Archivi per settembre, 2010

11 SETTEMBRE: SIAMO ANCORA TUTTI AMERICANI?

Pubblicato il 11 settembre, 2010 in Politica estera | No Comments »

9 anni fa, l’11 settembre! A nove anni di distanza dall’evento che ha cambiato il mondo, ha cambiato le abitudini e le certezze del mondo occidentale, siamo ancora tutti americani? “Siamo tutti americani”   fu 9 anni fa lo slogan facile e ripetuto per esprimere solidarietà all’America colpita con inaudita violenza e altrettanza freddezza dal terrorismo islamico internazionale. Fu un modo per stringerci, tutti, intorno ad un Popolo che della libertà di tutti ha fatto la sua ragione politica e per la libertà di tutti ha sacrificato la vita di tanti suoi figli: dalla prima alla seconda guerra mondiale, dalla guerra di Corea a quella in Vietnam, sino ad arrivare all’Iraq e all’Afghanistan, è stata l’America, sono stati gli Stati Uniti a pagare il conto più di tutti per la difesa della libertà di tutti. Ma dopo 9 anni cosa rimane di quella solidarietà che allora attraversò il cuore e la mente del mondo occidentale, e di quello europeo in particolare? A prima vista nulla, ma al di là della retorica sembra che quella solidarietà si sia annacquata, se mai vi sia davvero mai stata. Eppure sotto sotto siamo sempre e tutti americani. Lo siamo quando guardiamo all’America come esempio di virtù civili, di rispetto delle regole, di fede nella democrazia. Ma appena si affonda il coltello nel ventre molle della nuda verità ci si accorge che quella solidarietà è solo puro esercizio verbale perchè in verità ciascuno pensa a se stesso e mai che l’America si veda sostenuta nelle sue ragioni e nelle sue battaglie per la civiltà e per la democrazia. L’Europa o meglio ciò che si afferma essere la sua espressione politica, cioè l’Unione Europea, mentre si affanna a condannare la Francia per le sue decisioni in materia di immigrazione, dimentica di difendere le radici cristiane della nostra civiltà; mentre è sempre pronta a condannare chiunque si opponga alla sempre crescente islamizzazione della nostra terra, mai che prenda le difese delle vittime del terrorismo islamico, badate non dell’Islam, ma delle sua espresisone più feroce. E’ di queste ore l’avviso di Obama che vuole Bin Laden, “vivo o morto” che sa tanto di propaganda a buom mercato rispetto alle decisioni dello stesso Obama di ritirarsi dall’Iraq e entro breve tempo anche dall’Afghanista, i luoghi dove il terrorismo più radicale, quello, per intenderci di Bin Laden, attecchisce, si sviluppa, si trasforma in forza bruta da scagliare contro l’Ocicdente, le sue radici, le sue tradizioni. Non non ci sitiamo e per questo oggi, oggi come 9 anni fa, non esitiamo a dirci “americani”. g.

LA STABILITA’ DEL GOVERNO BERLUSCONI E’ GARANZIA PER L’ITALIA

Pubblicato il 10 settembre, 2010 in Economia, Politica, Politica estera | No Comments »

Il presidente russo Dmitry Medvedev e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi Silvio Berlusconi sbarca oggi in Russia, a Yaroslav, per partecipare ad un Forum sulla democrazia che il Cremlino ha l’ambizione di trasformare in una Davos d’Oriente. Ma il clou della visita è il pranzo sul Volga con Dmitri Medvedev: i capi della superpotenza vogliono capire gli sviluppi della politica italiana, e soprattutto se il Cavaliere resterà al governo. Già all’inizio della settimana Vladimir Putin aveva dichiarato – fatto inusuale per gli standard diplomatici russi – di «seguire con attenzione la situazione dell’Italia», augurandosi continuità nell’azione di Berlusconi. Il motivo è evidente: in questi due anni l’Italia è diventata per Mosca un partner economico e strategico di primo livello pur non rinnegando l’appartenenza al campo moderato ed occidentale. E dunque ciò che avviene a palazzo Chigi, e la sua stabilità, è per la prima volta rilevante sulla scena internazionale. Tutto questo vale assai più dei comizi di Gianfranco Fini ed anche delle pernacchie di Umberto Bossi.

Il fondatore di Futuro e Libertà nella sua intemerata di Mirabello non è riuscito a tirar fuori una sola proposta economica con un minimo di concretezza. Anzi, ha dato la sensazione di una certa nostalgia per lo Stato spendaccione e assistenzialista: non basta parlare di ricambio generazionale, di diritti dei precari o di federalismo solidale; bisogna anche indicare con quali risorse finanziarie e quali strumenti di mercato si intendono affrontare i problemi.

Quanto a Bossi, la sua visione delle cose economiche appare tuttora ancorata al localismo: può portare consensi in campo sociale, però non sta dietro a processi che spesso sfuggono alle grandi potenze e ad intere macro-aree, figuriamoci se possono essere controllati da Bergamo o Treviso. La Lega continua saggiamente ad affidarsi all’acume di Giulio Tremonti, tuttavia non è andata esente da qualche scivolata, a partire dalle fondazioni bancarie nelle quali ha voce in capitolo, fino al caso attuale del governatore del Friuli-Venezia Giulia, pizzicato ad utilizzare l’auto blu per scopi personali. Il famoso slogan «Roma ladrona» andrebbe revisionato. Ma se questi sono, diciamo così, problemi di crescita, quelle di Fini appaiono come vere lacune politiche e culturali.

Il presidente della Camera può strappare applausi facili alzando la voce sulle «genuflessioni a Gheddafi»: dimentica di aver firmato (assieme a Bossi) una legge contro l’immigrazione clandestina che solo ora, grazie ai buoni rapporti con il regime di Tripoli, ha prodotto risultati. Ma soprattutto trascura gli interessi strategici dell’export delle imprese italiane: la sensazione è che Fini sia un po’ regredito alla dimensione di An, o del Msi, cioè ad una iper-valutazione della politica pura con una sostanziale indifferenza per la concorrenza ed il mercato. Di fatto tutti i dossier più importanti, e che richiedono saldezza e continuità nell’azione del governo (con o senza elezioni) continua ad averli in mano Berlusconi. Dal nucleare, sul quale la Lega ha pure assunto un atteggiamento ambiguo, alle infrastrutture, fino ai debiti-monstre ereditati nelle regioni e nei capoluoghi del centro-sud, Roma in testa. Senza ovviamente trascurare l’evoluzione della crisi: abbiamo dati sopra le attese sulla vendita di case, e stime deludenti dell’Ocse e del Fondo monetario sul Pil. Se fossimo negli Usa daremmo più importanza ai primi, perché certificano un dato di fatto rispetto a previsioni; ma soprattutto perché fotografano una certa ritrovata fiducia patrimoniale degli italiani; mentre il Pil, indicatore in movimento, può nascondere molte cose, dal sommerso alla propensione delle imprese ad investire all’estero. In ogni caso non c’è affatto da abbassare la guardia. Né tantomeno da cambiare governo dell’economia; caso mai da potenziarlo. I grandi accordi in campo energetico, dal nucleare agli approvvigionamenti di gas dalla Russia e alle concessioni petrolifere dell’Eni in Libia, sono stati negoziati personalmente dal Cavaliere. E qui il discorso dell’interim allo Sviluppo economico non regge, visto che dall’altra parte ci sono Sarkozy, Putin e Gheddafi.

