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UN ALTRO MILITARE ITALIANO MUORE IN AFGHANISTAN

Pubblicato il 17 settembre, 2010 in Cronaca, Politica estera | No Comments »

La vittima è il tenente Alessandro Romani del nono Reggimento d’assalto Col Moschin

Afghanistan: morto uno degli italiani feriti

HERAT (AFGHANISTAN) – Uno o più colpi di kalashnikov durante un blitz per catturare quattro ‘insorti’ che, poco prima, avevano piazzato una bomba lungo una strada. E’ morto così, nella provincia di Farah, il tenente Alessandro Romani, 36 anni, romano, ufficiale del 9/o reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin della Folgore. Un nuovo lutto che cade alla vigilia di una giornata considerata “cruciale”, il voto per le elezioni legislative, e caratterizzata da una quantità di incidenti in tutto l’Afghanistan, compreso l’Ovest affidato al comando del generale degli alpini Claudio Berto, dove un razzo è stato tirato contro una base italiana, sono stati sequestrati candidati e loro sostenitori, sono stati compiuti attentati ai mezzi che trasportavano le schede elettorali e un ordigno rudimentale piazzato su una bicicletta è stato fatto esplodere nel cuore di Herat, dove si trovano le due basi principali degli oltre 3.500 soldati italiani. Il tenente Romani – celibe, con molte missioni in prima linea alle spalle – è stato ucciso nel distretto di Bakwa, nella parte orientale della provincia ad altissimo rischio di Farah, ad un anno esatto dalla strage di Kabul, in cui vennero uccisi altri sei parà della Folgore.

Tutto era cominciato di prima mattina, quando un aereo senza pilota Predator dell’Aeronautica militare italiana aveva avvistato quattro persone intente a posizionare una bomba sotto l’asfalto, lungo la strada che collega Farah a Delaram. Sempre il Predator ha ’seguito’ gli attentatori e segnalato il luogo dove questi si erano rifugiati. A questo punto è scattata l’operazione affidata alla ‘Task force 45′, composta dagli uomini delle Forze speciali italiane. Il team di incursori del 9/o Col Moschin della Folgore è partito da Farah a bordo di un elicottero Ch 47, scortato da due elicotteri d’attacco Mangusta. Dopo poco è giunto sul posto ed é atterrato nei pressi della casa dove si erano nascosti gli insorti. Durante l’incursione, però, due dei commandos italiani sono stati centrati da un numero imprecisato di colpi di arma da fuoco. Li hanno soccorsi e portati via, all’ospedale militare da campo di Farah. Le loro condizioni, in un primo momento, non erano state definite gravi (“feriti a una spalla”), anche se uno dei due era un “codice A”. E’ stato sottoposto ad un intervento chirurgico durante il quale ci sarebbero state “complicazioni”. La notizia della sua morte è arrivata inattesa a Camp Arena, il quartier generale italiano di Herat. L’altro ferito, un militare di truppa sempre del Col Moschin, non correrebbe invece pericolo. Sull’operazione non si conoscono altri particolari, così come ammantata dal riserbo è l’attività della Task force 45, di cui si conosce pochissimo. Ignota pure la sorte dei talebani: quello che è certo è che i due elicotteri Mangusta hanno scaricato contro il loro rifugio l’enorme potenziale di fuoco di cui sono dotati. “Sono tornati scarichi”, ha detto una fonte, e questo rende l’idea di che inferno possa essere stato. Ma nel settore dell’Afghanistan affidato al comando italiano questa vigilia di elezioni è stata caldissima ovunque. Nel cuore di Herat, al bazar della Cittadella, l’antica fortezza che si dice sia stata costruita per volere di Alessandro Magno, alle 18.12 è saltata in aria una bicicletta esplosiva: l’ordigno rudimentale è stato azionato con un radiocomando. Tre feriti, tutti civili. Poco prima, più o meno nello stesso luogo, alcuni giornalisti italiani stavano facendo interviste in mezzo alle bancarelle e il clima non era del tutto cordiale. “Andrà a votare domani?”.

Il giovane ha risposto ringhiando: “Qui ci sono troppi infedeli”. Un quarto d’ora dopo lo scoppio. Sempre nella provincia di Herat, ad Adraskan, un candidato alle elezioni di domani è stato rapito, stessa sorte subita da 10 sostenitori di un altro candidato e da otto componenti della Commissione elettorale indipendente a Moqur, nella provincia di Badghis, sempre nell’ovest. Nel distretto di Shindand, un convoglio di camion che trasportava schede elettorali è stato coinvolto in un attentato: è esploso un ordigno, provocando il ferimento del conducente di un mezzo e di due passanti. E’ stato fatto intervenire uno dei team di “reazione rapida” italiani predisposti per garantire la sicurezza delle elezioni: i blindati Freccia sono giunti sul posto e, dopo aver messo in sicurezza l’area, hanno portato il materiale elettorale a destinazione. Ancora a Shindand, un razzo è caduto nell’area perimetrale che ospita la base militare italiana, senza provocare né feriti né danni. In mattinata un’operazione molto delicata di trasporto schede era stata compiuta da un elicottero Ch47 dell’Esercito, scortato da due Mangusta. L’equipaggio, sfidando una tempesta di sabbia, era riuscito ad arrivare nel remoto distretto di Por Chaman, dopo che per giorni l’impresa era fallita. Al comando italiano di Herat erano molto soddisfatti nell’annunciare la riuscita dell’operazione, perché solo in quel distretto non erano riusciti ancora a arrivare. Era cominciata bene e nessuno immaginava che non sarebbe stata una buona giornata.

IL CORDOGLIO DI NAPOLITANO – Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, appresa con profonda commozione la notizia dello scontro a fuoco in cui ha perso la vita il Tenente Alessandro Romani, mentre assolveva ai propri compiti operativi nell’ambito della missione ISAF in Afghanistan, ha espresso alla famiglia – rendendosi interprete del profondo cordoglio del Paese – i sentimenti della sua affettuosa vicinanza e della più sincera partecipazione al loro grande dolore. Nella tragica circostanza, il Capo dello Stato ha altresì chiesto al Capo di Stato Maggiore della Difesa, gen. Vincenzo Camporini, di rendersi interprete presso l’Esercito dei suoi sentimenti di cordoglio, di commossa solidarietà e di partecipazione al dolore provocato dal luttuoso evento. Il Presidente Napolitano ha inoltre fatto pervenire il suo incoraggiamento e un affettuoso augurio al primo Caporal maggiore Elio Domenico Rapisarda, ferito nello scontro a fuoco.

IL CORDOGLIO DI BERLUSCONI - “Ho appreso con dolore la notizia della morte del Tenente Alessandro Romani, colpito in uno scontro a fuoco in Afghanistan. A lui va il mio profondo ringraziamento e alla sua famiglia il mio più sentito cordoglio”. E’ quanto si legge in una dichiarazione del presidente del consiglio Silvio Berlusconi.

IL CORDOGLIO DI SCHIFANI – “Appresa la notizia della morte del Tenente del 9 Reggimento d’assalto Col Moschin Alessandro Romani, caduto nel corso di una operazione militare in Afghanistan, esprimo a nome mio personale e dell’intera Assemblea di Palazzo Madama, i sentimenti del più profondo e commosso cordoglio, pregandola di farli giungere ai familiari dell’ufficiale che ha sacrificato la vita per difendere la pace, la democrazia e la sicurezza nel mondo”. E’ quanto scrive il Presidente del Senato Renato Schifani nel messaggio inviato al Capo di Stato Maggiore della Difesa, Gen. C.A. Vincenzo Camporini.

FINI ESPRIME CORDOGLIO, PRESENZA INDISPENSABILE – “Nell’apprendere la tragica notizia dell’attentato odierno nel quale ha perso la vita il Tenente Alessandro Romani del nono reggimento d’assalto “Col Moschin”, e che ha causato il ferimento di un altro soldato, desidero manifestarLe i sensi della più intensa vicinanza mia personale e della Camera dei deputati alle forze militari italiane impegnate in Afghanistan”. Lo afferma il presidente della Camera Gianfranco Fini in un messaggio inviato al Capo di Stato maggiore della difesa Vincenzo Camporini.

LA RUSSA, PROFONDAMENTE COLPITO DA MORTE ITALIANO – Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, è “profondamente colpito” dalla notizia della morte del militare italiano in Afghanistan. Il ministro ha inviato al capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Giuseppe Valotto, un telegramma per esprimere “i sentimenti di sincero cordoglio delle forze armate e la mia sentita personale partecipazione al gravissimo lutto che ha colpito l’Esercito” e gli auguri di pronta guarigione al ferito. La Russa ha inoltre inviato un telegramma ai genitori del militare morto. “Partecipo – scrive – con profonda commozione, unitamente a tutto il personale delle forze armate, alla perdita di Alessandro, generosamente impegnato in una missione di grande valore umanitario. Il suo ricordo rimarrà per sempre nella memoria di chi crede nella pace e nella solidarietà fra i popoli”.

