In politica, si sa, bisogna spesso bluffare perché in politica le apparenze contano, eccome. Avete mai sentito un candidato, seppure condannato a sicura sconfitta da tutti i sondaggi, alzare bandiera bianca prima del voto? No. Fino a quando non sarà sconfitto dall’ufficialità dei numeri – «la proprietà dei numeri è la giustizia» annotava Pitagora – continuerà a dire con sicumera che è certo di vincere e che ha fiducia nel buon senso degli elettori. Non siamo ancora in campagna elettorale, ma di questi bluff in giro se ne vedono già parecchi. Tutti guardano a Silvio Berlusconi e al Pdl in questo momento, identificano nel presidente del Consiglio e nel partito di maggioranza il cratere dove si annidano i guai maggiori. Di converso, Gianfranco Fini e il suo Futuro e libertà godono di buona stampa fra molti osservatori e commentatori. Mentre la sinistra non è pervenuta, invischiata tanto per cambiare nei teatrini della «democrazia interna».

Proviamo allora a ragionare su Futuro e libertà, sgombrando subito il campo da un equivoco, direi un bluff, di fondo: si tratta di un partito. Non è, per intenderci, la «cosa» richiamata a più riprese dai malpancisti di sinistra che per anni si sono fatti del male alla ricerca di un’identità perduta. Futuro e libertà è, sottolineo, un partito. Che conta su gruppi parlamentari, che ha una struttura sul territorio con circoli e sedi, che può permettersi perfino un giornale (Il Secolo) vivo grazie ai fondi pubblici. E che, soprattutto, ha un progetto politico non più sovrapponibile a quello del Pdl ma su più punti autonomo e differente. Al massimo, quindi, Futuro e libertà è un lontano parente del Pdl, di certo non ne costituisce una costola.
È stato Fini a marcare la distanza, a scavare il fossato: sono stato «cacciato» dal partito che ho contribuito a fondare – così sostiene – e ho quindi dato vita obtorto collo a un nuovo soggetto politico. Il partito di Fini, allo stato, dovrebbe cavalcare quella che i sondaggisti definiscono la «good wave», l’onda buona. In realtà, nonostante l’enorme esposizione sui media, Futuro e libertà non solo non sfonda ma arranca nei consensi. E qui cominciano le spine di Fini, che molti preferiscono non vedere. A cominciare dall’eventualità delle elezioni, viste dal «resistente» della Camera come fumo negli occhi. Non per senso di responsabilità (altro bluff), ma per mero opportunismo. Chi si sente cacciato da un partito e rivendica una lunghissima storia politica dovrebbe correre verso le urne proprio in virtù della sua popolarità e sfidare sull’unico vero campo il nuovo nemico. Invece no. Agli elettori viene riproposto il balletto risibile della fedeltà al programma, condito però da un parossistico bignamino dei «non possumus» che di fatto ne mina le fondamenta. Certo, da Fini è tutto un sì: sul federalismo, sulla giustizia, sul welfare. A condizione, però, che si faccia secondo le idee di Futuro e libertà. Sempre pronto a rivendicare la nobiltà del confronto col Pdl ma al tempo stesso pronto a esercitare il ricatto del voto contrario se non venissero accolte le proprie tesi.
Non è un caso se Antonio Di Pietro cannoneggi Fini: lo fa proprio perché il giustizialismo e l’antiberlusconismo dei neoavanguardisti rischiano di fare breccia sul suo elettorato. La contraddizione, a questo punto, è evidente: coagulare consensi con una mostrificazione del Cavaliere – nei dibattiti come nei colloqui confidenziali con le procure – non sa forse di oltraggio a una storia comune anche se oggi rinnegata?
Di spina in spina, Fini sa di non potersela cavare con insulti (a proposito, l’Ordine dei giornalisti non ha nulla da dire?), sorrisi e battutine sulla casa di Monte-Carlo di proprietà di An, venduta a prezzo stracciato e finita in affitto «a sua insaputa» al cognato dopo disinvolte e ancora oscure giravolte societarie. E non è da uomo di stato appellarsi a un’inchiesta della magistratura chiamata a chiarire se ci sono risvolti penali. L’onore, la politica e la chiarezza verso gli elettori gli imporrebbero di affrontare la stampa e dare pubblicamente le risposte che mancano. Magari prendendo per un orecchio il cognato, sparito dalla circolazione fin dalle prime fasi della vicenda. Non lo farà, ovviamente. Perché, oltre al senso del pudore politico, dalle parti di casa Fini si fa fatica a rintracciare anche quello dell’onore. (DA PANORAMA)