Stessa cosa si può dire per il riposizionamento della Finmeccanica dopo i problemi incontrati con la Casa Bianca di Barack Obama: il gruppo di Guarguaglini deve per forza andare a contendere a Francia e Inghilterra i mercati emergenti, nonché tornare, appunto, sul nucleare. Dove però Gianranco Fini (anche Umberto Bossi, ma sorprende meno) appare davvero a corto di strategie è su come affrontare, da Roma in giù, il dilemma sintetizzabile in «debiti contro sviluppo».

Non è un dibattito accademico, ma una realtà che incide mese dopo mese sulle tasche dei contribuenti o sull’avvio di un’impresa. E forse non a caso tutti i principali amministratori locali – Gianni Alemanno, Renata Polverini, Giuseppe Scopelliti – benché provengano dall’area di An o dai suoi paraggi, si sono ben guardati dal seguire il loro antico leader. Si tratta, per fare l’esempio di Roma e del Lazio, di proseguire la gestione commissariale di un debito di venti miliardi e contemporaneamente amministrare la capitale ed una regione con il secondo Pil d’Italia. La continuità è un obbligo. Non c’è spazio per i comizi. Ps. Non abbiamo neppure sfiorato le ricette economiche della sinistra. Non è una dimenticanza: semplicemente non risultano pervenute. (Il Tempo- 10 settembre 2010)

IL BLUFF DI FINI SULLA CASA DI MONTECARLO

Pubblicato il 9 settembre, 2010 in Costume | No Comments »

Franco Bechis per “Libero

Il manuale è uscito nella sua ultima edizione alla fine del 2004, presentato dal ministro degli Esteri dell’epoca, Gianfranco Fini. Porta il titolo “Guida alla notifica all’estero degli atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile e commerciale”. Poche pagine, per spiegare agli uffici giudiziari italiani come si fa una rogatoria paese per paese.

Manuale utilissimo oggi per quella procura di Roma a cui Fini ha affidato – tempo qualche mese – l’accertamento della verità sulla reale proprietà della casa di Montecarlo lasciata in eredità ad Alleanza nazionale dalla contessa Anna Maria Colleoni e oggi abitata dal cognato del presidente della Camera, Giancarlo Tulliani.

Elisabetta Tulliani e Gianfranco Fini a Mirabello

Basterebbe sfogliare quel manuale che probabilmente Fini conosce a memoria per avere una certezza: si può fare con successo una rogatoria alle Bahamas, in Belize, in Bostwana, in Kirghizistan, alle Seychelles, perfino a St Vincent e Grenadine. Ma non nell’isola di Santa Lucia: non ha alcuna convenzione bilaterale con l’Italia, non aderisce alle convenzioni internazionali dell’Unione europea, non ha messo la sua firma né sotto la convenzione de L’Aja del primo marzo 1954 né sotto il testo successivo che l’ha riformata il 15 novembre 1965.

La rogatoria sulla casa a Montecarlo farebbe quindi un buco nell’acqua, perché nessuno sarebbe tenuto a rispondere o dare assistenza giudiziaria alla procura della Repubblica di Roma. Quella “fiducia” nei giudici manifestata da Fini davanti alle telecamere di Enrico Mentana è quindi un clamoroso bluff del presidente della Camera, che da ex ministro degli Esteri sa perfettamente come il segreto di quella casa sia stato blindato in uno dei pochi posti al mondo in cui la magistratura nulla può.

Se proprio avesse voglia di perdere tempo e soldi la procura di Roma potrebbe inviare la rogatoria all’unica rappresentanza diplomatica ufficiale italiana che ha giurisdizione su Santa Lucia: l’ambasciata di Caracas, in Venezuela. Che al massimo ha il potere di inviare una raccomandata con ricevuta di ritorno al ministero della giustizia di Santa Lucia, nella città di Castries, che non ha alcun obbligo di risposta. Non sarà mai per via giudiziaria che si potrà conoscere la verità sulla vendita di quella casa a Montecarlo.

E non potrà essere nemmeno per altre vie ufficiose ogni tanto utilizzate attraverso la cooperazione di fatto delle polizie finanziarie (ad esempio nella guerra internazionale contro il terrorismo). Perché le due società protagoniste della vendita della casa nei paradisi fiscali, la Printemps Ltd e la Timara ltd, hanno azioni intestate fiduciariamente al portatore.

Sono quindi di chi ha in tasca, in mano o in un cassetto della scrivania in questo momento le azioni. Per cambiare azionista non c’è bisogno di grandi transazioni: basta vedersi in un bar e passare di mano quella intestazione fiduciaria e le azioni al portatore. Non esiste documentazione sulla costituzione della società, non esiste passaggio bancario che sia in grado di provare alcunché.

La casa di Montecarlo lasciata in eredità ad AN e finita nella disponibilità del “cognato” di Fini, cioè il fratello della sua compagna.

Non si potrà mai provare ad esempio, se il nome Timara è sigla di “Tulliani immobiliare a responsabilità anonima” o di “Turturro immobiliare a rogito anonimo“,per seguire possibili acronimi in lingua italiana. L’intervista di Fini a Mentana dunque nasconde un consapevole bluff, indegno di un leader politico e ancora di più del rappresentante della terza carica istituzionale della Repubblica italiana.

Ma se è possibile trasferire di mano le azioni al portatore a un cavaliere bianco pronto a presentarsi azioni in mano davanti alla stampa italiana, perché Fini non ha scelto subito questa strada? Per due ragioni ovvie. La prima è che deve essere d’accordo chi in questo momento ha in tasca quelle azioni al portatore. La seconda è invece una ragione squisitamente economica. Chi si presentasse alla stampa con le azioni in mano, è in quel momento l’unico reale proprietario della casa di Montecarlo. Ha tutti i poteri per vendere l’immobile.

GIANCARLO TULLIANI, “cognato” di Fini

Le agenzie immobiliari valutano quella casa intorno ai 25-30 mila euro al metro quadrato. Un abitante dello stesso palazzo ha rivelato di avere offerto fino a 1,5 milioni di euro per comprare la casa che fu di An. Se la transazione avvenisse quel milione e mezzo finirebbe ovviamente nelle tasche del venditore. Se il venditore fosse solo un prestanome, quella cifra finirebbe nelle sue tasche beffando il proprietario reale. Senza cambio di portatore, è chiara però una cosa.

Tutti possono nascondersi dietro la Timara ltd, meno la famiglia Tulliani. Perché è chiaro che non si può ricevere un bene a 300 mila euro e ottenere una plusvalenza da 1,2 milioni di euro destinati alla famiglia del primo venditore. Una ipotesi per la sua rilevanza penale più che politica talmente grave da dovere essere esclusa senza ombra di dubbio.