DA MARONI TELEGRAMMA CORDOGLIO - Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha inviato al ministro della Difesa, Ignazio La Russa, un telegramma nel quale ha espresso il proprio cordoglio alla famiglia del Tenente Alessandro Romani, deceduto oggi durante l’espletamento del dovere in Afghanistan e gli auguri di una pronta guarigione ai familiari del militare rimasto ferito. Lo riferisce una nota del ministero.

LA SAGA DELLA FAMIGLIA TULLIANI CONTINUA….(SECONDO DAGOSPIA e non solo)

Pubblicato il 17 settembre, 2010 in Gossip, Politica | No Comments »

1- FIAMME GIALLE E SERVIZI SEGRETI INDAGANO SULLA STRANA SVENDITA DI MONTECARLO – VOGLIONO TOGLIERSI IL DUBBIO CHE LA PRINTEMPS, LA SOCIETÀ OFF-SHORE CHE COMPRÒ L’IMMOBILE DA AN, E LA SUA GEMELLA TIMARA OGGI PROPRIETARIA DELLA CASA, NON SIANO COLLEGATE ATTRAVERSO L’ANCORA MISTERIOSA PROPRIETÀ AD UNA SPORCA STORIA DI RICICLAGGIO E L’EVASIONE FISCALE SULLO SFONDO DEL GIOCO ONLINE – 2- IL CONTO BANCARIO SU CUI “ELISABETTO” HA DEPOSITATO CENTINAIA DI MIGLIAIA DI EURO – 3- IL GIALLO DELLE UTENZE ALL’INDIRIZZO DI JAMES WALFENZAO, REGISTA DELLE OPERAZIONI AI CARAIBI E DEL PAGAMENTO DEI LAVORI DI RISTRUTTURAZIONE DELL’APPARTAMENTO – 4- ATTENTI ALLA FOTO: SCATTATA UNA SETTIMANA DOPO LA SVENDITA DI MONTECARLO, DAVANTI ALL’INGRESSO DELL’HOTEL VESUVIO DI NAPOLI, VEDE FINI E I TULLIANI IN COMPAGNIA DI AMEDEO LABOCCETTA, OGGI PDL MA PER LUNGO TEMPO VICINO AD AN E A FINI. BENE. QUANDO L’ATLANTIS, COLOSSO MONDIALE DEL GIOCO D’AZZARDO, SBARCA IN ITALIA SI AFFIDA COME PROCURATORE A LABOCCETTA. E CHI è L’AMMINISTRATORE DELLA ATLANTIS ? WALFENZAO! Sì, COLUI CHE, IN RAPPRESENTANZA DELLA SOCIETà OFFSHORE PRINTEMPS, ACQUISTA L’APPARTAMENTO DI MONTECARLO (E IL CERCHIO SI CHIUDE)

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1- LE CARTE SEGRETE DI MONTECARLO
Gian Marco Chiocci – Massimo Malpica per Il Giornale

tulliani

Tulliani e Timara Ltd, Timara Ltd e Tulliani. Si intrecciano pericolosamente i destini della società off-shore proprietaria dell’immobile di Montecarlo e l’inquilino eccellente che attraverso il cognato-presidente della Camera sponsorizzò prima la (s)vendita della casa donata ad An dalla contessa Colleoni e poi si ritrovò lui stesso nelle condizioni di andare ad abitare al 14 di Boulevard Charlotte.

Tulliani Fini e Sandro Bratti del PD

I destini (e i sospetti) si alimentano in relazione ai risvolti inquietanti sulla ristrutturazione del noto appartamento. Nessuno, però, ha parlato. Nemmeno il celebre syndic Michele Dotta, amministratore di quel prestigioso palazzo e della stragrande maggioranza degli immobili nel Principato, custode dunque dei segreti di migliaia di inquilini, seppe o volle dare delucidazioni al riguardo.

fini-tulliani

LAVORI IN CORSO (GRATIS)
A forza di scavare siamo arrivati a contattare un preziosissimo testimone: Stefano Garzelli, figlio del più grande costruttore di Montecarlo, presente fisicamente nell’appartamento dei misteri per conto della società Tecabat incaricata di rimettere a posto l’immobile acquistato a un prezzo stracciato dalla Ltd Printemps e che a sua volta lo alienò alla società «gemella» Timara Ltd, attuale proprietaria. Garzelli jr ha rivelato che esisteva «un rapporto diretto» fra Giancarlo Tulliani e la Timara Ltd; che nel cantiere Tulliani era sempre presente e diceva la sua su come dovevano essere fatti gli interventi; che il compenso finale ammontava a 100mila euro ma non ricordava a chi era stato fatturato, se a Timara o a Tulliani.

FINI, ELI, GIANCARLO TULLIANI, LABOCETTA,

Luciano Garzelli, papà di Stefano, ricevette incarico dall’ambasciatore Mistretta di cercare una soluzione ai problemi immobiliari dei Tulliani. L’imprenditore ha riferito che non solo Giancarlo, ma anche la sorella Elisabetta, mise becco sui lavori; che non si interessò più alla ristrutturazione perché i Tulliani avevano deciso di portare loro i materiali dall’Italia (cucina, arredi, piastrelle, eccetera); che alla fine passò la pratica a una società minore, la Tecabat, dove il figlio per l’appunto lavorava; e infine ha rimarcato come non sia normale che dei semplici affittuari portino «dall’Italia» i materiali per la ristrutturazione, posto che proprio sui materiali insiste il maggior guadagno per le società di restauro.

fini laboccetta in vacanza

RESTAURO MADE IN ITALY
Il titolare della Tecabat, Rino Terrana, a cui Garzelli jr faceva riferimento, parlando col Giornale ha complicato la vita a Giancarlo Tulliani: ha ammesso che i 100mila euro del restauro la sua società li ha fatturati personalmente alla Timara Ltd e non al cognato di Fini.

A sentire più imprese edili del Principato «non è normale» che i materiali per i lavori vengano portati dall’Italia; «non è normale» che una società monegasca di ristrutturazione accetti questa opzione svantaggiosa, a meno che non abbia ricevuto raccomandazioni importanti cui è impossibile dire di no; «non è normale» che siano gli stessi residenti a Monaco a far arrivare dall’Italia i materiali; non è normale ma è «fattibile» che prima di prendere possesso dell’immobile un inquilino possa mettersi d’accordo con il proprietario dell’appartamento accollandosi l’onere delle spese dei materiali e della ristrutturazione, che successivamente scalerà dalle rate del canone mensile.

Amedeo Laboccetta

Quest’ipotesi, purtroppo per Tulliani, si scontra con l’ammissione del proprietario della Tecabat che afferma d’aver fatturato 100mila euro alla Timara e non a Tulliani. Appare dunque singolare che la Timara Ltd, che acquistò la casa messa in vendita da An (su segnalazione del cognato di Fini) dalla gemella Printemps Ltd, si accolli pure le spese della ristrutturazione dando carta bianca su tutto ai Tulliani.

A ciò occorre aggiungere che Garzelli senior al Giornale ha detto di essere in possesso delle mail di un architetto romano che per conto dei Tulliani lo contattava ripetutamente proprio in merito ai lavori da effettuare nel famoso appartamento.

IL CANONE DA 19.200 EURO
Ma c’è di più: nel contratto d’affitto che il giovane Tulliani ha firmato il 30 gennaio 2009 verrebbe fuori che il canone annuo versato dal cognato di Fini alla Timara Ltd è assolutamente fuori mercato: appena 19.200 euro l’anno, e cioè solo 1.600 euro al mese. Per una cifra del genere a Monaco farebbero la fila da Ventimiglia.

GIANCARLO TULLIANI Luciano Garzelli

Di più. Per ottenere la residenza a Montecarlo si seguono due strade: o si ha un’attività professionale nel Principato, oppure occorre avere una garanzia bancaria solida che attesti l’indipendenza economica per vivere nel posto più caro al mondo. Dalla sua carta di soggiorno numero 053961 rilasciata il 20 febbraio 2009 risulterebbe che abbia optato per la seconda strada, che da queste parti significa un versamento cospicuo (dai 300 ai 400mila euro cash) vincolato alla banca per tutta la durata della sua residenza.

IL NUMERO DEL TESORO
Il conto numero 175-69-00017-1570-900001, acceso presso la Companie Monegasque de Banque, potrebbe ora essere messo sotto controllo dalla guardia di finanza. E allora, sui risvolti a dir poco curiosi della ristrutturazione, le domande si sprecano: a quale titolo l’affittuario Tulliani durante i lavori si comportava come il padrone dell’immobile? Che tipo di «rapporto diretto» c’è – per usare l’espressione usata da Garzelli jr – fra Tulliani e la Timara?

TULLIANI-MONTECARLO

Posto che la Tecabat ha fatturato alla Timara Ltd, chi ha pagato i materiali arrivati dall’Italia visto che secondo Garzelli senior i Tulliani insistettero per portarli personalmente? Se esiste un accordo fra Timara (proprietario) e Tulliani (affittuario) secondo cui quest’ultimo si accolla le spese dei lavori a fronte di un successivo sconto sull’affitto, perché la Tecabat fattura a Timara e non direttamente all’inquilino? Eppoi.

