ANNOTAZIONI SULLA CRISI POLITICA
Pubblicato il 8 settembre, 2010 in Politica | Nessun commento »
UFFICIO DI PRESIDENZA DEL PDL: DECIDE IL PARLAMENTO
Come volevasi dimostrare, sarà il Parlamento a decidere il proseguimento della legislatura e del mandato ricevuto dagli italiani, o viceversa il ritorno alle urne. Quanto Silvio Berlusconi, nel vertice del Popolo della Libertà del 20 agosto, aveva delineato e annunciato i cinque punti di programma da sottoporre alle Camere, aveva visto giusto: era quello il cammino politicamente e istituzionalmente più corretto, ma soprattutto più chiaro di fronte all’opinione pubblica, per valutare la tenuta o meno della maggioranza.
Tutto il resto era, ed è, roba da comizio, da corridoio, da palazzo, insomma rigurgito e scorie della vecchia politica. Il richiamo alla responsabilità, alla lealtà, agli impegni presi attraverso un voto trasparente e pubblico: questo è ed è sempre stato il modo di fare del Pdl.
Prima delle elezioni Berlusconi presentò un programma elettorale chiaro, e lo sottopose agli alleati di coalizione e soprattutto al giudizio degli italiani. E’ quanto si fa adesso in una situazione che è stata resa complessa non da colpe del governo.
Il governo – non ci stancheremo di ripeterlo – ha infatti mantenuto gli impegni e ben operato. Non lo diciamo noi, lo dicono gli altri. All’estero, la commissione europea riunita ieri e lunedì a Bruxelles assieme all’Ecofin ha riconosciuto che l’Italia non corre rischi dal punto di vista dei conti pubblici, e ha anche fatto propri due punti proposti da tempo dal governo italiano: l’emissione di obbligazioni europee per finanziare infrastrutture, e no ad altre tasse destinate a colpire il sistema finanziario.
All’interno è paradossalmente l’opposizione a riconoscere, magari in modo involontario, la bontà dell’azione di governo. Quando propone inverosimili governi tecnici presieduti da Giulio Tremonti (ma non era il ministro dei tagli e della macelleria sociale?), e quando si appella al proseguimento dell’opera di risanamento economico pur di non tornare alle urne.
Ma basta guardarsi intorno per vedere quanto sia diversa la situazione in Italia e all’estero. Ieri in Francia sciopero generale contro la riforma delle pensioni annunciata da Sarkozy: da noi pace e stabilità sociale, pur di fronte a riforme rilevanti che hanno definitivamente messo in sicurezza il sistema previdenziale.
La Federmeccanica ha deciso di disdire il contratto nazionale delle “tute blu”, di fatto attuando nella pratica la riforma dei contratti di lavoro alla quale hanno lavorato il governo e le confederazioni riformiste, contro l’ostilità preconcetta di Fiom e Cgil. E’ un riconoscimento importante da parte del mondo imprenditoriale e sindacale.
Ancora: per uscire dalla crisi, Barack Obama ha deciso di puntare sulle infrastrutture, stessa priorità individuata da sempre da Berlusconi. E dalla Russia, Vladimir Putin ha dichiarato di seguire con interesse le vicende italiane: l’interesse è che il nostro Paese mantenga la stabilità e il ruolo di protagonista nelle vicende politiche ed energetiche internazionali.
In passato mai c’era stata tanta attenzione alla stabilità politica italiana. E qui torniamo al programma dei cinque punti annunciato da Berlusconi. Sono altrettante riforme strategiche per il nostro futuro, e sono frutto del programma di governo votato dagli elettori e poi dal Parlamento all’atto dell’insediamento. Dunque non è pensabile che siano oggetto di mercanteggiamento politico da parte di chi, su quel programma, si è guadagnato il posto di parlamentare, di sottosegretario, di ministro o ancora di più.
In Parlamento si vedrà chi ci sta e chi non ci sta. Chi non ci sta si assume la responsabilità di una eventuale crisi, e dal suo logico sbocco. Dal quale uscirà nuovamente vincitore il centrodestra di Berlusconi. Non pensiamo che avrà invece molto successo il teatrino dei vecchi riti, dei vecchi comizi, e delle vecchie formule trasversali, che nessuno capisce. E che non servono all’Italia – ma diciamo a nessun Paese – in momenti come questo.