BERLUSCONI IN AULA?: SIA SEVERO, di Mario Sechi

Pubblicato il 9 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Silvio Berlusconi La crisi aperta da Gianfranco Fini nella maggioranza, il conflitto e la confusione ideologica tra i finiani, la contestazione al segretario della Cisl durante la festa del Pd, sono le facce della stessa medaglia: c’è chi sguazza nel caos e cerca di trarne vantaggio, c’è chi questo caos lo alimenta tutti i giorni con atti o omissioni gravi, c’è chi il caos lo interpreta come il semaforo verde per tornare a sentirsi rivoluzionari. Di cose brutte in passato ne abbiamo viste parecchie, alcune di quelle che si presentano davanti ai nostri occhi sono davvero imbarazzanti, ma se mettiamo insieme i cocci che stanno schizzando per terra, non possiamo non vedere che uno scenario di instabilità e contrapposizione radicale rischia di far piombare il Paese in un clima ancor più pericoloso. Il Palazzo ha riaperto i battenti in uno scenario da rompicapo. Il capo del governo sta cercando di capire se e come potrà mandare avanti l’esecutivo e salvare una legislatura preziosa per consentire al Paese di continuare sulla strada della ripresa.
I menagrami nonve lo diranno, ma il mercato immobiliare italiano si sta riprendendo: è un segnale di ottimismo delle famiglie che spazza via gran parte delle critiche lanciate in questi mesi sull’operato di Berlusconi e di Giulio Tremonti. S’è detto che eravamo con le ruote sgonfie, ma se le famiglie la pensassero così non si sognerebbero di investire, accendere mutui, far ripartire il mattone, indicatore principe della ricchezza degli italiani. Sarebbe un peccato terribile far naufragare la legislatura quando ci sono segnali di ripresa della fiducia e mentre il governo si appresta a emettere altri miliardi di debito, il polmone che finanzia l’attività dello Stato. L’Italia non ha bisogno di sfascisti. Si sono fatte un sacco di ipotesi bislacche sul come uscire dallo stallo nel governo. Credo che la via maestra sia una sola: agire dentro le istituzioni e misurare di volta in volta le forze e la reale volontà dell’avversario. Tutto il resto, le manifestazioni, gli appelli, le interviste televisive, sono importanti per la comunicazione e il rapporto con la base elettorale, ma non risolvono il problema della sopravvivenza dell’esecutivo e non sono la spiegazione di cui ha bisogno il cittadino per capire che cosa sta succedendo. Per fare questo, Berlusconi deve andare in Parlamento con un discorso molto netto, chiarissimo, molto severo. Deve raccontare ai parlamentari e agli italiani che cosa è accaduto da un anno a questa parte. A costo di essere ruvido, deve far emergere tutte le contraddizioni del caso Fini. Non per far cambiare idea al presidente della Camera, questo mi pare un obiettivo vano, quanto per dare ai membri della Camera e del Senato un quadro esauriente della situazione. Deve presentarsi in Parlamento come uno statista che ricorda agli eletti dal popolo che devono rispondere al popolo dei loro atti e devono assicurare al Paese stabilità e continuità di governo. In questa maniera Berlusconi farà un richiamo – l’ultimo – a quanti hanno davvero a cuore le sorti della legislatura. Serve responsabilità, non andare avanti alla cieca. La navigazione a vista è pericolosa.
Per questo il presidente del Consiglio non può limitarsi a incassare il voto dei finiani perché questo lo metterebbe subito nella difficile condizione dell’ostaggio politico di una minoranza che in testa ha una sola cosa: logorarlo. Berlusconi ha il dovere – e deve spendere tutte le sue energie per farlo – di dare una maggioranza autosufficiente al governo. Il presidente del Consiglio deve guidare il Paese senza andare ogni giorno con il cappello in mano a chiedere il voto dei finiani. Mi rendo conto della difficoltà del progetto, ma al di fuori di questa dimensione politica ci sono solo due scenari: 1. i finiani consumano il governo, ma lo tengono in vita per tarlarlo meglio, fino a farlo implodere al momento opportuno; 2. il governo cade subito e si tenterà di dar vita altrettanto rapidamente a un ribaltone e chissà quali altri inconfessabili papocchi. La terza via, quella del voto anticipato, quella che sembrerebbe più scontata, in realtà è la più difficile. E in ogni caso, per arrivarci in maniera limpida, cristallina, occorre appunto un discorso parlamentare di Berlusconi molto solido e politicamente denso. È la pietra sulla quale fondare un nuovo patto con gli elettori, quello che condurrà poi alla data del 2013, scadenza naturale della legislatura. Prima di tutto questo, è necessario misurare le legittime ambizioni della Lega. Bossi è un uomo dal fiuto politico eccezionale, il suo obiettivo primario dichiarato è il federalismo, ma la Lega è anche un partito particolare. Non è un movimento politico riducibile alla classica bipartizione destra-sinistra.
La Lega ha un programma che di volta in volta si modula sui bisogni dei suoi elettori e gli interessi del partito nel gioco delle alleanze. Agli albori del movimento Bossi amava dire che era fondato su «basi socio-economiche» e gli intellettuali – che niente hanno mai capito del Carroccio – storcevano il naso senza afferrare che il Senatur diceva sul serio e poteva permettersi in un certo senso di essere se non a-ideologico, certamente privo degli -ismi del Novecento e robustamente pragmatico, il tanto che basta per essere percepito come alternativo e in grado di passare dalla formula di partito di opposizione, alla dimensione simultanea «di lotta e di governo». La collocazione della Lega nel centrodestra non è un dato permanente.
Il Carroccio è il miglior alleato di Berlusconi perché non è ancora un partito che ha raggiunto la dimensione che gli consentirebbe di rendersi completamente autonomo. Ma un’altra tornata elettorale, magari causata da una rottura traumatica dell’esperienza di governo, darebbe al partito di Bossi il carburante per mettersi al centro di tutto il sistema politico, cioè diventare una formazione in grado di scegliere di volta in volta gli alleati più funzionali al raggiungimento degli obiettivi politici. Una SuperLega non conviene a nessuno, né a destra né a sinistra. E un governo in ostaggio dei finiani le darebbe ancora più forza. Anche per questo motivo Berlusconi deve pensare alle elezioni anticipate come seconda miglior scelta. Prima deve venire il tentativo di rendere il governo autosufficiente. Così salva non solo il suo governo, ma il Paese da una frattura politica e sociale certa di cui gli avventurieri di destra e di sinistra non si curano. Solo così nessuno potrà rimproverargli di non aver provato a fare il suo dovere di uomo di Stato. Perché chi rompe, alla fine paga.

ANNOTAZIONI SULLA CRISI POLITICA

Pubblicato il 8 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

UFFICIO DI PRESIDENZA DEL PDL: DECIDE IL PARLAMENTO

Come volevasi dimostrare, sarà il Parlamento a decidere il proseguimento della legislatura e del mandato ricevuto dagli italiani, o viceversa il ritorno alle urne. Quanto Silvio Berlusconi, nel vertice del Popolo della Libertà del 20 agosto, aveva delineato e annunciato i cinque punti di programma da sottoporre alle Camere, aveva visto giusto: era quello il cammino politicamente e istituzionalmente più corretto, ma soprattutto più chiaro di fronte all’opinione pubblica, per valutare la tenuta o meno della maggioranza.

Tutto il resto era, ed è, roba da comizio, da corridoio, da palazzo, insomma rigurgito e scorie della vecchia politica. Il richiamo alla responsabilità, alla lealtà, agli impegni presi attraverso un voto trasparente e pubblico: questo è ed è sempre stato il modo di fare del Pdl.

Prima delle elezioni Berlusconi presentò un programma elettorale chiaro, e lo sottopose agli alleati di coalizione e soprattutto al giudizio degli italiani. E’ quanto si fa adesso in una situazione che è stata resa complessa non da colpe del governo.