MONTECARLO TULLIANI

LE UTENZE OFF-SHORE
Tulliani ha girato alcune delle sue utenze personali al 27 avenue Princesse Grace, e più precisamente all’attenzione di James Walfenzao, l’amministratore della società off-shore Printemps Ltd che l’11 luglio, nello studio del notaio Aureglia, formalizzò l’atto d’acquisto dell’appartamento della Colleoni alla presenza del senatore di An Francesco Pontone.

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Perché lo fece? Perché venne formalizzata questa «deviazione» posto che Tulliani era già residente a Montecarlo da nove mesi? E infine. Giancarlo Tulliani è a conoscenza che Walfenzao era l’amministratore della Jason Ltd che controlla sia la società che ha comprato l’appartamento dove tuttora abita, sia quella che grazie al suo interessamento presso Gianfranco Fini riuscì ad accaparrarsi l’appartamento da un milione e mezzo di euro spendendone solo 300mila?

CASA TULLIANI A MONTECARLO

2- I SERVIZI SEGRETI SEGUONO LA PISTA CHE PORTA AI CARAIBI
Stefano Zurlo per
Il Giornale

Tante, troppe coincidenze. Gli stessi nomi che tornano a migliaia di chilometri di distanza. E il sospetto che il pasticcio della casa di Montecarlo possa portare lontano, molto lontano gli investigatori. Così da tempo, a sentire l’agenzia il Velino, Guardia di finanza e servizi segreti hanno deciso di chiarirsi le idee sulla strana vendita dell’appartamento di boulevard Princesse Charlotte 14.

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E vogliono togliersi una volta per tutte il dubbio che la Printemps, la società off-shore che comprò l’immobile da An, e la sua gemella Timara oggi proprietaria dell’appartamento, non siano collegate attraverso l’ancora misteriosa proprietà ad una storia più grande. Una storia in cui i segugi delle Fiamme gialle e gli 007 sospettano anche il riciclaggio e l’evasione fiscale sullo sfondo del gioco online.

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Un intreccio complesso e a tratti non ancora decifrato, ma che pone qualche domanda agli investigatori che ritrovano gli stessi personaggi da una parte all’altra del mondo.

Per raccapezzarsi, bisogna partire dalla data, ormai famosa, dell’11 luglio 2008: quel giorno An vende, o meglio svende il quartierno a una società off-shore dei Caraibi, la Printemps di Santa Lucia. Per il venditore, ovvero per An, nello studio del notaio monegasco Louis Aureglia si presenta il senatore Francesco Pontone, per la Printemps una coppia formata da James Walfenzao e Bastiaan Izelaar. Walfenzao: è lui l’uomo chiave o uno degli attori dell’operazione.

Francesco Pontone

È un professionista caraibico, specializzato nella costituzione di trust, fiduciarie e società costruite col metro della riservatezza. Walfenzao, con Izelaar, è dunque uno dei protagonisti del giallo dell’estate. Ma a migliaia di chilometri di distanza, rieccolo, Walfenzao ricompare ai Caraibi come amministratore per conto di Francesco Corallo di parte del capitale dell’Atlantis, un colosso mondiale del gioco d’azzardo che nel 2004 è sbarcato anche in Italia, nel campo del gioco online.

Curioso, perché Corallo è da sempre vicino ad An, e ancora prima al Msi; l’Atlantis quando arriva in Italia si affida come procuratore ad Amedeo Laboccetta, oggi parlamentare Pdl ma per lungo tempo vicino ad An e a Gianfranco Fini.

James Walfenzao

Insomma Walfenzao, più ubiquo di padre Pio, gioca sul mappamondo fra Montecarlo e le Antille Olandesi. Anzi, per la precisione, l’isola di Saint Marteen dove, combinazione, nel 2004 proprio Laboccetta, che da quelle parti è di casa e ai Caraibi vorrebbe essere addirittura seppellito, porta Fini, seguita da Daniela Di Sotto, in quel periodo ancora sua moglie, e dal suo uomo di fiducia Francesco Proietti.

Fini, fra un’immersione e l’altra, trova pure il tempo di andare a cena al ristorante di Corallo, l’imprenditore che, come accennato, è il socio forte della potentissima Atlantis. Corallo, secondo Marco Lillo del Fatto quotidiano, è stato messo due volte sotto inchiesta e due volte archiviato per traffico di droga e riciclaggio.

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Insomma, è incensurato a differenza del padre Gaetano, catanese, condannato a 7 anni e mezzo per associazione a delinquere, coinvolto a suo tempo nell’inchiesta che mirava a far luce sul tentativo della mafia catanese, quella del boss Nitto Santapaola, di impadronirsi di alcuni casinò.

Francesco Corallo

Come si vede, ci sono in questa storia monegasca alcune coincidenze e suggestioni che portano molto lontano. Ben oltre i 70 metri quadri di boulevard Princesse Charlotte. Ed è questa la pista che battono Guardia di finanza e Servizi. L’ipotesi, tutta da dimostrare, è che la Printemps sia stata costituita da soggetti italiani, o loro prestanomi, che intrattengono rapporti di concessione con i Monopoli.

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È appunto, o potrebbe essere, il caso dell’Atlantis che, attraverso la sua controllata italiana, invade con le sue macchinette il territorio italiano e ha come suo referente, fino al 2008, proprio Laboccetta.

Del resto l’Aisi, il servizio segreto interno, ha nel mirino le società che nel nostro Paese sono titolari del gioco online, compreso il poker, anche se hanno la sede legale all’estero. L’obiettivo istituzionale, naturalmente, è la lotta al riciclaggio e all’evasione fiscale e il lavoro prevede uno screening a tappeto degli operatori del settore. Così, ma il condizionale è d’obbligo, la storia dei Tulliani, della cucina e dei mobili potrebbe, sia pure indirettamente, rimandare a scenari molto più complessi.

C’E’ L’IPOTESI CHE FINI E TULLIANI VENGANO ASCOLTATI DAI PM DELLA PROCURA DI ROMA
Sara D’ambrosio per Il Secolo XIX

L’ipotesi di ascoltare anche la versione del presidente della camera Gianfranco Fini non è più totalmente esclusa. Dopo due giorni di audizioni e ancora in attesa delle carte provenienti da Montecarlo, i pm della procura di Roma stanno valutando se ascoltare anche l’ex presidente di An che nel 2008 accettò di vendere un appartamento monegasco poi finito in affitto al cognato Giancarlo Tulliani.

Nulla è ancora deciso e fondamentale sarà l’ultima valutazione degli atti mandati a chiedere due settimane fa a Montecarlo ma che non sarebbero ancora giunte a piazzale Clodio. Ma il procuratore capo Giovanni Ferrara e l’aggiunto Pierfilippo Laviani stanno prendendo in considerazione anche alcune misure organizzative.

Elisabetta Tulliani e Gianfranco Fini a Mirabello

A esempio, potrebbero decidere di ascoltare Fini nella sede istituzionale di Montecitorio, come segno di “rispetto” verso la terza carica dello Stato. Anche Giancarlo Tulliani, a questo punto, potrebbe essere ascoltato.

Del resto, le audizioni dei giorni scorsi hanno lasciato irrisolti parecchi punti dell’indagine. Soprattutto, non hanno chiarito come e perché fu fissato in 300 mila euro il prezzo dell’immobile ricevuto in eredità da An. E quanti, all’interno del partito, sapevano già nel 2008 che la società acquirente, la Timara ltd, era stata individuata su consiglio di Tulliani.

Ascoltato nel totale riserbo due giorni fa, il deputato di Fli Donato Lamorte, all’epoca capo della segreteria politica di Alleanza nazionale, ha spiegato che del legame tra Tulliani e la Timara ltd ha saputo solo recentissimamente. Quando, l’8 agosto scorso, Fini in persona ha scritto al Corriere della sera per raccontare la sua versione dei fatti: «All’epoca mi disse solo che aveva ricevuto una offerta di 300 mila euro – ha spiegato Lamorte ai magistrati – mi chiese un parere. E io gli risposi che prima ce la toglievamo di torno e meglio era».

casa montecarlo

Lamorte ricordava una abitazione in pessime condizioni, per averla visitata nel 2002 assieme alla segretaria particolare di Fini, Rita Marino, e ad alcuni amici con lui in vacanza a Montecarlo: «Sapevo che da quella mia visita del 2002 nessuno era più tornato in quell’appartamento, rimasto sfitto e disabitato finché Fini mi disse della proposta. Chiesi anche agli amministratori del partito se negli anni avessimo ricevuto qualche offerta, ma tutti mi dissero che non si era mai fatto avanti nessuno».

DONATO LAMORTE ROBERTO MENIA

Sulla valutazione, dice Lamorte, non ci fu nessuna trattativa: «Credo che fosse l’offerta che ci arrivava dalla società. Io mi ricordavo che al momento di iscriverla a bilancio, la casa era stata valutata sui 450milioni di lire. Seicentomilioni erano parecchio di più e, infatti, al momento dell’approvazione del bilancio in assemblea nessuno fece obiezioni».

Proprio sul prezzo, i magistrati stanno valutando similitudini e differenze tra le versioni dei testimoni convocati finora. Il punto è delicatissimo: la congruità del prezzo fissato è l’elemento centrale per stabilire se ci sia effettivamente stata una truffa ai danni degli iscritti di An.

