IL PARTITO DI FINI E’ IL PARTITO DELLA SPESA
Pubblicato il 11 settembre, 2010 in Il territorio | Nessun commento »
A dispetto del nome scelto per il suo gruppo, Futuro e Libertà, Gianfranco Fini non ha affatto proposto per l’Italia ricette liberali. La sua, anzi, sarebbe una tipica dottrina assistenzialista, che costerebbe allo Stato ed ai contribuenti molti miliardi a fondo perduto. È l’opinione di due illustri editorialisti, Angelo Panebianco e Luca Ricolfi. Panebianco rinfaccia al presidente della Camera la formula assai vaga del «federalismo solidale». Fini gli ha risposto sollecitando «Meccanismi di perequazione in grado, se gestiti a livello centrale in modo imparziale, di ridurre il divario tra le aree del Paese». Con il che i dubbi di Panebianco sono aumentati. Quanto a Ricolfi, sociologo della sinistra illuminata, va oltre. Accusa Fini di voler fare «un partito sudista-assistenzialista». E aggiunge: «Se si va alla sostanza, ossia alla politica economica, è il partito di Fini che soccombe nettamente». Insomma, come già avevamo scritto due giorni fa, dal comizio di Mirabello è assente una seria proposta economica. E quella che c’è costerebbe ai contribuenti, compresi quelli del Centro-Sud dei quali Fini si dice paladino, parecchi miliardi, senza nessun vero impegno alla responsabilità di chi maneggia il denaro pubblico. Vediamo punto per punto. Cominciando proprio dal «federalismo solidale». Di che si tratta? Fini non lo dice. Eppure è insediata da tempo una commissione parlamentare bipartisan sull’attuazione delle deleghe per il federalismo nella quale siede un senatore finiano: l’economista Mario Baldassarri. Peccato che Fini citi questa importante presenza solo per ricordare che il voto di Baldassarri «è determinante».
Diversamente avrebbe verificato, magari con l’ausilio di Baldassarri, che l’abbandono del meccanismo dei costi storici per la sanità (ad ogni regione si dà in base a quanto ha speso finora) a favore dei costi standard (cioè l’individuazione di benchmark virtuosi) non è drammaticamente punitiva per il Sud. E soprattutto non ha colore politico. In commissione ci sono tre ipotesi: della Corte dei conti, di un gruppo di tecnici di area Pd, e del Centro studi Sintesi, anch’esso vicino al Partito democratico. Nel primo caso il benchmark sarebbe costituito dalle quattro regioni con il miglior rapporto tra costi e prestazioni: Lombardia, Veneto, Emilia e Toscana. Nel secondo si aggiungerebbero i differenti oneri territoriali per ricoveri e farmaci. Nel terzo si terrebbe anche conto di gruppi di regioni di dimensioni omogenee. Tralasciando le tecnicalità, con il primo criterio avremmo un risparmio complessivo di 2,3 miliardi l’anno, con il secondo di 4,4, con il terzo di 8,3. Chi guadagnerebbe e chi perderebbe? C’è una sola regione che dovrebbe seriamente ridimensionarsi in tutte e tre le ipotesi, ed è il Lazio, a causa del poco invidiabile record di debito di 10,7 miliardi. Il suo sistema sanitario dovrebbe rinunciare rispettivamente a 1,6 miliardi, 1,4 e 2,9. Con la proposta della Corte dei conti i beneficiari sarebbero Lombardia, Toscana, Umbria, Marche e Basilicata. Al Sud, ci rimetterebbe di più la Campania (291 milioni); più o meno quanto, però, Piemonte e Veneto. Per tutte le altre regioni si tratterebbe di aggiustamenti dell’ordine di decine di milioni, tanto al Settentrione quanto al Meridione.