Il governo – non ci stancheremo di ripeterlo – ha infatti mantenuto gli impegni e ben operato. Non lo diciamo noi, lo dicono gli altri. All’estero, la commissione europea riunita ieri e lunedì a Bruxelles assieme all’Ecofin ha riconosciuto che l’Italia non corre rischi dal punto di vista dei conti pubblici, e ha anche fatto propri due punti proposti da tempo dal governo italiano: l’emissione di obbligazioni europee per finanziare infrastrutture, e no ad altre tasse destinate a colpire il sistema finanziario.

All’interno è paradossalmente l’opposizione a riconoscere, magari in modo involontario, la bontà dell’azione di governo. Quando propone inverosimili governi tecnici presieduti da Giulio Tremonti (ma non era il ministro dei tagli e della macelleria sociale?), e quando si appella al proseguimento dell’opera di risanamento economico pur di non tornare alle urne.

Ma basta guardarsi intorno per vedere quanto sia diversa la situazione in Italia e all’estero. Ieri in Francia sciopero generale contro la riforma delle pensioni annunciata da Sarkozy: da noi pace e stabilità sociale, pur di fronte a riforme rilevanti che hanno definitivamente messo in sicurezza il sistema previdenziale.

La Federmeccanica ha deciso di disdire il contratto nazionale delle “tute blu”, di fatto attuando nella pratica la riforma dei contratti di lavoro alla quale hanno lavorato il governo e le confederazioni riformiste, contro l’ostilità preconcetta di Fiom e Cgil. E’ un riconoscimento importante da parte del mondo imprenditoriale e sindacale.

Ancora: per uscire dalla crisi, Barack Obama ha deciso di puntare sulle infrastrutture, stessa priorità individuata da sempre da Berlusconi. E dalla Russia, Vladimir Putin ha dichiarato di seguire con interesse le vicende italiane: l’interesse è che il nostro Paese mantenga la stabilità e il ruolo di protagonista nelle vicende politiche ed energetiche internazionali.

In passato mai c’era stata tanta attenzione alla stabilità politica italiana. E qui torniamo al programma dei cinque punti annunciato da Berlusconi. Sono altrettante riforme strategiche per il nostro futuro, e sono frutto del programma di governo votato dagli elettori e poi dal Parlamento all’atto dell’insediamento. Dunque non è pensabile che siano oggetto di mercanteggiamento politico da parte di chi, su quel programma, si è guadagnato il posto di parlamentare, di sottosegretario, di ministro o ancora di più.

In Parlamento si vedrà chi ci sta e chi non ci sta. Chi non ci sta si assume la responsabilità di una eventuale crisi, e dal suo logico sbocco. Dal quale uscirà nuovamente vincitore il centrodestra di Berlusconi. Non pensiamo che avrà invece molto successo il teatrino dei vecchi riti, dei vecchi comizi, e delle vecchie formule trasversali, che nessuno capisce. E che non servono all’Italia – ma diciamo a nessun Paese – in momenti come questo.

Una politica fine a se stessa era forse un lusso di altri tempi, quando potevamo mantenere un’infinità di partiti. L’ultimo a farne le spese è stato Romano Prodi, con la sua sterminata e rissosa coalizione, che non a caso si è suicidata. Noi non faremo mai questo errore. La politica delle cose concrete e del bipolarismo è ciò che serve al bene di tutti, e che l’Italia di oggi vuole.

ALCUNE RIFLESSIONI SUL SISTEMA ELETTORALE

I giochi li aveva aperti Bersani, subito seguito dalla stampa dei cosiddetti “poteri forti”: votare sì, ma solo dopo aver cambiato la legge elettorale. E subito il segretario del Pd si è messo al lavoro per gettare le basi di un eventuale governo tecnico che tenesse fuori Pdl e Lega, al solo scopo di modificare, e alterare, le regole del gioco per permettere anche a chi è minoranza nel Paese dal dopo guerra ad oggi di governare.

E’ vero che per due volte negli ultimi 14 anni la sinistra è andata al potere, ma è stata favorita proprio da una legge elettorale che ribaltava l’equilibrio politico del Paese: non a caso, in termini proporzionali ha sempre raccolto meno voti del centrodestra. Di fronte alla reazione degli esponenti del Pdl, che hanno ribattuto a Bersani proprio quest’ovvietà (volete cambiare la legge per vincere non avendo i numeri e per mettere all’opposizione permanente chi invece i numeri ce li ha da sempre), oggi, sul Corriere della Sera e su Repubblica, sono intervenuti esponenti storici della Prima Repubblica (Rino Formica ed Emanuele Macaluso, in un pezzo a doppia firma nella pagina delle lettere del quotidiano di via Solferino) e costituzionalisti (quale il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky), per dire quanto sia brutta l’attuale legge elettorale.

Il punto è: ogni legge è perfettibile, ma è paradossale che si attacchi a testa bassa proprio quella che riflette alla perfezione gli equilibri politici del Paese. Si tratta di un proporzionale puro – con sbarramento (al 4% se non sei in coalizione, al 2% se sei in coalizione) e premio di maggioranza – che garantisce rappresentatività e governabilità, impedisce l’eccessiva frammentazione parlamentare, non altera il voto della maggioranza degli italiani. E allora? Allora vuol dire che chi tanto disperatamente vuole intervenire normativamente ha uno scopo che certo non è quello di migliorare la legge.

Si vuole cacciare Berlusconi e poiché, numeri alla mano, non possono sottrargli elettori si cerca di far pesare in modo diverso i voti, cosicché chi è maggioranza si trovi improvvisamente all’opposizione. E’ questo il piano in atto, il progetto di Bersani e compagni, ma non solo: un governo tecnico solo per il tempo necessario a portare a termine il progetto di 3 lustri: eliminare Berlusconi dalla scena politica. E poiché non ci sono riusciti per via giudiziaria, provano a farlo per via normativa.

Ecco perché la legge elettorale è così presente nel dibattito politico, come se i cittadini si cibassero di porcellum o mattarellum, e non vedessero l’ora di vedere la loro busta paga incrementata dal vademecum del perfetto elettore. Ecco perché nessuno si preoccupa di economia e degli italiani. Perché sono già partite le grandi manovre, in vista di un possibile ritorno alle urne, per sottrarre proprio al popolo ciò che l’articolo 1 della Costituzione dispone in maniera che più chiara non si può, il nostro diritto di scegliere chi governa.

Il Pd, molto semplicemente, trovando proseliti a sinistra ma non solo, cerca la solita scorciatoia: invece di riorganizzarsi, di cercare i voti, di entusiasmare gli elettori, di regalare un sogno agli italiani, di dare una svolta riformista, sta studiando il mezzo per sottrarre questi valori e pregi a chi li ha da sempre: Silvio Berlusconi.

BUONE DOMANDE, PESSIME RISPOSTE, di Mario Sechi

Pubblicato il 8 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

Il caso Fini non è chiuso e, sinceramente, non mi aspettavo che la vicenda politica svoltasse con un’intervista televisiva. Enrico Mentana ha svolto fino in fondo il suo lavoro (complimenti), ha posto le domande giuste e Fini ha seguito un copione già scritto in altra sede, senza mai uscire dal binario che sta percorrendo da settimane: 1. non rispondere con chiarezza al quesito del come mai il cognato Giancarlo Tulliani aveva in affitto una casa a Montecarlo ereditata da An e venduta a una società off-shore; 2. ribadire che il Pdl non c’è più, che è stato cacciato dal partito, che il suo nuovo partito non esiste, ma il gruppo parlamentare di Futuro e Libertà è pronto alle elezioni.