Francesco Pontone

Martedì scorso, il tesoriere Francesco Pontone aveva spiegato che l’indicazione dell’acquirente e del prezzo sarebbe arrivato «dai vertici del partito». Rita Marino è stata più evasiva. Ascoltata subito dopo Lamorte, due giorni fa, ha spiegato di essere arrivata a Montecarlo durante una vacanza organizzata assieme al deputato. La donazione della contessa Anna Maria Colleoni aveva incuriosito un po’ tutti, di qui la scelta di andare a dare un’occhiata a quello strano regalo che il partito aveva messo a bilancio dopo una transazione informale con la famiglia della donna.

Nessun ricordo specifico, però, sulle modalità della decisione presa nel 2008, né su come fu fissato il prezzo: «Non ne so nulla, ricordo però che non ci fu una riunione dedicata». A occuparsi della transazione con la famiglia, era stato Antonino Caruso, civilista e unico del gruppo di allora che ha deciso di non seguire Fini in Futuro e libertà. Come raccontò in una intervista, il senatore ha confermato ai pm che dopo la transazione ricevette un offerta da un milione da uno degli amministratori del palazzo: «Ma dopo di allora non mi occupai più di quella casa per dieci anni. Ne ho sentito parlare di nuovo solo in questi giorni».

IL PAPA A LONDRA PER RILANCIARE IL DIALOGO RELIGIOSO

Pubblicato il 16 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

Incontro tra Benedetto XVI e i bersaglieri «Seguo con preoccupazione gli avvenimenti verificatisi in questi giorni in varie regioni dell’Asia Meridionale, specialmente in India, in Pakistan ed in Afghanistan. Prego per le vittime e chiedo che il rispetto della libertà religiosa e la logica della riconciliazione e della pace prevalgano sull’odio e sulla violenza». È l’appello lanciato da Benedetto XVI al termine dell’udienza generale di ieri, tenuto in aula Paolo VI. Il Papa si riferisce alle violenze anticristiane scoppiate a seguito della minaccia del pastore evangelico Terry Jones di bruciare copie del Corano in occasione dell’11 settembre. Il testo dell’appello del Papa viene diffuso separatamente dalla catechesi, segno che gli si vuole dare risalto particolare. E va inserito in una cornice più ampia, dato che la prossima Giornata Mondiale per la Pace avrà proprio come tema quello della libertà religiosa, un tema di stretta attualità, come confermano gli eventi recenti. È l’ultima udienza di Benedetto XVI prima della partenza per l’Inghilterra.
Oggi il volo papale sbarcherà a Edimburgo, dove incontrerà la Regina Elisabetta. È la prima tappa di un viaggio che si preannuncia importante: ogni momento del viaggio, centrato sulla beatificazione del cardinal John Henry Newman, anglicano convertito, sarà «pesato» dai media anglosassoni con particolare attenzione. Ma, specifica Vincent Nichols, primate di Westminster, non si tratta di un viaggio in un Paese secolarizzato, perché «la gente è molto aperta all’idea di Dio». Benedetto XVI non sembra sentire la tensione. Rilassato, arriva in Aula Paolo VI, gremita di fedeli, e svolge la sua lectio, durante la quale rende omaggio alle «donne coraggiose» che «offrono un decisivo impulso per il rinnovamento della Chiesa». Parla di Santa Chiara e del suo coraggio a lasciare a 18 anni la famiglia per diventare suora. È l’udienza che segna la fine delle vacanze per il Pontefice.
Durante l’estate aveva tenuto le udienze a Castel Gandolfo, nel cortile e anche all’aperto, nella piazza antistante il Palazzo Pontificio. Dopo il viaggio in Inghilterra tornerà in Vaticano, dove lo aspettano le fatiche del sinodo dei vescovi. Al termine dell’udienza, l’incontro con 200 Bersaglieri, accompagnati da una rappresentanza della Fanfara del Corpo. Questi, al termine dell’udienza, hanno offerto al Papa l’esecuzione della loro caratteristica marcia, che eseguiranno anche il 20 settembre per ricordare la presa di Porta Pia. Poi, la rappresentanza di bersaglieri si avvicina a Benedetto XVI per salutarlo, e gli regalano il tipico cappello dei bersaglieri (con le piume). Il Papa non resiste, e lo indossa. Di ritorno a Castelgandolfo, dove lo attende una piccola cerimonia: vengono consegnate nelle mani del Pontefice le chiavi di due moto Ducati personalizzate con i colori del Vaticano (bianco e giallo), che andranno ad arricchire la scorta. Dato che la Gendarmeria non può andare in divisa fuori dalle Mura Vaticane, resta da capire se saranno usate solo dentro Città del Vaticano. O se, magari, è in vista una qualche revisione degli accordi con la Polizia italiana.

FINI? ANDRA’ CON LA SINISTRA…LA PROFEZIA IN UN LIBRO DI AN DEL 2005

Pubblicato il 15 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

di Mariateresa Conti

«Fini, nel riconoscere che c’era bisogno di un salutare e rigenerante “bagno di umiltà” si riferiva forse più al Cavaliere che a se stesso. Una velenosa stoccata che, nel chiaro intento di colpire apertamente Berlusconi, si è rivelata come una cinica sollecitazione al premier affinché si facesse finalmente da parte e lasciasse ad altri il posto del comando…».
Non è un commento al discorso programmatico del presidente della Camera e leader del Fli a Mirabello. E nemmeno un’analisi post assemblea del Pdl di aprile, quella in cui il presidente della Camera, puntando l’indice accusatore, ha attaccato a testa bassa il Cavaliere. Comunque uno scritto recente, direte voi, viste le considerazioni contenute, il piano di Fini per scalzare Berlusconi e diventare leader del centrodestra. E sbagliate, clamorosamente. Perché il testo da cui è tratto il brano citato ha ormai oltre cinque anni. È stato pubblicato nell’anno di grazia 2005 ed è tratto da un saggio interessante, «Lo Spergiuro. Da Fiuggi a Gerusalemme – dalla Fiamma alla Farnesina (e dal governo all’opposizione?)», edizioni L’Aquilone. A scriverlo non un veggente, non un mago con la palla di vetro, ma Emilio D’Andrea, giornalista, ex militante del Msi prima e di An poi, ex consigliere regionale della Basilicata, uscito dal partito in polemica con la gestione di An. Anzi, pardon, non uscito ma cacciato via dall’allora leader di Alleanza nazionale, che lo ha espulso perché “reo” di avere assunto posizioni critiche rispetto alla dirigenza e, udite udite, di avere fondato proprio in dissenso con Fini un gruppo consiliare autonomo.
Cinque anni portati benissimo, quelli del volumetto. Che traccia un ritratto impietoso del giovane Fini-Pinocchio – così lo dipinge l’autore – diventato leader grazie ad Almirante prima e a Berlusconi poi. Un leader ingrato, che, secondo l’autore, ha calpestato i suoi padri con l’abiura del fascismo e con gli attacchi al Cavaliere che lo aveva sdoganato. D’Andrea parte da lontano, da «la carriera del raccomandato», così si intitola il capitolo riguardante i primi passi del giovane Gianfranco, baciato dalla fortuna e da Almirante-Geppetto che incoronandolo delfino lo ha sempre aiutato e protetto.
È l’analisi di un militante deluso, la sua, di un fedelissimo che ha visto disperdersi, a causa della leadership di un «padre padrone» che è come «l’ottone, che luccica ma non è oro», il patrimonio della destra. Di un militante che si preoccupa, anche, per i primi germi di una liaison con la sinistra. Guardate cosa scrive, a proposito del 1998, ben 12 anni fa: «In quell’anno Fini si avventurò oltre ogni limite, contro l’orientamento ufficiale di Forza Italia, in favore del “sì” al referendum sull’abolizione della quota proporzionale, sostenuto anche dai Ds, da Segni e da Di Pietro…». E poi, gli «applausi» della sinistra, annotati quasi con orrore dall’autore: «da D’Alema a Gavino Angius e, persino Fausto Bertinotti!», scrive D’Andrea. Profetico.
Sono tante le notazioni che potrebbero essere calate in pieno nella cronaca di oggi, non escluse quelle sulla «gestione patrimoniale del partito» affidata a una «stretta oligarchia di vertice», l’affaire Montecarlo insegna. Ma è il capitolo che D’Andrea dedica alla propria cacciata quello che, letto adesso, si rivela a dir poco illuminante. Tutto nasce da una contesa locale, la nomina di un capogruppo dall’alto che D’Andrea non digerisce. Protesta, scrive una lettera a Fini. E nelle more che la sua voce, pur in dissenso, sia ascoltata, costituisce al consiglio regionale della Basilicata un gruppo autonomo. Ed ecco cosa accadde: «Sul Secolo d’Italia – scrive D’Andrea – quotidiano d’informazione del partito e non già suo deliberante organo di disciplina, un breve trafiletto annunciava l’avvenuta mia espulsione da partito per avere aderito ad un gruppo consiliare diverso da An. Fu quella – chiosa l’autore – un’abnorme e dispotica forzatura dello statuto e del regolamento, che per casi simili prevede ben altre e più articolate modalità». Esattamente quello che Fini, oggi, contesta a Berlusconi e al Pdl. Chi di espulsione ferisce…

.La storia di Fini è un lungo elenco di capitomboli e di giravolte di cui si sono persi i numeri. Non ci stupirà più di tanto che la sua storia si concluda (speriamo presto!) negli antri bui della sinistra parolaia e rancorosa che da qualche tempo ha eletto Fini a suo utlimo oracolo. Insieme a Vendola. g.