Con la prima ipotesi di area Pd, a guadagnarci sarebbero Toscana ed Emilia, a perderci – oltre al Lazio, soprattutto Campania e Lombardia. Puglia a Calabria vedrebbero le proprie risorse ridotte meno di Veneto e Liguria. L’altra soluzione «piddina» costerebbe parecchio all’Emilia, molto a Piemonte e Liguria, abbastanza alla Calabria e zero ad Abruzzo, Campania, Puglia e Basilicata. Dunque di quale federalismo solidale sta allora parlando Fini? Conosce le ipotesi sul tappeto? A meno che non voglia lasciare la sanità regionale così come è: in questo caso la sua «ricetta» costerebbe 28,4 miliardi di euro. A tanto ammontano i debiti cumulati dalle regioni, tra i quali oltre al Lazio spiccano la Campania (6,3 miliardi), la Sicilia (3,6), la Puglia (1,4), la Sardegna (1,2) e la Liguria (1,1): per fermarci a chi ne ha per oltre un miliardo. Fini, però, non può ignorare che tre regioni – Lombardia, Friuli e Alto Adige – danno ai cittadini più di quanto costano, e che sull’altro fronte quattro – Lazio, Campania, Calabria e Molise – dovranno da quest’anno imporre nuove addizionali Irpef e Irap. Vogliamo andare avanti così, in attesa del federalismo solidale? Proseguiamo. L’altra proposta di Fini è di introdurre subito il quoziente familiare per le tasse, cioè la riduzione dell’imposta sul reddito in rapporto a coniuge, figli e genitori a carico. Nulla da obiettare come principio; tra l’altro è anche uno dei cinque punti programmatici di Silvio Berlusconi.
Ma il leader di Futuro e libertà ha un’idea dei costi? Anche qui farebbe bene a leggersi se non le stime di Giulio Tremonti, del quale magari diffida, della Corte dei conti: a seconda che si introduca un quoziente familiare secco (divisione dell’imponibile per numero di persone a carico) o corretto con vari coefficienti, e che si mantengano o meno le detrazioni d’imposta, il costo annuo oscilla fra i 3 ed i 12 miliardi. Fini sa dove trovare queste risorse (e aggiungiamo: lo sa il Cavaliere?). Andiamo avanti. Il presidente della Camera ha proposto «un nuovo patto tra capitale e lavoro». Ma che significa? Il nuovo patto lo stanno già scrivendo – per fortuna lontano dalla politica – Sergio Marchionne, i sindacati riformisti e, più o meno obtorto collo, la Confindustria e la Federmeccanica. È materia di queste ore. Oppure Fini ha nostalgia dei maxi tavoli concertativi, o magari corporativi? Ancora. Chiede che fine ha fatto l’abolizione delle province. Sacrosanto. Peccato che nei novanta emendamenti presentati a maggio dai parlamentari finiani alla manovra economica ce ne sia uno che esclude proprio il taglio delle province, «in quanto necessiterebbe di una modifica costituzionale e non porterebbe risparmi significativi». Nello stesso pacchetto di proposte si chiede anche il mantenimento di alcuni enti da tagliare, tra i quali svetta l’Isae, per il quale si è particolarmente speso Baldassarri.
Ma non è finita. Gli emendamenti dei finiani proponevano anche di cancellare la facoltà per il comune di Roma di imporre la tassa di soggiorno (in cambio, 300 milioni), nonché la norma che ha alzato la soglia per ottenere l’assegno di invalidità. Eppure il costo per lo Stato di queste pensioni è passato in sette anni da 6 a 16 miliardi. Infine: Baldassarri, monetarista assai apprezzato ed oggi principale consigliere economico del presidente della Camera, è autore, un anno fa, di una «controfinanziaria» da 35 miliardi. Per l’esattezza, 15 di minori tasse alle famiglie con aumento delle deduzioni (e il quoziente familiare?), 12 alle imprese, cinque di investimenti in infrastrutture, e tre fra difesa, sicurezza e ricerca. E la copertura? «Trentacinque miliardi da tagliare tra acquisti delle pubbliche amministrazioni e contributi a fondo perduto». Come dire: magari ce lo potessimo permettere. Magari l’Europa accettasse sgravi fiscali subito in cambio di tagli di spesa sulla carta. E a proposito d’Europa: allora Baldassarri era contrario all’innalzamento dell’età pensionabile, una riforma realizzata invece dal governo parificando l’età di pensione tra uomini e donne nel pubblico impiego (richiesta ultimativa dell’Unione europea) e collegando l’età pensionabile all’allungamento delle prospettive di vita. L’idea di Baldassarri era che «l’allungamento dell’eta pensionabile deve andare in parallelo con gli ammortizzatori sociali». Ma in tutti questi anni non si è riportata in equilibrio la previdenza separandola dalla cassa integrazione? Ovviamente tutte le opinioni meritano rispetto, a cominciare da quelle di Mario Baldassarri. Un po’ meno credibile risulta invece Gianfranco Fini nei panni di custode «liberale» dell’economia. Se solo applicassimo le sue ricette su fisco, invalidità e federalismo solidale tireremmo fuori ogni anno dai 10 ai 50 miliardi: a spanne, si intende.