Buone domande, pessime risposte. Una sola cosa è chiara: vuole cucinare Berlusconi a fuoco lento e poi mangiarlo. Fini gioca una partita a scacchi pericolosissima per le istituzioni. È il capo di una fazione che si prepara a scatenare la guerriglia parlamentare nel Parlamento guidato da Fini. Questa situazione è destinata naturalmente a produrre un cortocircuito. Sarebbe da evitare, per il bene di tutti, ma né il Pdl né Fini molleranno il colpo. Il leader di Fli ha detto in diretta che è sua intenzione restare sullo scranno più alto di Montecitorio, ma mascherare dietro il formalismo giuridico della Costituzione e del regolamento della Camera, una situazione politica molto grave, non aiuterà nessuno a risolvere un problema che non è neppure nella disponibilità del Capo dello Stato. Con Giorgio Napolitano Silvio Berlusconi e Umberto Bossi hanno il diritto e il dovere di parlare della situazione di stallo che si sta creando. Ma la soluzione arriverà dal gioco parlamentare. Gioco duro.

Fini continua la sua corsa verso un territorio sconosciuto. Credo che neanche lui abbia le idee chiarissime, ma quando si tratta di giocare con le armi della tattica è un politico abile. Fini viaggia verso una terra di mezzo nella quale prima o poi si troverà con due scenari possibili: dover accettare la prospettiva delle elezioni anticipate e rischiare il tutto per tutto; oppure stare alla finestra, costringere il governo a trattative estenuanti – concedendo e ostacolando qua e là – in attesa di una crisi pilotata che porti al varo di un governo d’emergenza pronto a riscrivere la legge elettorale e consentire la sopravvivenza del cespuglio nascente di Futuro e Libertà. Non ci sono altre strade possibili. Non esistono condizioni praticabili per far andare avanti la legislatura con un partner così desideroso di consumare una vendetta anche personale su Berlusconi.

Il fattore emotivo in questa storia ha un peso enorme e influenza le scelte dei leader in maniera decisiva: tra i due contendenti, quello che oggi appare più determinato «a dare una lezione» all’avversario è Fini. Anche ieri in diretta ne abbiamo avuto un saggio: sarcasmo totale, viso tirato, quando Mentana ha correttamente toccato il tema della casa a Montecarlo il presidente della Camera è diventato guardingo, diffidente, l’espressione è mutata e il sorriso è diventato una forzatura. Tutto umano, troppo umano per non avere conseguenze sulla lucidità delle scelte politiche. Sul caso Montecarlo/Tulliani un leader di partito (che ci sia o meno, Fini si comporta come tale) dovrebbe dare spiegazioni puntuali. Anche ieri, quando Mentana gli ha chiesto come mai il cognato avesse un contratto d’affitto in una casa che fu di An, Fini ha svicolato, una saponetta. Non si può liquidare una faccenda del genere con uno sbrigativo «fa ridere». Se facesse ridere, Fini non avrebbe avuto bisogno di fissare dei paletti con il suo avvocato prima di parlare e soprattutto arricchirebbe la sua nota in otto punti di qualche settimana fa con qualcosa di più concreto. Su questa vicenda aleggia una nebulosa gigantesca e le domande che tutti i giornali – sottolineo tutti – hanno posto restano inevase. Fini dà ordine al senatore Francesco Pontone di vendere la casa di Montecarlo a una società off-shore (chi c’è dietro il trust?) e il cognatino in Ferrari ci casca dentro per un caso della storia. Chi ci crede, scriva subito a Babbo Natale per ricevere un regalo simile e far parte del club dei miracolati del Principato. Il tema non è giudiziario, ma politico: gli amici o i parenti che ottengono vantaggi (o la casa a Montecarlo è una scomodità?) attraverso la politica possono e debbono essere sottoposti al giudizio della stampa e della pubblica opinione.

Fini ha tutto il diritto di dar vita a una sua creatura politica, può rompere l’alleanza e motivare le sue scelte di fronte agli elettori, può perfino contestare in maniera surreale i diciasette anni di collaborazione (e voti di qualsiasi legge) con Berlusconi, ma nel presentare la sua nuova avventura sta commettendo un peccato di superbia che da un politico della sua esperienza e levatura non mi sarei mai aspettato: s’è messo sul piedistallo, nella posizione di un intoccabile, un politico che non tollera le critiche della stampa, non riconosce nessuno dei suoi errori, non fa un’autocritica seria e puntuale sulla sua partecipazione ambigua e poco convinta alla fondazione del Pdl, non ricorda come fu gestito da lui in persona un partito come An, non spiega agli elettori perché la destra del «Dio, Patria e Famiglia» ora per lui non ha alcuna importanza ed è persino un evidente fastidio. La sua traiettoria non è quella di un alleato che vuol concorrere all’azione di governo, ma quella di un asteroide in piena rotta di collisione con il Pdl, il pianeta più grande. E può distruggerlo. (O rimanere distrutto….).

E FIORELLO CANTA “LA CASETTA DI GIANFRA’”

Pubblicato il 8 settembre, 2010 in Gossip | No Comments »

di Paolo Giordano

Fini,  ieri sera,  da Mentana al TG della  7,  ha continuato a nicchiare sulla verità della caSa di Montecarlo ed ha annaspato sulle spiegazioni riuscendo sinanche a contraddire la sua “verità ” da egli stesso narrata nei suoi “otto” punti, probabilmente vergati dalla sua personale  dottoressa Stranamore che risponde al nome di Giulia Bongiorno. Sarà anche per questo che mEntre  i comici “impegnati” si autocensurano, Fiorello non resiste a uno sfottò sull’inchiesta dell’estate: la casa di Montecarlo. Ecco il commento sulla filastrocca di Fiorello andata in onda ieri sera.

No, no la notizia non è che Fiorello ieri si sia inventato una canzoncina sarcastica su Fini e la sua casetta a Montecarlo. La notizia è che, nel clamoroso silenzio dell’interessato, di questa gabola immobiliare si è occupato persino il migliore dei mattatori, l’unico che la politica no, signora mia, quella non fa per me. E invece. Ieri a Gran Varietà su RaiRadiouno (complimenti al palinsesto) parlando al telefono con il conduttore Gianluca Guidi, figlio di Lauretta Masiero e Johnny Dorelli, Fiorello ha canticchiato papale papale: «Avevo una casetta a Montecarlo, che vuoi fà/ Me l’hanno regalata solo come eredità/ e Vittorio Feltri che passava poi di là/ Diceva “che culo che c’ha avuto sto Gianfrà”…». E giù risate, mentre sullo sfondo scivolava il pianoforte del maestro Cremonesi.

Finora è sempre stato che Fiorello ululì e la politica ululà, per dirla alla Marty Feldman in Frankenstein Junior, una da una parte e l’altro dall’altra, come oltretutto dovrebbero sempre fare i veri comici (e una volta facevano tutti, da Totò a Bramieri). Stavolta no. In fondo i Tullianos, con tutti i loro magheggi transnazionali, sono stati il vero tormentone dell’estate, roba da commedia all’italiana trasmessa però ovunque, sulle spiagge o in coda al casello, una vacanzavisione che è durata oltre un mese in Hd, share altissimo per giunta. Roba che la satira, perdiana, ci dovrebbe saltar su come Gentile su Maradona al Mundial, a piedi uniti e vada come vada. Ma figurarsi: siamo in Italia, la satira, si sa, ha una porta sola, Berlusconi, e quindi sul «Finigate» tutti zitti zitti.

