LA STABILITA’ DEL GOVERNO BERLUSCONI E’ GARANZIA PER L’ITALIA
Pubblicato il 10 settembre, 2010 in Economia, Politica, Politica estera | Nessun commento »
Silvio Berlusconi sbarca oggi in Russia, a Yaroslav, per partecipare ad un Forum sulla democrazia che il Cremlino ha l’ambizione di trasformare in una Davos d’Oriente. Ma il clou della visita è il pranzo sul Volga con Dmitri Medvedev: i capi della superpotenza vogliono capire gli sviluppi della politica italiana, e soprattutto se il Cavaliere resterà al governo. Già all’inizio della settimana Vladimir Putin aveva dichiarato – fatto inusuale per gli standard diplomatici russi – di «seguire con attenzione la situazione dell’Italia», augurandosi continuità nell’azione di Berlusconi. Il motivo è evidente: in questi due anni l’Italia è diventata per Mosca un partner economico e strategico di primo livello pur non rinnegando l’appartenenza al campo moderato ed occidentale. E dunque ciò che avviene a palazzo Chigi, e la sua stabilità, è per la prima volta rilevante sulla scena internazionale. Tutto questo vale assai più dei comizi di Gianfranco Fini ed anche delle pernacchie di Umberto Bossi.
Il fondatore di Futuro e Libertà nella sua intemerata di Mirabello non è riuscito a tirar fuori una sola proposta economica con un minimo di concretezza. Anzi, ha dato la sensazione di una certa nostalgia per lo Stato spendaccione e assistenzialista: non basta parlare di ricambio generazionale, di diritti dei precari o di federalismo solidale; bisogna anche indicare con quali risorse finanziarie e quali strumenti di mercato si intendono affrontare i problemi.
Quanto a Bossi, la sua visione delle cose economiche appare tuttora ancorata al localismo: può portare consensi in campo sociale, però non sta dietro a processi che spesso sfuggono alle grandi potenze e ad intere macro-aree, figuriamoci se possono essere controllati da Bergamo o Treviso. La Lega continua saggiamente ad affidarsi all’acume di Giulio Tremonti, tuttavia non è andata esente da qualche scivolata, a partire dalle fondazioni bancarie nelle quali ha voce in capitolo, fino al caso attuale del governatore del Friuli-Venezia Giulia, pizzicato ad utilizzare l’auto blu per scopi personali. Il famoso slogan «Roma ladrona» andrebbe revisionato. Ma se questi sono, diciamo così, problemi di crescita, quelle di Fini appaiono come vere lacune politiche e culturali.
Il presidente della Camera può strappare applausi facili alzando la voce sulle «genuflessioni a Gheddafi»: dimentica di aver firmato (assieme a Bossi) una legge contro l’immigrazione clandestina che solo ora, grazie ai buoni rapporti con il regime di Tripoli, ha prodotto risultati. Ma soprattutto trascura gli interessi strategici dell’export delle imprese italiane: la sensazione è che Fini sia un po’ regredito alla dimensione di An, o del Msi, cioè ad una iper-valutazione della politica pura con una sostanziale indifferenza per la concorrenza ed il mercato. Di fatto tutti i dossier più importanti, e che richiedono saldezza e continuità nell’azione del governo (con o senza elezioni) continua ad averli in mano Berlusconi. Dal nucleare, sul quale la Lega ha pure assunto un atteggiamento ambiguo, alle infrastrutture, fino ai debiti-monstre ereditati nelle regioni e nei capoluoghi del centro-sud, Roma in testa. Senza ovviamente trascurare l’evoluzione della crisi: abbiamo dati sopra le attese sulla vendita di case, e stime deludenti dell’Ocse e del Fondo monetario sul Pil. Se fossimo negli Usa daremmo più importanza ai primi, perché certificano un dato di fatto rispetto a previsioni; ma soprattutto perché fotografano una certa ritrovata fiducia patrimoniale degli italiani; mentre il Pil, indicatore in movimento, può nascondere molte cose, dal sommerso alla propensione delle imprese ad investire all’estero. In ogni caso non c’è affatto da abbassare la guardia. Né tantomeno da cambiare governo dell’economia; caso mai da potenziarlo. I grandi accordi in campo energetico, dal nucleare agli approvvigionamenti di gas dalla Russia e alle concessioni petrolifere dell’Eni in Libia, sono stati negoziati personalmente dal Cavaliere. E qui il discorso dell’interim allo Sviluppo economico non regge, visto che dall’altra parte ci sono Sarkozy, Putin e Gheddafi.
Stessa cosa si può dire per il riposizionamento della Finmeccanica dopo i problemi incontrati con la Casa Bianca di Barack Obama: il gruppo di Guarguaglini deve per forza andare a contendere a Francia e Inghilterra i mercati emergenti, nonché tornare, appunto, sul nucleare. Dove però Gianranco Fini (anche Umberto Bossi, ma sorprende meno) appare davvero a corto di strategie è su come affrontare, da Roma in giù, il dilemma sintetizzabile in «debiti contro sviluppo».
Non è un dibattito accademico, ma una realtà che incide mese dopo mese sulle tasche dei contribuenti o sull’avvio di un’impresa. E forse non a caso tutti i principali amministratori locali – Gianni Alemanno, Renata Polverini, Giuseppe Scopelliti – benché provengano dall’area di An o dai suoi paraggi, si sono ben guardati dal seguire il loro antico leader. Si tratta, per fare l’esempio di Roma e del Lazio, di proseguire la gestione commissariale di un debito di venti miliardi e contemporaneamente amministrare la capitale ed una regione con il secondo Pil d’Italia. La continuità è un obbligo. Non c’è spazio per i comizi. Ps. Non abbiamo neppure sfiorato le ricette economiche della sinistra. Non è una dimenticanza: semplicemente non risultano pervenute. (Il Tempo- 10 settembre 2010)