Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini Il partito del rigore. E quello della spesa. Il partito nato dalle urne. E quello dei giochi di Palazzo. Il partito che non archivia Dio, Patria e Famiglia. E quello del relativismo e della confusione dei valori. Il partito della rivoluzione reaganiana. E quello della restaurazione partitocratica. Il partito che nove anni dopo non ha dimenticato il «siamo tutti americani» pronunciato l’11 Settembre 2001. E quello che ha smarrito le ragioni dell’Occidente. Silvio Berlusconi. E Gianfranco Fini. Due mondi opposti. Scontro di civiltà dentro la politica italiana. Quella di oggi, cari lettori, è una data particolare. Ognuno di noi ricorda perfettamente dov’era quando il primo aereo si conficcò come una spada dentro il corpo di una delle due torri. Sembrava un incidente. Poi arrivò il secondo e nessuno ebbe più dubbi: l’America era sotto attacco. Il nostro mondo era minacciato. Nove anni dopo, siamo qui. E non siamo più tutti americani.

Quello che sta accadendo nella politica italiana ha molto a che fare con il mondo dopo l’11 settembre 2001. Più di quanto si possa immaginare. In poco tempo abbiamo assistito a un ripiegamento dell’Occidente su se stesso, all’avanzare di forze che hanno minato quel poco che resta della nostra identità. Superata l’emozione, contati i morti, la distanza non solo tra noi e l’America, ma quella tra chi ha ancora a cuore le sorti della nostra civiltà e quelli che pensano di annacquarla e disperderla, è diventata siderale. Il vero dibattito sul nostro tempo, le ragioni della nostra esistenza, il fondamento di tutti i ragionamenti sulla nostra contemporaneità, hanno come data di partenza il 12 settembre 2001, il giorno dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Siamo stati testimoni di uno shock della storia, di un salto gigantesco in un’altra epoca. L’attacco di al Qaeda ha messo a nudo chi sono i nostri veri nemici. E non mi riferisco ai talebani, ma alla debolezza interiore dell’Occidente, alla sua illusione di potersi difendere senza mai combattere per un ideale. L’Italia, Paese al centro del Mediterraneo, alleato storico degli Stati Uniti, ha vissuto quel trauma in maniera particolare. Abbiamo visto una minoranza cercare di battersi per riaffermare le ragioni della nostra civiltà, la democrazia per tutti e non per pochi, i valori non negoziabili al posto del suk etico e morale. Nove anni dopo, quella battaglia infuria ancora.
L’America di Barack Obama vive quel travaglio nella certezza di una Costituzione formidabile e di un presidente che, pur avendo commesso molti errori, non può sfuggire al verbo dei padri fondatori. Noi siamo invischiati in una lotta dove una minoranza culturale cerca di tenere alta la bandiera dell’Europa con le sue radici: l’impero Romano e le radici cristiane. La culla della civiltà del Vecchio Continente è qui, nella Città Eterna. La difesa di quella memoria, la sua cura, dovrebbe essere uno dei nostri primi doveri. Ma vediamo all’opera troppi sfasciacarrozze, troppi uomini incapaci di avere una visione del mondo. A Silvio Berlusconi si possono rimproverare non poche cose – e domani, 12 settembre, ci tornerò – ma gli va dato atto di aver compreso qual era la partita in gioco. Due sono i grandi shock storici ai quali abbiamo assistito in questi nove anni. Entrambi accadono in settembre: l’11 settembre 2001 l’Occidente scopre di essere vulnerabile, la fortezza America viene trafitta. Il 15 settembre 2008 Lehman Brothers, quarta banca americana fondata nel 1850 fallisce. E la crisi finanziaria si occupa di ridisegnare il potere globale. Due fratture della contemporaneità che hanno sconvolto il mondo. E l’Italia ne è uscita a testa alta, nonostante quel che dicano e scrivano i benpensanti. Quando l’America decise di reagire, Silvio Berlusconi fu dalla parte giusta. Quando la bolla finanziaria esplose, Giulio Tremonti prese il timone e diede la rotta giusta. Potevamo sbagliare e oggi guardare la carcassa della nostra nave abbandonata sugli scogli.
E invece abbiamo dimostrato che quando le crisi sono devastanti abbiamo ancora genio e risorse. Potevamo fare meglio? Può darsi, ma se guardiamo le ferite degli altri, possiamo dire che questo centrodestra, pur con grandi limiti, ha trovato una ragion d’essere. Oggi questo patrimonio di scelte e ideali è in pericolo. In discussione non ci sono le poltrone dei finiani o di altre sagome grigie della politica italiana. In gioco ci sono i pilastri di una politica che dal 1994 ha tenuto incollato, con grandi difficoltà, il nostro Paese all’Occidente. Niente è eterno, ma se vince il partitello del relativismo, della spesa, del meridionalismo piagnone, della politica estera senza carattere e fantasia, allora possiamo davvero chiudere i battenti e scrivere una parola finale: restaurazione. Noi, anche nell’imperfezione e approssimazione di questi giorni, preferiamo continua a raccontare un’altra storia: quella di un’incompiuta e ideale rivoluzione conservatrice.