Una politica fine a se stessa era forse un lusso di altri tempi, quando potevamo mantenere un’infinità di partiti. L’ultimo a farne le spese è stato Romano Prodi, con la sua sterminata e rissosa coalizione, che non a caso si è suicidata. Noi non faremo mai questo errore. La politica delle cose concrete e del bipolarismo è ciò che serve al bene di tutti, e che l’Italia di oggi vuole.
ALCUNE RIFLESSIONI SUL SISTEMA ELETTORALE
I giochi li aveva aperti Bersani, subito seguito dalla stampa dei cosiddetti “poteri forti”: votare sì, ma solo dopo aver cambiato la legge elettorale. E subito il segretario del Pd si è messo al lavoro per gettare le basi di un eventuale governo tecnico che tenesse fuori Pdl e Lega, al solo scopo di modificare, e alterare, le regole del gioco per permettere anche a chi è minoranza nel Paese dal dopo guerra ad oggi di governare.
E’ vero che per due volte negli ultimi 14 anni la sinistra è andata al potere, ma è stata favorita proprio da una legge elettorale che ribaltava l’equilibrio politico del Paese: non a caso, in termini proporzionali ha sempre raccolto meno voti del centrodestra. Di fronte alla reazione degli esponenti del Pdl, che hanno ribattuto a Bersani proprio quest’ovvietà (volete cambiare la legge per vincere non avendo i numeri e per mettere all’opposizione permanente chi invece i numeri ce li ha da sempre), oggi, sul Corriere della Sera e su Repubblica, sono intervenuti esponenti storici della Prima Repubblica (Rino Formica ed Emanuele Macaluso, in un pezzo a doppia firma nella pagina delle lettere del quotidiano di via Solferino) e costituzionalisti (quale il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky), per dire quanto sia brutta l’attuale legge elettorale.
Il punto è: ogni legge è perfettibile, ma è paradossale che si attacchi a testa bassa proprio quella che riflette alla perfezione gli equilibri politici del Paese. Si tratta di un proporzionale puro – con sbarramento (al 4% se non sei in coalizione, al 2% se sei in coalizione) e premio di maggioranza – che garantisce rappresentatività e governabilità, impedisce l’eccessiva frammentazione parlamentare, non altera il voto della maggioranza degli italiani. E allora? Allora vuol dire che chi tanto disperatamente vuole intervenire normativamente ha uno scopo che certo non è quello di migliorare la legge.
Si vuole cacciare Berlusconi e poiché, numeri alla mano, non possono sottrargli elettori si cerca di far pesare in modo diverso i voti, cosicché chi è maggioranza si trovi improvvisamente all’opposizione. E’ questo il piano in atto, il progetto di Bersani e compagni, ma non solo: un governo tecnico solo per il tempo necessario a portare a termine il progetto di 3 lustri: eliminare Berlusconi dalla scena politica. E poiché non ci sono riusciti per via giudiziaria, provano a farlo per via normativa.
Ecco perché la legge elettorale è così presente nel dibattito politico, come se i cittadini si cibassero di porcellum o mattarellum, e non vedessero l’ora di vedere la loro busta paga incrementata dal vademecum del perfetto elettore. Ecco perché nessuno si preoccupa di economia e degli italiani. Perché sono già partite le grandi manovre, in vista di un possibile ritorno alle urne, per sottrarre proprio al popolo ciò che l’articolo 1 della Costituzione dispone in maniera che più chiara non si può, il nostro diritto di scegliere chi governa.
Il Pd, molto semplicemente, trovando proseliti a sinistra ma non solo, cerca la solita scorciatoia: invece di riorganizzarsi, di cercare i voti, di entusiasmare gli elettori, di regalare un sogno agli italiani, di dare una svolta riformista, sta studiando il mezzo per sottrarre questi valori e pregi a chi li ha da sempre: Silvio Berlusconi.