LE SETTE VITE DI BERLUSCONI, di Mario Sechi

Pubblicato il 14 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Silvio Berlusconi Non è ancora il momento per tirare le somme, ma la politica va commentata in ogni sua mossa. E se oggi guardiamo la scacchiera non possiamo non vedere che per Gianfranco Fini la vita si fa difficile. Non che navigasse in mari tranquilli, ma in ventiquattr’ore il presidente della Camera registra sul suo taccuino di gioco il fatto che il repubblicano Giuseppe Nucara annuncia la costituzione di un gruppo parlamentare di venti deputati e l’Udc è in pieno marasma. Il nuovo gruppo si chiamerà – come anticipato da Il Tempo - «responsabilità nazionale» e aggiungerà i suoi voti a quelli dei finiani che, secondo quanto espresso a Mirabello dal leader Fini, voteranno il governo in carica.

La politica italiana è roba per gente con i nervi saldi e per questo non bisogna anticipare il risultato, ma se le premesse si traducono in fatti, Berlusconi mette a segno un colpaccio da maestro che la dice lunga sulla qualità degli avversari. Mai sottovalutare il Cavaliere. Ha sette vite come i gatti. Fini vede in queste ore assottigliarsi tutto il peso dei voti del gruppo che aveva costituito alla Camera e al Senato. Al netto delle difficoltà che emergeranno comunque durante le sedute parlamentari, l’influenza dei finiani potrebbe uscirne fortemente ridotta. Casini nel frattempo vede sotto i suoi occhi il gruppo dei parlamentari siciliani prendere una rotta imprevista: l’Udc non è un monolite, i parlamentari siciliani hanno detto chiaramente che la linea di Pier non li convince, che così non si va da nessuna parte e loro non ci stanno. O meglio, ci stanno a votare il Cav.

Al di là dei numeri e della cronaca che registra ogni giorno una sorta di stop and go della politica, lo scenario che sta emergendo è abbastanza chiaro: il partito dello sfascio, delle elezioni anticipate a ogni costo, la fazione del logoramento, il gruppo del tanto peggio tanto meglio (facendo finta di esser il meglio in circolazione) non ha il consenso non degli italiani – cosa per la quale non c’era bisogno di aver fatto grandi studi per capirla – ma neppure dello stesso Parlamento che di andare a votare non ne vuol sapere e di vivacchiare aspettando uno sbadiglio o uno sternuto di Fini neppure. Intendiamoci, qui le partite sono tutte ancora aperte e, osservando da parecchio tempo il Palazzo, so bene che i voti sono in cassaforte solo quando la votazione s’è chiusa. Ma la sensazione è quella che lo scollamento tra i desideri degli antiberlusconiani (già ridimensionati dal fatto che non possono permettersi le elezioni) e la realtà politica e sociale sia gigantesco.

Di Fini abbiamo parlato parecchio durante l’estate, ma val la pena ribadire che il suo progetto politico se non assente ha una gittata cortissima: ha rotto con la destra classica, ha avviato un percorso verso una terra di mezzo dove impera una gran confusione ideologica, la sua truppa parlamentare somiglia a una Babele. Non sono grandi ingredienti per sfornare una buona torta politica. Se a questo aggiungiamo il deficit di organizzazione che gli impedisce di rompere del tutto e giocare la carta delle elezioni anticipate, è chiaro che così Gianfranco sbatte dritto contro un muro di titanio. Fini ha i suoi guai, ma ciò che è davvero incomprensibile è come Pier Ferdinando

Casini, un politico di razza, uno allevato nel ventre della Balena Bianca, uno che conosce benissimo il Palazzo, un enfant prodige del Parlamento, possa sprecare tutto il suo talento in una posizione ormai surreale. Né a destra né a sinistra, collocato in un centro mobile che l’elettorato non ha mai sposato fino a farlo diventare un’onda di piena. Vien da chiedersi e chiedergli: Casini, dove vai? Non può agitare la bandiera dell’antiberlusconismo dei descamisados, è lontano anni luce per formazione culturale e tradizione politica dalla sinistra laicista, il suo garantismo non può permettersi di finire in ostaggio degli alleati deboli di Di Pietro, e lui ancora si ostina a stare nel limbo, in una posizione politica «né né» che tra un po’ lo farà apparire come un leader immaturo, cosa che tra l’altro Pier non è affatto. Casini può anche non far pace con Berlusconi, ma deve tornare a percorrere la corrente del centrodestra e appoggiare il governo di Silvio con una formula che sia rispettosa delle sue scelte degli ultimi anni. Si può divorziare da un leader politico come Berlusconi, non apprezzarne lo stile e la cultura politica, distinguersi e perfino farci la guerra ogni tanto, ma se la tua storia è quella della Democrazia cristiana, allora devi esser flessibile e pragmatico, cattolico e laico insieme: Casini dopo lo strappo di Fini dalla destra classica, è l’unico che ha ancora un elettorato potenziale di matrice moderata. Ma l’elettorato è come un campo da coltivare. Se tu te ne allontani, non lo ari, semini e curi, allora non puoi lamentarti se il raccolto è scarso. L’elettorato di Casini non sta a sinistra né tantomento nel fantomatico centro che non è maggioritario. Sta a destra. E Casini deve coltivarlo. Se lo fa, torna in campo per il futuro, se sceglie di stare dall’altra parte o di non scegliere, si ritrova a giocare a scopa con Fini. Sai che divertimento.

IL COMPAGNO BERSANI NON VUOLE VIVERE 120 ANNI

Pubblicato il 13 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

Bersani ieri ha parlato al suo popolo, quello del Pd, in un tripudio di bandiere e applausi. Li ha chiamati «compagni», quali in effetti sono, al di là delle dissimulazioni e dei camuffamenti adottati a più riprese negli ultimi anni. Il leader dell’opposizione moderata e riformatrice torna alle sue origine comuniste, e lo fa con l’orgoglio di chi resta saldamente legato a quella ideologia, messa formalmente da parte non per convinzione ma per spirito di sopravvivenza. E del comunismo, il leader del Pd nel suo discorso rispolvera tutta la retorica, la tristezza, il grigiore, la noiosità, soprattutto (…)
(…) l’utopia. Che cosa ha detto Bersani? Che bisogna riscattare il popolo dalla sua misera condizione, che ci aspettano tempi duri, anzi durissimi, perché questo è un Paese sull’orlo del baratro.
Un Paese, nessun Paese, è una macchina perfetta, questo è ovvio. Perché è fatto da uomini in carne ed ossa e perché le risorse non sono infinite, ma hanno un limite ben preciso oltre il quale c’è solo la bancarotta. Il compagno Bersani questo lo dovrebbe sapere bene. Il Pci, infatti, ha co-governato con la Dc l’Italia per cinquant’anni, approvando (e votando) il settanta per cento delle decisioni, soprattutto quelle più sciagurate che hanno fatto esplodere il debito pubblico, elevato la tassazione, consegnato il mondo del lavoro nelle mani dei sindacalisti. Ma non solo. Negli ultimi 18 anni, cioè dalla nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, la sinistra ha governato in prima persona 10 anni contro gli 8 di Berlusconi e alleati.
Non si capisce bene, dati alla mano, perché Bersani non processi se stesso invece che Berlusconi, al quale tutto può essere rinfacciato meno che di aver portato i conti pubblici in zona a rischio. Il motivo è ovvio, vuole prendere il suo posto e continuare a fare i disastri degli ultimi settant’anni. Ma sbaglia i conti, e le parole d’ordine. Crisi, disoccupazione, povertà, sacrifici: c’è da toccarsi ogni volta che parla. Soprattutto perché dall’altra parte, il leader del centrodestra, oltre che una visione liberale della vita e della società, ha anche il dono dell’ottimismo, e alle iatture di Bersani contrappone obiettivi difficili ma di altro genere. Tipo: vi abbasserò le tasse, sconfiggeremo il cancro e vivremo fino a 120 anni, tenete duro che grazie a voi la crisi passerà, viva le belle donne, chi si impegna ce la farà a fare carriera, sappiate sorridere e ridere che fa bene e porta buono e altre cose simili.
Ora, se escludiamo il pugno di intellettuali e qualche moralista pubblico, secondo voi, la nazione a chi si dovrebbe affidare? A un becchino o a un Cavaliere, mettiamo pure sognatore? La gente ha bisogno di sogni, possibilmente di vittoria. Parola, quest’ultima, assente dal discorso di Bersani, che non osa pronunciarla neppure accostata al nome del suo partito. Tanto che come soluzione dei problemi non ha detto: dai ragazzi, facciamo cadere Berlusconi che andiamo a votare e vinciamo. No, ha detto (sintetizzo): speriamo che Fini riesca nella sua azione di mandare in crisi la maggioranza, così andiamo dal compagno Napolitano e ci facciamo fare un bel governo tecnico insieme a chiunque ci sta. Ma se non ci crede lui che la sinistra può essere una grande forza alternativa al centrodestra, chi diavolo vuole convincere?

