce «diritto di critica» le palate di fango da lui gettate sul Pdl dopo le elezioni del 2008, mentre l’ufficio politico del partito del 29 luglio scorso che lo ritiene «incompatibile» ha adottato un provvedimento «stalinista», un atto «illiberale e autoritario indegno del partito dell’amore». «Sono stato cacciato in una riunione di due ore alla quale ero assente – ha detto Fini – da un partito che non tollera discussioni interne».
L’elenco dei punti di dissenso è interminabile. Il federalismo fiscale, i cui costi non sono stati determinati. Il contrasto all’immigrazione clandestina «che deve comprendere anche l’integrazione». Il garantismo «che non può essere considerato impunità permanente». La considerazione della magistratura, «caposaldo della democrazia e presidio di ogni forma di legalità». L’idea di partito nazionale «non appiattito sulle posizioni di un alleato con base regionale». Il legame con i valori dell’Occidente, sbugiardati «dalla genuflessione indecorosa offerto nell’accogliere personaggi che non possono insegnarci nulla». Alla mitragliata su Gheddafi la platea scatta all’impiedi per una delle tante ovazioni.
Non è finita. «Le istituzioni hanno il dovere di rispettare le altre istituzioni, a partire dal capo dello Stato». «Il Parlamento non è una dependance di Palazzo Chigi». «Governare non significa comandare». «Non sono state fatte le grandi riforme che il Pdl aveva promesso». «Non è stato introdotto il merito». Fini non salva nulla di questi due anni e mezzo di governo, neppure il giorno dopo la mano tesa di Berlusconi sul processo breve. Anche gli unici timidi complimenti sulle misure anticrisi sono accompagnati da un «ma» che li stronca: paghiamo poco gli operai, non sosteniamo le famiglie, i giovani, i disoccupati. Ok al federalismo «ma nell’interesse di tutti». Ok allo scudo per il premier «ma niente leggi ad personam». Basta aggiungere la parola «fogna», e sarebbe un discorso confezionato su misura per Pierluigi Bersani. Fin qui la ricostruzione finiana. E per l’avvenire? Assodato che «il 29 luglio è stato compiuto un atto lesivo delle ragioni stesse del partito», «Futuro e libertà non rientrerà in ciò che non c’è più». Peccato non abbia chiarito se gli uomini di Fli che ricoprono incarichi nel Pdl si dimetteranno dall’inesistente o resteranno sulle poltrone, inscenando l’ennesima pantomima sul «chi ha cacciato chi». Si va avanti, ripete Fini una decina di volte, con disprezzo sempre crescente: «Non ci ritiriamo in convento né andiamo raminghi in attesa del perdono. I nostri parlamentari non possono essere trattati come clienti della Standa, che guadagnano il premio fedeltà frequentando il supermercato».
Ce n’è anche per il Giornale. Nessun chiarimento su Montecarlo, in compenso una scarica di insulti. Fini la prende da lontano, attaccando i Tg «che salvo rare eccezioni sono fotocopie dei fogli d’ordine del Pdl». Poi l’affondo. «Non ci faremo intimidire dal “metodo Boffo” messo in campo da alcuni giornali che dovrebbero essere il biglietto da visita del partito dell’amore. Hanno scatenato campagne paranoiche perché hanno superato la decenza, e patetiche in quanto non si rendono conto del disprezzo che suscitano. Attendiamo fiduciosi e sereni che sia la magistratura a chiarire chi e quanto ha diffamato, calunniato, insultato; chi è stato sottoposto a una lapidazione di tipo islamico con un atteggiamento infame perché rivolto alla mia famiglia».
Avanti, è la nuova parola d’ordine finiana che coincide con uno slogan socialista. Futuro e libertà è il vero Pdl perché chi ha tradito è stato Berlusconi. Nonostante tutto ciò, il sostegno al governo non mancherà. Fini farà in modo che l’esecutivo fellone e incapace duri fino al termine naturale della legislatura, «senza cambi di campo, ribaltoni o ribaltini: eliminiamo i sospetti che vogliamo portare altrove i nostri voti. Siamo e resteremo nel centrodestra per onorare il patto con gli elettori, nel rispetto del programma e senza farne uno nuovo». Fli voterà i cinque punti ma vuole discuterne i contenuti «con spirito costruttivo». E ne aggiunge altrettanti. Una diversa legge elettorale («Vergognose le liste prendere o lasciare»). Il ministro dello Sviluppo economico («Quale Paese se ne priva tanto a lungo?»). Il quoziente familiare «anche con l’opposizione: se hanno buone idee, e quelle di Casini lo sono, un governo deve accoglierle». E le buone idee del governo? Quelle no, per Fini proprio non ce ne sono.