Invece stavolta Fiorello ha fatto il Pasquino, ha detto una pasquinata nuda e cruda, è diventato come la smozzicata statua dietro Piazza Navona, famosa perché i romani ci appendevano i loro versetti contro il potere di lorsignori, arrogante e silenzioso. Scrivevano le cose che tutti si chiedevano e nessuno aveva il coraggio di rispondere, per carità, meglio stare zitti, altrimenti sai che guai. Allora come oggi, nessuno rispondeva.

E difatti nessuno risponderà neanche ai frizzi e lazzi che ieri Fiorello ha srotolato su Fini e compagnia bella in diretta radio, diluendo i versetti finiani in uno sgocciolìo di battute perché lui è uno così, mica si ferma: «Ho letto che Gaucci ha fatto 6 al Superenalotto, la fortuna oltre che cieca è pure stronza». Oppure: «Io ci scherzo con Fini perché due palle la casa a Montecarlo, ti passa il Gran Premio da sotto. Poi vado a fare la spesa e ti passa Massa davanti». Tutte mitragliate come se niente fosse, il solito Fiorello, credibile perché mica è Crozza o Vergassola che ballano sempre lì, sul mattone di Silvio qui e Silvio là, praticamente fotocopiati e fotocopianti da quindici anni. Essendo uno showman con specializzazione in risate (vere), si tuffa dove c’è ciccia e dove sa di incontrare l’attesa del pubblico.

E fin qui, direte, è il suo mestiere. Però, più della canzoncina in sé, conta che anche lui, il più apartitico di tutti, abbia sentito il bisogno (dai, anche il sottile piacere) di scherzare sulla tragicomica telenovela di un presidente della Camera che, dopo aver accatastato pile e pile di discorsi sulla legalità sacrosanta, ancora oggi non abbia spiegato il perché dell’alloggio dove «ti passa il Gran Premio sotto». Già. E poi forse, se proprio bisogna criticare pure Fiorello, non è per forza vero, come si è lasciato sfuggire ieri, che «il politico oggi se ha qualche scheletrino nell’armadio, viene fuori solo quando serve». In realtà qualche volta basta una semplice inchiesta giornalistica. Solo quella.

P.S. Chissà ora che faranno i finiani di ferro e burro che hanno già chiesto la testa di Feltri, Belpietro e Sallusti…chiederanno anche la testa del comico Fiorello in nome del nuovo Ayatollah Fini?

LA STAMPA LIBERA NON E’ INFAME, MAI

Pubblicato il 7 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

di Mario Sechi, direttore de Il Tempo
Fini a Mirabello ha usato un’iperbole tragicamente infelice che mostra in tutto il suo distacco dalla realtà e lo scarso senso dell’istituzione che rappresenta. Quella parola, “infami”, è un sasso che rotea furiosamente in aria in cerca di un bersaglio da far cadere.
Gianfranco Fini “… il presidente della Camera ha un’unica strada per sfuggire a questa guerra mortale, una strada che coincide coi suoi doveri verso la pubblica opinione. È la strada della chiarezza e della trasparenza. Dopo avere detto la sua verità sull’affare Montecarlo, deve pretendere la verità da Giancarlo Tulliani, intermediario e beneficiario della vendita. Fini chieda a Tulliani di rivelare i nomi e i cognomi degli acquirenti e le condizioni dell’affitto. Questo per rispondere al sospetto, ogni giorno più pesante, che Tulliani abbia intermediato per se stesso, dietro il paravento offshore. Solo così si potrà accertare definitivamente che la “famiglia” venditrice non è anche la “famiglia” acquirente».

La Repubblica, 11 agosto 2010.
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Come si è verificata l’«inspiegabile coincidenza» (il copyright è sempre di Francesco Pontone, uno degli amministratori dei beni di Alleanza nazionale) dell’appartamento di Boulevard Princesse Charlotte abitato, alla fine della girandola delle società offshore, dal fratello della compagna dell’onorevole Fini, Giancarlo Tulliani?
Corriere della Sera, 8 agosto 2010.

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«Infami». Gianfranco Fini ha liquidato le notizie pubblicate da tutta la stampa italiana sul caso Montecarlo con una serie di roboanti dichiarazioni, una delle quali è infelice: «C’è stato il tentativo di dar vita ad un’autentica lapidazione di tipo islamico contro la mia famiglia». Mentre Fini era sul palco di Mirabello e la sua signora Elisabetta Tulliani stava in prima fila ad ascoltarlo, in Iran una donna, Sakineh, veniva colpita con 99 frustate e rischia la lapidazione.

Fini ha usato un’iperbole tragicamente infelice che mostra in tutto il suo distacco dalla realtà e lo scarso senso dell’istituzione che rappresenta. Quella parola, «infami», è un sasso che rotea furiosamente in aria in cerca di un bersaglio da far cadere. Lo afferro al volo. Non lo rilancio, lo poso per terra e cerco di spiegare a Fini, ammesso che voglia comprendere, che cosa è la libera stampa in Occidente.

I quotidiani ancora oggi contribuiscono in maniera decisiva a fare e disfare l’agenda del Paese. Non c’è niente di male in tutto questo, perché questa tessitura continua è frutto della loro libertà di pubblicare quelle che si chiamano «notizie». A differenza dei telegiornali e della tv in generale, la carta stampata costituisce ancora oggi la guida per il pubblico più informato, colto, attento alle evoluzioni della nostra società. Questo accade in tutte le democrazie e assicura, piaccia o meno, l’emergere dei contrapposti interessi che cercano spazio nell’arena del dibattito pubblico. Non c’è leader politico che non sia sottoposto a uno scrutinio severo delle sue azioni. Ogni sua parola viene analizzata, interpretata, enfatizzata o ridimensionata a seconda dei punti di vista della stampa, della forza della notizia, del contesto in cui tutto questo accade. Fini, che dice di sentirsi una persona libera e democratica, di tutto questo dovrebbe alla fine esser contento. Ma come spesso accade ai potenti, ne è felice solo e soltanto quando questa libertà della stampa viene esercitata sugli altri, non su di lui e chi gli sta accanto.