LE SPINE DI FINI

Pubblicato il 13 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

In politica, si sa, bisogna spesso bluffare perché in politica le apparenze contano, eccome. Avete mai sentito un candidato, seppure condannato a sicura sconfitta da tutti i sondaggi, alzare bandiera bianca prima del voto? No. Fino a quando non sarà sconfitto dall’ufficialità dei numeri – «la proprietà dei numeri è la giustizia» annotava Pitagora – continuerà a dire con sicumera che è certo di vincere e che ha fiducia nel buon senso degli elettori. Non siamo ancora in campagna elettorale, ma di questi bluff in giro se ne vedono già parecchi. Tutti guardano a Silvio Berlusconi e al Pdl in questo momento, identificano nel presidente del Consiglio e nel partito di maggioranza il cratere dove si annidano i guai maggiori. Di converso, Gianfranco Fini e il suo Futuro e libertà godono di buona stampa fra molti osservatori e commentatori. Mentre la sinistra non è pervenuta, invischiata tanto per cambiare nei teatrini della «democrazia interna».

Proviamo allora a ragionare su Futuro e libertà, sgombrando subito il campo da un equivoco, direi un bluff, di fondo: si tratta di un partito. Non è, per intenderci, la «cosa» richiamata a più riprese dai malpancisti di sinistra che per anni si sono fatti del male alla ricerca di un’identità perduta. Futuro e libertà è, sottolineo, un partito. Che conta su gruppi parlamentari, che ha una struttura sul territorio con circoli e sedi, che può permettersi perfino un giornale (Il Secolo) vivo grazie ai fondi pubblici. E che, soprattutto, ha un progetto politico non più sovrapponibile a quello del Pdl ma su più punti autonomo e differente. Al massimo, quindi, Futuro e libertà è un lontano parente del Pdl, di certo non ne costituisce una costola.
È stato Fini a marcare la distanza, a scavare il fossato: sono stato «cacciato» dal partito che ho contribuito a fondare – così sostiene – e ho quindi dato vita obtorto collo a un nuovo soggetto politico. Il partito di Fini, allo stato, dovrebbe cavalcare quella che i sondaggisti definiscono la «good wave», l’onda buona. In realtà, nonostante l’enorme esposizione sui media, Futuro e libertà non solo non sfonda ma arranca nei consensi. E qui cominciano le spine di Fini, che molti preferiscono non vedere. A cominciare dall’eventualità delle elezioni, viste dal «resistente» della Camera come fumo negli occhi. Non per senso di responsabilità (altro bluff), ma per mero opportunismo. Chi si sente cacciato da un partito e rivendica una lunghissima storia politica dovrebbe correre verso le urne proprio in virtù della sua popolarità e sfidare sull’unico vero campo il nuovo nemico. Invece no. Agli elettori viene riproposto il balletto risibile della fedeltà al programma, condito però da un parossistico bignamino dei «non possumus» che di fatto ne mina le fondamenta. Certo, da Fini è tutto un sì: sul federalismo, sulla giustizia, sul welfare. A condizione, però, che si faccia secondo le idee di Futuro e libertà. Sempre pronto a rivendicare la nobiltà del confronto col Pdl ma al tempo stesso pronto a esercitare il ricatto del voto contrario se non venissero accolte le proprie tesi.
Non è un caso se Antonio Di Pietro cannoneggi Fini: lo fa proprio perché il giustizialismo e l’antiberlusconismo dei neoavanguardisti rischiano di fare breccia sul suo elettorato. La contraddizione, a questo punto, è evidente: coagulare consensi con una mostrificazione del Cavaliere – nei dibattiti come nei colloqui confidenziali con le procure – non sa forse di oltraggio a una storia comune anche se oggi rinnegata?
Di spina in spina, Fini sa di non potersela cavare con insulti (a proposito, l’Ordine dei giornalisti non ha nulla da dire?), sorrisi e battutine sulla casa di Monte-Carlo di proprietà di An, venduta a prezzo stracciato e finita in affitto «a sua insaputa» al cognato dopo disinvolte e ancora oscure giravolte societarie. E non è da uomo di stato appellarsi a un’inchiesta della magistratura chiamata a chiarire se ci sono risvolti penali. L’onore, la politica e la chiarezza verso gli elettori gli imporrebbero di affrontare la stampa e dare pubblicamente le risposte che mancano. Magari prendendo per un orecchio il cognato, sparito dalla circolazione fin dalle prime fasi della vicenda. Non lo farà, ovviamente. Perché, oltre al senso del pudore politico, dalle parti di casa Fini si fa fatica a rintracciare anche quello dell’onore. (DA PANORAMA)

CARO PRESIDENTE, FAI LA SVOLTA, di Mario Sechi

Pubblicato il 12 settembre, 2010 in Il territorio, Politica | No Comments »

Mario Sechi, direttore de Il Tempo, scrive oggi una lettera al Presidente Berlusconi sul Pdl. E propone: alla festa di Atreju mentre i finiani esultano e dicono che lei “è al tramonto”, spiazzi tutti,  rilanci il partito e dia più spazio ai giovani. Ecco il testo della lettera pubblocata sotto forma di editoriale sulla prima pagina del quotidiano romano, da sempre voce ed espressione dell’elettorato moderato della Capitale e di gran parte del centro-sud italiano.

Il premier Silvio Berlusconi Caro Presidente Berlusconi, lei oggi sarà l’ospite d’onore della festa di Atreju. È un appuntamento importante perché la manifestazione ha confermato di essere l’unica dove la politica – non il potere per il potere – è anima e passione. Prima di cominciare a parlare, guardi bene negli occhi quelle migliaia di giovani e si chieda. Cosa si attendono da un leader politico? Cosa sognano questi ragazzi? Cosa posso fare per loro? Cosa significa quella luce che vedo nelle loro pupille? Molti di loro quando lei nel 1994 scese in campo erano appena dei bambini. Non hanno il ricordo dei terribili anni di Tangentopoli, non possono scavare nella memoria per ritrovare le sue parole quando decise che si poteva e doveva provare a costruire «un miracolo italiano». Anche io in quegli anni ero molto giovane, ma avevo già cominciato a scrivere sui giornali. Superati da un bel po’ i 40 anni, mi impegno tutti i giorni per costruire qualcosa che resti a lungo, lasciare in eredità parole chiare, giornali ben fatti e, un domani, istituzioni culturali più forti e autorevoli.

Cultura, visione del mondo, classe dirigente per il futuro. Lei sa bene che in questa surreale estate in alcuni salotti si è deciso a tavolino di inaugurare la stagione del «dopo Berlusconi» e con essa cercare di liquidare il “berlusconismo” come fenomeno sociale. Ieri Italo Bocchino alla festa dell’Udc a Chianciano ci ha offerto un saggio di questo pensiero, dicendo che lei è «un’anomalia», che «il berlusconismo è alla fine» e dunque bisogna «rimettere in piedi il sistema» e che sta per arrivare la stagione di un modello politico «non più bipolare». Mi vengono i brividi al pensiero di quale sistema abbiano in mente. Pensano che una volta tolto di mezzo lei, il Cavaliere nero, si potrà fare tabula rasa di tutto quel che hanno significato questi sedici anni di storia italiana. Tasto reset e via. Questi poteri puntano dritti alla restaurazione. Prima Repubblica. Forse peggio perché senza partiti ben costruiti. Sarebbe un errore gigantesco e mi auguro non solo che prevalga la saggezza, ma che lei non si limiti alla ricerca del dato numerico, ai seggi necessari per neutralizzare la tenaglia finiana. Serve un progetto politico rafforzato che recuperi anche lo spirito originario, quello del 1994 e spenga ogni tentativo di cambio di regime senza legittimazione popolare. Caro Presidente, non basta «andare avanti», non è sufficiente salvare la legislatura e continuare a tenere in vita il governo. Serve di più, lasci perdere il dibattito tra «falchi» e «colombe», è l’ora di far volare qualche aquila con lo sguardo lunghissimo perché è giunto il momento di riconoscere alcuni errori, correggerli e dare un colpo d’ala.

Il Pdl nel giro di una settimana ha visto tre momenti importanti di formazione per i giovani: Atreju a Roma, la Summer School di Magna Carta a Frascati e la scuola di formazione politica di Gubbio. Non c’è altro partito che oggi faccia altrettanto. Ma dove finiscono poi questi giovani? Un leader politico – e lei lo è – ha il dovere di interrogarsi sul cosa ne sarà di quei giovani quando la sua avventura politica sarà terminata. Lei deve chiedersi: «Cosa lascio in eredità a questi ragazzi?». Sono certo che nel suo cuore conosce le risposte. Dietro di lei c’è un gruppetto di sessantenni che si spaccia per il nuovo ma mira solo a conquistare la poltrona, amministrare l’esistente e metabolizzare la sua uscita per poi gattopardescamente concludere che «bisogna che tutto cambi affinché tutto resti come prima». E invece bisogna cambiare. E per farlo occorre un coraggio da leoni.

