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MIRABELLO, LA CRONACA DELLE COMICHE FINALI DELL’ON. FINI

Pubblicato il 6 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

di Stefano Filippi (Il Giornale)

Gianfranco Fini ha finito il Pdl. Un’esecuzione la cui eco è risuonata per un’ora e mezzo, tanto è durato il discorso di Mirabello. Il Pdl non c’è più, per il presidente della Camera esiste soltanto il «partito del predellino», cioè Forza Italia più «colonnelli e capitani di An che hanno scelto di cambiare generale». Futuro e libertà va avanti, tira dritto e non rientrerà in ciò che non c’è più, «è una legge della fisica». Le parole «nuovo partito» non sono state pronunciate, ma sono il filo rosso della parabola finiana avviata ieri, ormai è solo questione di tempo. Il nuovo ancora non c’è, ma il vecchio è sotto terra. Sulla casa di Montecarlo, nemmeno una parola.

Per la durata e la quantità degli argomenti, il comizio di fatto apre una lunghissima campagna elettorale. E si condensa nei toni contro Silvio Berlusconi e il Pdl. Toni astiosi, pesanti, carichi di veleno e rancore; parole che lanciano una sfida sfacciata. Il pokerista Fini scommette sul fatto che Pdl e Lega non forzeranno verso le elezioni anticipate. Berlusconi è un pragmatico, sibila Fini, e metterà da parte l’ostracismo. «È inutile che dica: facciano ciò che vogliono. Perché lo faremo». Così chiede un nuovo patto di legislatura a tre «nell’interesse di tutti» (principalmente suo!), e lo fa spietatamente, sfregiando a sangue Berlusconi, il governo, i ministri, il programma, il suo passato.

Il numero uno della Camera ricostruisce a modo suo gli ultimi mesi. Definisce «diritto di critica» le palate di fango da lui gettate sul Pdl dopo le elezioni del 2008, mentre l’ufficio politico del partito del 29 luglio scorso che lo ritiene «incompatibile» ha adottato un provvedimento «stalinista», un atto «illiberale e autoritario indegno del partito dell’amore». «Sono stato cacciato in una riunione di due ore alla quale ero assente – ha detto Fini – da un partito che non tollera discussioni interne».

L’elenco dei punti di dissenso è interminabile. Il federalismo fiscale, i cui costi non sono stati determinati. Il contrasto all’immigrazione clandestina «che deve comprendere anche l’integrazione». Il garantismo «che non può essere considerato impunità permanente». La considerazione della magistratura, «caposaldo della democrazia e presidio di ogni forma di legalità». L’idea di partito nazionale «non appiattito sulle posizioni di un alleato con base regionale». Il legame con i valori dell’Occidente, sbugiardati «dalla genuflessione indecorosa offerto nell’accogliere personaggi che non possono insegnarci nulla». Alla mitragliata su Gheddafi la platea scatta all’impiedi per una delle tante ovazioni.

Non è finita. «Le istituzioni hanno il dovere di rispettare le altre istituzioni, a partire dal capo dello Stato». «Il Parlamento non è una dependance di Palazzo Chigi». «Governare non significa comandare». «Non sono state fatte le grandi riforme che il Pdl aveva promesso». «Non è stato introdotto il merito». Fini non salva nulla di questi due anni e mezzo di governo, neppure il giorno dopo la mano tesa di Berlusconi sul processo breve. Anche gli unici timidi complimenti sulle misure anticrisi sono accompagnati da un «ma» che li stronca: paghiamo poco gli operai, non sosteniamo le famiglie, i giovani, i disoccupati. Ok al federalismo «ma nell’interesse di tutti». Ok allo scudo per il premier «ma niente leggi ad personam». Basta aggiungere la parola «fogna», e sarebbe un discorso confezionato su misura per Pierluigi Bersani. Fin qui la ricostruzione finiana. E per l’avvenire? Assodato che «il 29 luglio è stato compiuto un atto lesivo delle ragioni stesse del partito», «Futuro e libertà non rientrerà in ciò che non c’è più». Peccato non abbia chiarito se gli uomini di Fli che ricoprono incarichi nel Pdl si dimetteranno dall’inesistente o resteranno sulle poltrone, inscenando l’ennesima pantomima sul «chi ha cacciato chi». Si va avanti, ripete Fini una decina di volte, con disprezzo sempre crescente: «Non ci ritiriamo in convento né andiamo raminghi in attesa del perdono. I nostri parlamentari non possono essere trattati come clienti della Standa, che guadagnano il premio fedeltà frequentando il supermercato».

Ce n’è anche per il Giornale. Nessun chiarimento su Montecarlo, in compenso una scarica di insulti. Fini la prende da lontano, attaccando i Tg «che salvo rare eccezioni sono fotocopie dei fogli d’ordine del Pdl». Poi l’affondo. «Non ci faremo intimidire dal “metodo Boffo” messo in campo da alcuni giornali che dovrebbero essere il biglietto da visita del partito dell’amore. Hanno scatenato campagne paranoiche perché hanno superato la decenza, e patetiche in quanto non si rendono conto del disprezzo che suscitano. Attendiamo fiduciosi e sereni che sia la magistratura a chiarire chi e quanto ha diffamato, calunniato, insultato; chi è stato sottoposto a una lapidazione di tipo islamico con un atteggiamento infame perché rivolto alla mia famiglia».

