IL COMPAGNO BERSANI NON VUOLE VIVERE 120 ANNI
Pubblicato il 13 settembre, 2010 in Il territorio | Nessun commento »
Bersani ieri ha parlato al suo popolo, quello del Pd, in un tripudio di bandiere e applausi. Li ha chiamati «compagni», quali in effetti sono, al di là delle dissimulazioni e dei camuffamenti adottati a più riprese negli ultimi anni. Il leader dell’opposizione moderata e riformatrice torna alle sue origine comuniste, e lo fa con l’orgoglio di chi resta saldamente legato a quella ideologia, messa formalmente da parte non per convinzione ma per spirito di sopravvivenza. E del comunismo, il leader del Pd nel suo discorso rispolvera tutta la retorica, la tristezza, il grigiore, la noiosità, soprattutto (…)
(…) l’utopia. Che cosa ha detto Bersani? Che bisogna riscattare il popolo dalla sua misera condizione, che ci aspettano tempi duri, anzi durissimi, perché questo è un Paese sull’orlo del baratro.
Un Paese, nessun Paese, è una macchina perfetta, questo è ovvio. Perché è fatto da uomini in carne ed ossa e perché le risorse non sono infinite, ma hanno un limite ben preciso oltre il quale c’è solo la bancarotta. Il compagno Bersani questo lo dovrebbe sapere bene. Il Pci, infatti, ha co-governato con la Dc l’Italia per cinquant’anni, approvando (e votando) il settanta per cento delle decisioni, soprattutto quelle più sciagurate che hanno fatto esplodere il debito pubblico, elevato la tassazione, consegnato il mondo del lavoro nelle mani dei sindacalisti. Ma non solo. Negli ultimi 18 anni, cioè dalla nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, la sinistra ha governato in prima persona 10 anni contro gli 8 di Berlusconi e alleati.
Non si capisce bene, dati alla mano, perché Bersani non processi se stesso invece che Berlusconi, al quale tutto può essere rinfacciato meno che di aver portato i conti pubblici in zona a rischio. Il motivo è ovvio, vuole prendere il suo posto e continuare a fare i disastri degli ultimi settant’anni. Ma sbaglia i conti, e le parole d’ordine. Crisi, disoccupazione, povertà, sacrifici: c’è da toccarsi ogni volta che parla. Soprattutto perché dall’altra parte, il leader del centrodestra, oltre che una visione liberale della vita e della società, ha anche il dono dell’ottimismo, e alle iatture di Bersani contrappone obiettivi difficili ma di altro genere. Tipo: vi abbasserò le tasse, sconfiggeremo il cancro e vivremo fino a 120 anni, tenete duro che grazie a voi la crisi passerà, viva le belle donne, chi si impegna ce la farà a fare carriera, sappiate sorridere e ridere che fa bene e porta buono e altre cose simili.
Ora, se escludiamo il pugno di intellettuali e qualche moralista pubblico, secondo voi, la nazione a chi si dovrebbe affidare? A un becchino o a un Cavaliere, mettiamo pure sognatore? La gente ha bisogno di sogni, possibilmente di vittoria. Parola, quest’ultima, assente dal discorso di Bersani, che non osa pronunciarla neppure accostata al nome del suo partito. Tanto che come soluzione dei problemi non ha detto: dai ragazzi, facciamo cadere Berlusconi che andiamo a votare e vinciamo. No, ha detto (sintetizzo): speriamo che Fini riesca nella sua azione di mandare in crisi la maggioranza, così andiamo dal compagno Napolitano e ci facciamo fare un bel governo tecnico insieme a chiunque ci sta. Ma se non ci crede lui che la sinistra può essere una grande forza alternativa al centrodestra, chi diavolo vuole convincere?
(…) l’utopia. Che cosa ha detto Bersani? Che bisogna riscattare il popolo dalla sua misera condizione, che ci aspettano tempi duri, anzi durissimi, perché questo è un Paese sull’orlo del baratro.
Un Paese, nessun Paese, è una macchina perfetta, questo è ovvio. Perché è fatto da uomini in carne ed ossa e perché le risorse non sono infinite, ma hanno un limite ben preciso oltre il quale c’è solo la bancarotta. Il compagno Bersani questo lo dovrebbe sapere bene. Il Pci, infatti, ha co-governato con la Dc l’Italia per cinquant’anni, approvando (e votando) il settanta per cento delle decisioni, soprattutto quelle più sciagurate che hanno fatto esplodere il debito pubblico, elevato la tassazione, consegnato il mondo del lavoro nelle mani dei sindacalisti. Ma non solo. Negli ultimi 18 anni, cioè dalla nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, la sinistra ha governato in prima persona 10 anni contro gli 8 di Berlusconi e alleati.
Non si capisce bene, dati alla mano, perché Bersani non processi se stesso invece che Berlusconi, al quale tutto può essere rinfacciato meno che di aver portato i conti pubblici in zona a rischio. Il motivo è ovvio, vuole prendere il suo posto e continuare a fare i disastri degli ultimi settant’anni. Ma sbaglia i conti, e le parole d’ordine. Crisi, disoccupazione, povertà, sacrifici: c’è da toccarsi ogni volta che parla. Soprattutto perché dall’altra parte, il leader del centrodestra, oltre che una visione liberale della vita e della società, ha anche il dono dell’ottimismo, e alle iatture di Bersani contrappone obiettivi difficili ma di altro genere. Tipo: vi abbasserò le tasse, sconfiggeremo il cancro e vivremo fino a 120 anni, tenete duro che grazie a voi la crisi passerà, viva le belle donne, chi si impegna ce la farà a fare carriera, sappiate sorridere e ridere che fa bene e porta buono e altre cose simili.
Ora, se escludiamo il pugno di intellettuali e qualche moralista pubblico, secondo voi, la nazione a chi si dovrebbe affidare? A un becchino o a un Cavaliere, mettiamo pure sognatore? La gente ha bisogno di sogni, possibilmente di vittoria. Parola, quest’ultima, assente dal discorso di Bersani, che non osa pronunciarla neppure accostata al nome del suo partito. Tanto che come soluzione dei problemi non ha detto: dai ragazzi, facciamo cadere Berlusconi che andiamo a votare e vinciamo. No, ha detto (sintetizzo): speriamo che Fini riesca nella sua azione di mandare in crisi la maggioranza, così andiamo dal compagno Napolitano e ci facciamo fare un bel governo tecnico insieme a chiunque ci sta. Ma se non ci crede lui che la sinistra può essere una grande forza alternativa al centrodestra, chi diavolo vuole convincere?