Cambiare cosa? Migliorare la selezione della classe dirigente del suo partito, tanto per cominciare. Approfitti dello strappo di Fini, spinga il piede sull’acceleratore e faccia qualche nuovo innesto nel gruppo dirigente attuale. Metta in pista qualcuno dei trentenni e quarantenni. Nel partito ci sono. Gente in gamba che conosce l’economia, la politica, le potenzialità della società connessa. Gente che ha una visione del mondo più grande del proprio collegio elettorale o, peggio, tornaconto personale. Questo non significa accantonare l’esperienza di chi ha lavorato con lei finora, tutt’altro, l’esperienza è un valore, ma bisogna rigenerare il Pdl per rispondere ai “nuovisti” parolai con i fatti.

Renda incompatibili gli incarichi parlamentari e regionali con quelli nel partito. E apra un dibattito per proporre di regolare con una legge seria la vita dei partiti politici con primarie vere, non quelle burla del Pd che si vanta di esser democratico e non lo è.

Al lavoro nel partito deve affiancarsi una diversa presenza nelle istituzioni che fanno consenso e cultura. Lei sa benissimo che in quelle sedi gli intellettuali liberali sono visti come una minaccia, nelle case editrici - nelle sue in particolare, caro Cavaliere - chi seleziona i libri da leggere, i film da produrre, il materiale culturale che poi diventa anche e soprattutto idea politica, ha una visione delle cose lontana anni luce da quelle del mondo conservatore. Il partito della restaurazione, quello che sogna da sedici anni la sua fine, si alimenta di questa incapacità del centrodestra di cambiare marcia. Questo vale per la cultura, per l’economia, per la finanza, per l’apparato dello Stato dove i voltagabbana sono già pronti a cambiare casacca un’altra volta. S’è mai chiesto come mai nel grande sistema dei media – quello che detta davvero l’agenda politica – si parla un linguaggio che non è quello liberale? Ci faccia caso, tutto l’immaginario nazionale è costruito attorno a suggestioni che nulla hanno a che vedere con la società che lei rappresenta. I simboli e le parole della rivoluzione conservatrice sono stati sapientemente occultati in tutti questi anni. Si fa una gran fatica a parlarne e si viene spesso marginalizzati proprio nei contesti in cui si potrebbe dare testimonianza di una cultura diversa, alta e popolare nello stesso tempo, capace di interpretare questa fase della modernità. Pensi alla classe dirigente della Rai. Dov’è l’Italia moderata nelle idee di viale Mazzini? Quale voce ha la maggioranza silenziosa? Pensi ai manager di altre grandi aziende. Sono quasi tutti già appagati, arrivati e poco curiosi del mondo, mentre i più giovani e capaci sono emarginati. Se c’è qualcuno che ce l’ha fatta, è un’eccezione. Promuova una legge dove i mandati nei cda delle grandi aziende non sono rinnovabili per più di due volte. Faccia crescere i talenti giovani e chi ha avuto tutto dall’azienda si accomodi a fare il presidente onorario. Metta le università italiane di fronte al fatto che hanno mancato il loro compito, che i rettori sono in gran parte da cambiare, che molti di loro hanno letteralmente fatto «bancarotta». Apra alle agevolazioni fiscali per chi finanzia l’arte, la ricerca, lo studio. E lasci perdere le «tre i», è roba stravecchia dettata da cariatidi accademiche e ministeriali abbarbicate alla poltrona. I giovani in gamba queste cose le sanno già benissimo. Metta altre due parole nel programma e nel suo prossimo discorso in Parlamento: «C», come concorrenza di idee e «M», come meritocrazia. Sia lei la guida del «moderno» e lasci a Fini e ai suoi precari alleati la ragnatela e la polvere dell’antico partito novecentesco.

Solo così la sua egemonia elettorale si trasformerà in egemonia culturale. Per respingere l’assalto in corso e provare a costruire una prospettiva lunga, che va oltre il 2013, occorre che il suo consenso diventi qualcosa di diverso da una straordinaria macchina acchiappa-voti. Lei è già nella storia, ma quei ragazzi che ha davanti hanno bisogno di una guida per cominciare a scrivere la loro di storia. Non li lasci soli. Non si volti indietro. Lei ha il dovere di regalare loro un sogno. Lo realizzi.

BERLUSCONI, FINI E L’OCCIDENTE, di Mario Sechi

Pubblicato il 11 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini Il partito del rigore. E quello della spesa. Il partito nato dalle urne. E quello dei giochi di Palazzo. Il partito che non archivia Dio, Patria e Famiglia. E quello del relativismo e della confusione dei valori. Il partito della rivoluzione reaganiana. E quello della restaurazione partitocratica. Il partito che nove anni dopo non ha dimenticato il «siamo tutti americani» pronunciato l’11 Settembre 2001. E quello che ha smarrito le ragioni dell’Occidente. Silvio Berlusconi. E Gianfranco Fini. Due mondi opposti. Scontro di civiltà dentro la politica italiana. Quella di oggi, cari lettori, è una data particolare. Ognuno di noi ricorda perfettamente dov’era quando il primo aereo si conficcò come una spada dentro il corpo di una delle due torri. Sembrava un incidente. Poi arrivò il secondo e nessuno ebbe più dubbi: l’America era sotto attacco. Il nostro mondo era minacciato. Nove anni dopo, siamo qui. E non siamo più tutti americani.

Quello che sta accadendo nella politica italiana ha molto a che fare con il mondo dopo l’11 settembre 2001. Più di quanto si possa immaginare. In poco tempo abbiamo assistito a un ripiegamento dell’Occidente su se stesso, all’avanzare di forze che hanno minato quel poco che resta della nostra identità. Superata l’emozione, contati i morti, la distanza non solo tra noi e l’America, ma quella tra chi ha ancora a cuore le sorti della nostra civiltà e quelli che pensano di annacquarla e disperderla, è diventata siderale. Il vero dibattito sul nostro tempo, le ragioni della nostra esistenza, il fondamento di tutti i ragionamenti sulla nostra contemporaneità, hanno come data di partenza il 12 settembre 2001, il giorno dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Siamo stati testimoni di uno shock della storia, di un salto gigantesco in un’altra epoca. L’attacco di al Qaeda ha messo a nudo chi sono i nostri veri nemici. E non mi riferisco ai talebani, ma alla debolezza interiore dell’Occidente, alla sua illusione di potersi difendere senza mai combattere per un ideale. L’Italia, Paese al centro del Mediterraneo, alleato storico degli Stati Uniti, ha vissuto quel trauma in maniera particolare. Abbiamo visto una minoranza cercare di battersi per riaffermare le ragioni della nostra civiltà, la democrazia per tutti e non per pochi, i valori non negoziabili al posto del suk etico e morale. Nove anni dopo, quella battaglia infuria ancora.
L’America di Barack Obama vive quel travaglio nella certezza di una Costituzione formidabile e di un presidente che, pur avendo commesso molti errori, non può sfuggire al verbo dei padri fondatori. Noi siamo invischiati in una lotta dove una minoranza culturale cerca di tenere alta la bandiera dell’Europa con le sue radici: l’impero Romano e le radici cristiane. La culla della civiltà del Vecchio Continente è qui, nella Città Eterna. La difesa di quella memoria, la sua cura, dovrebbe essere uno dei nostri primi doveri. Ma vediamo all’opera troppi sfasciacarrozze, troppi uomini incapaci di avere una visione del mondo. A Silvio Berlusconi si possono rimproverare non poche cose – e domani, 12 settembre, ci tornerò – ma gli va dato atto di aver compreso qual era la partita in gioco. Due sono i grandi shock storici ai quali abbiamo assistito in questi nove anni. Entrambi accadono in settembre: l’11 settembre 2001 l’Occidente scopre di essere vulnerabile, la fortezza America viene trafitta. Il 15 settembre 2008 Lehman Brothers, quarta banca americana fondata nel 1850 fallisce. E la crisi finanziaria si occupa di ridisegnare il potere globale. Due fratture della contemporaneità che hanno sconvolto il mondo. E l’Italia ne è uscita a testa alta, nonostante quel che dicano e scrivano i benpensanti. Quando l’America decise di reagire, Silvio Berlusconi fu dalla parte giusta. Quando la bolla finanziaria esplose, Giulio Tremonti prese il timone e diede la rotta giusta. Potevamo sbagliare e oggi guardare la carcassa della nostra nave abbandonata sugli scogli.
E invece abbiamo dimostrato che quando le crisi sono devastanti abbiamo ancora genio e risorse. Potevamo fare meglio? Può darsi, ma se guardiamo le ferite degli altri, possiamo dire che questo centrodestra, pur con grandi limiti, ha trovato una ragion d’essere. Oggi questo patrimonio di scelte e ideali è in pericolo. In discussione non ci sono le poltrone dei finiani o di altre sagome grigie della politica italiana. In gioco ci sono i pilastri di una politica che dal 1994 ha tenuto incollato, con grandi difficoltà, il nostro Paese all’Occidente. Niente è eterno, ma se vince il partitello del relativismo, della spesa, del meridionalismo piagnone, della politica estera senza carattere e fantasia, allora possiamo davvero chiudere i battenti e scrivere una parola finale: restaurazione. Noi, anche nell’imperfezione e approssimazione di questi giorni, preferiamo continua a raccontare un’altra storia: quella di un’incompiuta e ideale rivoluzione conservatrice.