Barack Obama, presidente degli Stati Uniti, non muove passo senza che la stampa lo sottoponga al suo giudizio. Non solo i suoi atti presidenziali, ma la sua vita familiare è oggetto di discussione, plauso, contestazione da parte dei media e dell’opinione pubblica. Il nuovo arredamento dello Studio Ovale alla Casa Bianca, tanto per citare l’ultimo caso, è finito nel mirino di Washington Post e New York Times (i giornali blasonati dell’informazione a stelle e strisce) perché in tempi di crisi il Presidente non deve spendere soldi in mobili nuovi e, per soprammercato, comprare un tappeto con una citazione sbagliata di Martin Luther King. Le vacanze della First Lady, Michelle, in Spagna sono state un continuo investigare dei giornali sul costo sostenuto, sullo stile più o meno «presidenziale» e via discorrendo. La stampa assolve questo compito da qualche secolo. E bene o male, funziona. In America tutto nasce nel lontano 5 agosto 1735, quando l’editore del New York Weeekly, John Peter Zenger, viene chiamato in tribunale dal governatore coloniale di New York Cosby, oggetto di una serie di articoli satirici. Cosby vuole sapere il nome di chi scriveva gli articoli contro di lui. Zenger finisce in gattabuia ma non spiffera un fico secco ai magistrati. Dopo otto mesi di prigione, Zenger viene processato e il suo avvocato Andrew Hamilton strappa un verdetto storico alla giuria: pubblicare la «verità» non è un atto di sedizione. Per questo la libertà di stampa in America è tutelata dal primo emendamento. Cosa avrebbero scritto i quotidiani americani se Obama fosse stato pizzicato con un cognato in affitto in una casa ereditata dal Partito Democratico e poi rivenduta a una società off-shore nelle Piccole Antille? E se il cognato di Obama viaggiasse su una Ferrari 458 Italia mentre gli americani tirano la cinghia cosa avrebbero scritto gli editorialisti yankee? Altro che «infamie», saremmo stati testimoni di una campagna di stampa planetaria. E come si sarebbe comportato Obama? Un presidente negli Stati Uniti ha due strade possibili: 1. convoca una conferenza stampa e chiarisce tutto; 2. convoca una conferenza stampa e si dimette. Due scenari con un unico punto fermo: è alla stampa e per suo tramite agli elettori che i leader politici rispondono in prima battuta.

E veniamo alla «famiglia» evocata con gran batticuore da Fini. Ho grande rispetto per Elisabetta Tulliani che a mio avviso in questa vicenda è la persona che ha mostrato più carattere e coraggio. Ma non si può invocare la privacy quando si decide di scendere sul palcoscenico. È la stessa Elisabetta ad aver più volte deciso di apparire nella scena mediatica, è lei di fatto ad aver pronunciato il «go public» che ti fa passare dall’anonimato alla fama. Era o non era la signora Tulliani in prima fila ad ascoltare il discorso del suo uomo a Mirabello? Ci sono donne che hanno la ventura di stare al fianco di un uomo politico ma decidono di restare nell’ombra. È un altro tipo di scelta, simmetricamente opposta a quella di Elisabetta. È stata o non è stata la famiglia Tulliani a chiedere un servizio fotografico posato per il settimanale Oggi? Era un caso? O volevano farsi celebrare su un giornale letto dalla borghesia italiana? Volersi mostrare e dimostrare il proprio prestigio, significa svelarsi, concedersi e nello stesso tempo correre il rischio di essere svelato. È un gioco che porta fama e dà piacere al narciso che c’è in ognuno di noi, ma se decidi di esporti sotto il riflettore della luce pubblica, se sei un politico che amministra il Paese, se sei la donna che lo accompagna nella sua avventura, poi devi sapere che rischi di essere illuminato anche quando non lo hai deciso tu. Nel bene e nel male.

…..Sin qui Sechi. Noi avevamo già sottolineato, di nostro, l’infelice richiamo di Fini alla  presunta “lapidazione” della sua famiglia proprio quando in Iran una donna rischia davvero di essere lapidata; l’editoriale di Mario Sechi stigmatizza la totale assenza in Fini del senso della misura e della scarsa conoscenza della materia su cui da tempo ama discettare: l’etica e la democrazia. In democrazia la stampa  non è infame, mai, come dimostra Sechi con i riferimenti alle recenti campagne della stampa americana nei confronti di Obama, che è Obama!, e della sua famiglia. Quanto all’etica, se lo ficchi nella testa Fini, non è quella che fa comodo,  ma è quella cui deve sempre ispirarsi l’azione dell’uomo pubblico. Non ci sembra che proprio che Fini possa dare lezioni a chicchessia: prima spieghi gli affari suoi, della sua famiglia e del cognato e poi, eventualmente, concioni pure sull’etica. Dubitiamo, però, che dopo aver detto la verità su Montecarlo e dintorni, Fini possa ancora occuparsi di etica. g.

FINI A MIRABELLO: ECCO COME AFFONDA UN SEDICENTE CAPO

Pubblicato il 7 settembre, 2010 in Politica | No Comments »


di Marcello Veneziani

Dopo sedici anni di immersione subacquea negli abissi del berlusconismo, Fini riemerge a pelo d’acqua e dice: preferisco la montagna. O Gianfranco, non te ne sei accorto prima che non ti piaceva nulla di Berlusconi e del suo piglio da monarca, che detesti tutto della maggioranza in cui sei stato eletto presidente della Camera, dal partito-azienda al presidenzialismo, dalla legge elettorale alla tua legge sull’immigrazione, dal pacchetto giustizia alla scuola e al fisco? E, dopo aver coabitato per sedici anni ventimila leghe sotto i mari, scopri ora che la Lega tira troppo per il Nord e poco per l’Italia? Ma va, non te n’eri mai accorto che Bossi non era propriamente un patriota risorgimentale, un romanesco verace e un sudista convinto? E con che stomaco citi ora la destra che hai demolito in tutte le sue versioni?
Come prevedevo facilmente alla vigilia del discorso di Mirabello, Fini ha rotto gli indugi e ha detto con fermezza che vuol tenere il piede in due staffe. Fate schifo, amici, alleati e camerati di una vita – ha detto -, il partito non esiste, ma io resto con voi. Esempio mirabile di finambolismo, variante sleale del funambolismo. Soffermiamoci su quattro passaggi chiave.
1) Il pdl non esiste. Lo penso anch’io, che da tempo traduco Pdl in Partito del Leader, aggiungendo però che Pd è Partito del e non si sa di cosa. Il partito non esiste, però esiste un leader, esiste un governo ed esiste un grande popolo di centrodestra. Non esiste una leadership del partito che faccia da pendant al premier, è vero, ma questa carenza riguarda chi avrebbe dovuto occupare quello spazio: a cominciare dal cofondatore, Fini, che è sparito per anni e ora si riaffaccia alla politica. Non s’è visto nel Pdl l’accenno di un contenuto, di una linea, di una strategia culturale e politica che andasse al di là di Berlusconi. Ma se il Pdl è niente, come dice Fini, immaginate cosa sarà una particella ribelle del niente, denominata Fli? Se il Pdl non esiste, ci può essere la scissione dal nulla?
2) Il governo sotto schiaffo. L’Italia sognava da una vita un governo di legislatura in grado di governare e decidere. E questa volta ce l’aveva. Ma Fini ci offre di tornare alla concertazione, al ricattuccio permanente, alla mediazione di partiti e partitini. E dire che la destra aveva costruito la sua fortuna sul presidenzialismo e sul capo del governo decisionista. Ora Fini diventa il megafono della vecchia Italia che vuole governi deboli, poteri forti e convergenze larghe. Perciò piace ad avversari, procure, circoli di stampa e gruppi di affari. Il governo indebolito, sotto schiaffo, è una manna per loro.
3) Fini sogna una legge elettorale che sancisca la fine del bipolarismo. Se Fini fosse davvero il leader del futuro direbbe: la legge che abbiamo voluto, me compreso, offende la sovranità popolare, ridiamo agli italiani la possibilità di decidere gli eletti con preferenze o uninominale. Ma aggiungendo: però salviamo la governabilità e il rafforzamento dell’esecutivo, col premio di maggioranza e poi magari con l’elezione diretta del premier o del capo dello Stato. Invece no, Fini chiede di poter sfasciare il bipolarismo e restituire il Paese agli aghi della bilancia, ai terzisti e ai giochini di palazzo.
4) Infine, la destra. A Mirabello è davvero rinata An, come dice Maroni, è sorta un’altra destra, come scrive La Repubblica che si commuove perfino a sentir citare Almirante da Fini (che lo ha tradito trentatré volte)? No, la furbata di portarsi il santino nipotino di Tatarella e il santone fascistone di Tremaglia, di arruffianarsi la vecchia base con un paio di citazioni del vecchio repertorio missino, non sono la destra. E tanto meno sono la destra moderna, nuova e futurista di cui si eccitano i finiani. E poi «le radici della destra» non sono a Mirabello, come ha detto Fini. Sarebbe davvero poca roba una destra con quelle radici lì, così corte e contorte. No, le radici della destra sono in luoghi, storie, opere, pensieri, tradizioni che non si possono ridurre alla piccola storia del finianesimo, nel suo viaggio tra le rovine, dal Msi ad An, dal grande nulla del Pdl al piccolo nulla del Fli. La destra è un popolo e non una setta, è una cultura e non una citazione rubata, è un disegno civile e politico e non una carriera personale, è una comunità e non una musica da Camera, un progetto di riforma dello Stato e non una riforma elettorale per sfasciare un governo e scroccare un partito. E chi è di destra nutre amor patrio, cioè amore dei padri, mica dei cognati. Trovo ridicolo il titolo del Corsera: «A Mirabello Gianfranco batte Almirante» notando che la folla di domenica era maggiore di quella dei tempi di Almirante. Ma per forza, quella missina era la festa innocua di un piccolo partito ai margini della politica, questo è un evento mediatico e politico che ha riflessi sul governo e sul Paese. Anche Bruto, se avesse fatto una conferenza stampa dopo aver pugnalato Cesare, avrebbe avuto il pienone.
A proposito di titoli, ne ho trovato sul medesimo giornale un altro, favoloso e stucchevole: «Elisabetta e quel bacio dal palco: sono qui per lui»; ma per chi volete che fosse la Tulliani a Mirabello, per Donato La Morte, per i tortelli di zucca? Questo per dire che era stata una facile profezia la ola in favore di Fini dei grandi giornali: saranno anche loro asserviti a qualcuno come i tg e i giornali berlusconiani deprecati dal medesimo Fini? Ma no, ma che dite…
Dopo Mirabello il bilancio dell’operazione finiana è il seguente: un governo e un partito azzoppati, elezioni alle porte, una destra decapitata e spaccata che piace così ridotta solo agli avversari. Complimenti. Un vero leader.