IL PARTITO DI FINI E’ IL PARTITO DELLA SPESA

Pubblicato il 11 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

A dispetto del nome scelto per il suo gruppo, Futuro e Libertà, Gianfranco Fini non ha affatto proposto per l’Italia ricette liberali. La sua, anzi, sarebbe una tipica dottrina assistenzialista, che costerebbe allo Stato ed ai contribuenti molti miliardi a fondo perduto. È l’opinione di due illustri editorialisti, Angelo Panebianco e Luca Ricolfi. Panebianco rinfaccia al presidente della Camera la formula assai vaga del «federalismo solidale». Fini gli ha risposto sollecitando «Meccanismi di perequazione in grado, se gestiti a livello centrale in modo imparziale, di ridurre il divario tra le aree del Paese». Con il che i dubbi di Panebianco sono aumentati. Quanto a Ricolfi, sociologo della sinistra illuminata, va oltre. Accusa Fini di voler fare «un partito sudista-assistenzialista». E aggiunge: «Se si va alla sostanza, ossia alla politica economica, è il partito di Fini che soccombe nettamente». Insomma, come già avevamo scritto due giorni fa, dal comizio di Mirabello è assente una seria proposta economica. E quella che c’è costerebbe ai contribuenti, compresi quelli del Centro-Sud dei quali Fini si dice paladino, parecchi miliardi, senza nessun vero impegno alla responsabilità di chi maneggia il denaro pubblico. Vediamo punto per punto. Cominciando proprio dal «federalismo solidale». Di che si tratta? Fini non lo dice. Eppure è insediata da tempo una commissione parlamentare bipartisan sull’attuazione delle deleghe per il federalismo nella quale siede un senatore finiano: l’economista Mario Baldassarri. Peccato che Fini citi questa importante presenza solo per ricordare che il voto di Baldassarri «è determinante».
Diversamente avrebbe verificato, magari con l’ausilio di Baldassarri, che l’abbandono del meccanismo dei costi storici per la sanità (ad ogni regione si dà in base a quanto ha speso finora) a favore dei costi standard (cioè l’individuazione di benchmark virtuosi) non è drammaticamente punitiva per il Sud. E soprattutto non ha colore politico. In commissione ci sono tre ipotesi: della Corte dei conti, di un gruppo di tecnici di area Pd, e del Centro studi Sintesi, anch’esso vicino al Partito democratico. Nel primo caso il benchmark sarebbe costituito dalle quattro regioni con il miglior rapporto tra costi e prestazioni: Lombardia, Veneto, Emilia e Toscana. Nel secondo si aggiungerebbero i differenti oneri territoriali per ricoveri e farmaci. Nel terzo si terrebbe anche conto di gruppi di regioni di dimensioni omogenee. Tralasciando le tecnicalità, con il primo criterio avremmo un risparmio complessivo di 2,3 miliardi l’anno, con il secondo di 4,4, con il terzo di 8,3. Chi guadagnerebbe e chi perderebbe? C’è una sola regione che dovrebbe seriamente ridimensionarsi in tutte e tre le ipotesi, ed è il Lazio, a causa del poco invidiabile record di debito di 10,7 miliardi. Il suo sistema sanitario dovrebbe rinunciare rispettivamente a 1,6 miliardi, 1,4 e 2,9. Con la proposta della Corte dei conti i beneficiari sarebbero Lombardia, Toscana, Umbria, Marche e Basilicata. Al Sud, ci rimetterebbe di più la Campania (291 milioni); più o meno quanto, però, Piemonte e Veneto. Per tutte le altre regioni si tratterebbe di aggiustamenti dell’ordine di decine di milioni, tanto al Settentrione quanto al Meridione.
Con la prima ipotesi di area Pd, a guadagnarci sarebbero Toscana ed Emilia, a perderci – oltre al Lazio, soprattutto Campania e Lombardia. Puglia a Calabria vedrebbero le proprie risorse ridotte meno di Veneto e Liguria. L’altra soluzione «piddina» costerebbe parecchio all’Emilia, molto a Piemonte e Liguria, abbastanza alla Calabria e zero ad Abruzzo, Campania, Puglia e Basilicata. Dunque di quale federalismo solidale sta allora parlando Fini? Conosce le ipotesi sul tappeto? A meno che non voglia lasciare la sanità regionale così come è: in questo caso la sua «ricetta» costerebbe 28,4 miliardi di euro. A tanto ammontano i debiti cumulati dalle regioni, tra i quali oltre al Lazio spiccano la Campania (6,3 miliardi), la Sicilia (3,6), la Puglia (1,4), la Sardegna (1,2) e la Liguria (1,1): per fermarci a chi ne ha per oltre un miliardo. Fini, però, non può ignorare che tre regioni – Lombardia, Friuli e Alto Adige – danno ai cittadini più di quanto costano, e che sull’altro fronte quattro – Lazio, Campania, Calabria e Molise – dovranno da quest’anno imporre nuove addizionali Irpef e Irap. Vogliamo andare avanti così, in attesa del federalismo solidale? Proseguiamo. L’altra proposta di Fini è di introdurre subito il quoziente familiare per le tasse, cioè la riduzione dell’imposta sul reddito in rapporto a coniuge, figli e genitori a carico. Nulla da obiettare come principio; tra l’altro è anche uno dei cinque punti programmatici di Silvio Berlusconi.
Ma il leader di Futuro e libertà ha un’idea dei costi? Anche qui farebbe bene a leggersi se non le stime di Giulio Tremonti, del quale magari diffida, della Corte dei conti: a seconda che si introduca un quoziente familiare secco (divisione dell’imponibile per numero di persone a carico) o corretto con vari coefficienti, e che si mantengano o meno le detrazioni d’imposta, il costo annuo oscilla fra i 3 ed i 12 miliardi. Fini sa dove trovare queste risorse (e aggiungiamo: lo sa il Cavaliere?). Andiamo avanti. Il presidente della Camera ha proposto «un nuovo patto tra capitale e lavoro». Ma che significa? Il nuovo patto lo stanno già scrivendo – per fortuna lontano dalla politica – Sergio Marchionne, i sindacati riformisti e, più o meno obtorto collo, la Confindustria e la Federmeccanica. È materia di queste ore. Oppure Fini ha nostalgia dei maxi tavoli concertativi, o magari corporativi? Ancora. Chiede che fine ha fatto l’abolizione delle province. Sacrosanto. Peccato che nei novanta emendamenti presentati a maggio dai parlamentari finiani alla manovra economica ce ne sia uno che esclude proprio il taglio delle province, «in quanto necessiterebbe di una modifica costituzionale e non porterebbe risparmi significativi». Nello stesso pacchetto di proposte si chiede anche il mantenimento di alcuni enti da tagliare, tra i quali svetta l’Isae, per il quale si è particolarmente speso Baldassarri.
Ma non è finita. Gli emendamenti dei finiani proponevano anche di cancellare la facoltà per il comune di Roma di imporre la tassa di soggiorno (in cambio, 300 milioni), nonché la norma che ha alzato la soglia per ottenere l’assegno di invalidità. Eppure il costo per lo Stato di queste pensioni è passato in sette anni da 6 a 16 miliardi. Infine: Baldassarri, monetarista assai apprezzato ed oggi principale consigliere economico del presidente della Camera, è autore, un anno fa, di una «controfinanziaria» da 35 miliardi. Per l’esattezza, 15 di minori tasse alle famiglie con aumento delle deduzioni (e il quoziente familiare?), 12 alle imprese, cinque di investimenti in infrastrutture, e tre fra difesa, sicurezza e ricerca. E la copertura? «Trentacinque miliardi da tagliare tra acquisti delle pubbliche amministrazioni e contributi a fondo perduto». Come dire: magari ce lo potessimo permettere. Magari l’Europa accettasse sgravi fiscali subito in cambio di tagli di spesa sulla carta. E a proposito d’Europa: allora Baldassarri era contrario all’innalzamento dell’età pensionabile, una riforma realizzata invece dal governo parificando l’età di pensione tra uomini e donne nel pubblico impiego (richiesta ultimativa dell’Unione europea) e collegando l’età pensionabile all’allungamento delle prospettive di vita. L’idea di Baldassarri era che «l’allungamento dell’eta pensionabile deve andare in parallelo con gli ammortizzatori sociali». Ma in tutti questi anni non si è riportata in equilibrio la previdenza separandola dalla cassa integrazione? Ovviamente tutte le opinioni meritano rispetto, a cominciare da quelle di Mario Baldassarri. Un po’ meno credibile risulta invece Gianfranco Fini nei panni di custode «liberale» dell’economia. Se solo applicassimo le sue ricette su fisco, invalidità e federalismo solidale tireremmo fuori ogni anno dai 10 ai 50 miliardi: a spanne, si intende.