FINI, OVVERO IL DUCE DI MIRABELLO

Pubblicato il 6 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Ciascuno ha il destino che si merita. Evidentemente a Fini è toccato quello di finire a fare il duce di Mirabello, piccolo borgo in provincia di Ferrara, città  che ha dato i natali oltre che a Italo Blabo anche a Vittorio Sgarbi. E’ a Mirabello che  l’ex fascista investito da Almirante del compito di traghettare il neofascismo italiano  nel nuovo millennio, che è passato disinvoltamente  dal definire  Mussolini quale “maggior statista del novecento” ad accusare  il fascismo  di essere “il male assoluto”, che altrettanto disinvoltamente è passato dalla assicurazione che mai avrebbe mandato un  proprio figlio a scuola da un maestro gay a sostenere  la ufficializzazione del rapporto  delle coppie omosessuali, che dopo aver firmato la legge Bossi-Fini  contro la immigrazione clandestina auspica l’ingresso in massa degli immigrati ai quali  propone di concedere subito  la cittadinanza italiana, è a Mirabello che Fini, gonfiando il torace alla stregua del pur ricusato Benito, ha fatto l’ennesima capriola della sua vita, anzi ne ha fatte parecchie. Due soprattutto, una umana e l’altra politica. L’umana riguarda Silvio Berlusconi. Dopo sedici anni  si è accorto che Berlusconi è il “nuovo male assoluto”, illiberale e stalinista, che lo ha cacciato dal partito che lui, Fini, ha contribuito a creare, cioè il PDL, sorvolando, disinvoltamente, non è manco il caso di sottolinearlo, sul fatto che è lui ad esseri messo fuori con i suoi lamentosi attacchi al governo nell’ultimo anno. E nei  confronti di Berlusconi  si è  lanciato in una aggressione rancorosa e acida che nulla ha di politico e molto di velenosa gelosia per l’uomo che lui non saprà mai essere, essendo sempre stato lui, Fini, l’uomo che ha vissuto solo e soltanto di politica e di compromessi. La capriola politica è conseguente a quella umana. Per distinguersi da Berlusconi,  con inavvertita dabbenaggine,  si sposta sull’altro versante della politica, a sinistra,  e come i suoi “caporali” (avendo  i colonnelli da tempo, giustamente!,  preso le distanze da lui) si avventura con il linguaggio  tipico della sinistra ad aggredire la Destra di cui egli si dice però il vero ed unico depositario. Anzi, ripete ancora il ritornello della “destra nuova, europea, diversa” senza ancora una volta declinare i principi e i valori cui questa sua nuova destra dovrebbe ispirarsi. Insomma, il duce di Mirabello affoga nell’ovvio e nella rabbia. Forse anche per il flop del pur tanto propagandato appuntamento di Mirabello che ha  fatto registrare una affluenza di appena un quinto di quanto annunciato dal “caporale” Bocchino  (si chiedeva un lettore come si chiamino i seguaci di Bocchino….), circa duemila persone (rispetto alle diecimila attese, con i parcheggi e i maxi

la "compagna" di Fini

schermi desolatamente rimasti inutilizzati),  pochine in verità, anche perchè  a nulla sono serviti gli espedienti circa le presunte  contestazioni usate per accendere curiosità e stimolare la partecipazione: nessuna contestazione perchè l’ovvio non vale la pena di contestarlo. Anzi, una sola  v’è stata ed è venuta non da un “affarista” berlusconiano ma dal figlio di uno dei sette fratelli Govoni, uccisi dai partigiani alla fine della guerra, allontanato sgarbatamente dal servizio d’ordine perchè non disturbasse il dire di Fini. Che forse per questo, vistosi senza contestazioni, se ne è cercata una per conto suo. Così a proposito della campagna giornalistica di Feltri e Belpietro nei confronti degli affari della “sua” famiglia, i Tullianos, dalla casa di Montecarlo, su cui Fini ha tranquillamente sorvolato, ai contratti milionari in Rai per la suocera casalinga e il cognato gaudente,  su cui pure ha  taciuto in barba al codice etico che Fini vuole per gli altri meno che per se stesso,  l’ha definita una vera e propria “lapidazione”. Magari per farsi bello dinanzi alla sua compagna, la Elisabetta, ex di Gaucci,  rotondo anzichè no patron del Perugia,. Peccato però che ha ignorato vergognosamente che c’è chi  davvero rischia la lapidazione, Sakineh, la donna  iraniana  alla quale,  forse,  Fini, ex ministro degli esteri, doveva rivolgere il suio pensiero, prima di paragonare le miserabili vicende affaristiche della sua famiglia alla tragedia che rischia di  consumarsi in Iran. In ciò c’è tutta la miseria umana e politica di Fini, il duce di Mirabello. g.