Avanti, è la nuova parola d’ordine finiana che coincide con uno slogan socialista. Futuro e libertà è il vero Pdl perché chi ha tradito è stato Berlusconi. Nonostante tutto ciò, il sostegno al governo non mancherà. Fini farà in modo che l’esecutivo fellone e incapace duri fino al termine naturale della legislatura, «senza cambi di campo, ribaltoni o ribaltini: eliminiamo i sospetti che vogliamo portare altrove i nostri voti. Siamo e resteremo nel centrodestra per onorare il patto con gli elettori, nel rispetto del programma e senza farne uno nuovo». Fli voterà i cinque punti ma vuole discuterne i contenuti «con spirito costruttivo». E ne aggiunge altrettanti. Una diversa legge elettorale («Vergognose le liste prendere o lasciare»). Il ministro dello Sviluppo economico («Quale Paese se ne priva tanto a lungo?»). Il quoziente familiare «anche con l’opposizione: se hanno buone idee, e quelle di Casini lo sono, un governo deve accoglierle». E le buone idee del governo? Quelle no, per Fini proprio non ce ne sono.

LE INFAMIE (a Mirabello) DI FINI, di Antonio Sallusti (Il Giornale)

Pubblicato il 6 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Dice alcune cose e il loro contrario. E tace su molto, troppo per essere credibile. L’atteso discorso di Gianfranco Fini, pronunciato ieri a Mirabello, lascia le cose come stavano. Nel senso che adesso sono chiari e ufficiali i motivi della rottura. La politica non c’entra. Semplicemente Fini odia il Pdl («non c’è più, è morto», dice con soddisfazione), odia Silvio Berlusconi («si comporta come il capo della Standa»), odia Bossi («la Padania non esiste») odia il ministro Tremonti e suoi «tagli orizzontali», disprezza i suoi ex colonnelli che non l’hanno seguito, e ai quali non riconosce la libertà e il diritto al dissenso che invoca per se stesso. E odia i giornali «fogli d’ordine infami» che hanno sollevato la questione della casa di Montecarlo e degli appalti Rai ai suoi familiari.
Se il Pdl, nella testa di Berlusconi, doveva diventare il partito dell’amore, Futuro e Libertà nasce come partito dell’odio, figlio di una frustrazione personale nata il giorno dopo la fusione di An con Forza Italia. Troppo ampio era il divario tra le forze elettorali dei due partiti, troppa la differenza di carisma e capacità tra i due leader, per realizzare il sogno inconfessato di continuare a comandare e disporre come ai vecchi tempi. Fini non ha accettato di essere minoranza e ieri ha messo in scena una infame, questa sì, ricostruzione storica che non sta in piedi. A sentirlo, pareva che il Pdl fosse stata una sua idea anche se in realtà ai tempi l’aveva bollata come «comica finale» salvo ripensarci per opportunismo, che lui fosse il faro del liberismo italiano, dimenticando che ha smesso di fare il saluto fascista non molto tempo fa e su consiglio di Berlusconi. In sostanza ha detto che senza di lui quel fesso e illiberale del Cavaliere non sarebbe andato da nessuna parte.
È infame (usiamo l’aggettivo che lui ha usato nei nostri confronti), chi tradisce qualcuno (lui ha tradito il Pdl e i suoi elettori), è infame chi non dice la verità. E Fini ha avuto quantomeno molte amnesie. Ha paragonato i partiti di Berlusconi alla Standa, ma non ha detto che in quel grande magazzino lui e i suoi ci sono stati benissimo per diciassette anni, durante i quali non gli sembrava vero di essere usciti dalla bottega del Msi e di partecipare al grande shopping(…)
(…) di governo: deputati, ministri, stipendi, benefit, ricchi premi e cotillon tra i quali, per lui, la presidenza della Camera.
Ha detto che il Popolo della libertà non c’è più. Ma non ha annunciato la creazione di un nuovo, suo partito. È un po’ da infami rimanere con chi ti fa schifo per opportunismo contingente, per non avere il coraggio di andarsene e affrontare le elezioni. Dice che farà la terza gamba della maggioranza, ma a che titolo? Berlusconi è a capo del Pdl, Bossi della Lega. Per lui una corrente (Futuro e Libertà) è uguale a un partito, e giocherà con i suoi deputati e senatori a ricattare la maggioranza. Dice che si andrà avanti senza ribaltoni o cambi di campo, ma non c’è da credergli. Le dichiarazioni sue e dei suoi uomini, i fatti degli ultimi mesi dicono esattamente il contrario.
Del resto, che non ci sia da fidarsi, è dimostrato anche dal fatto che anche ieri ha taciuto sulla casa di Montecarlo. O meglio: ha liquidato l’inchiesta del Giornale come un’infamia, che la magistratura chiarirà tutto, non ha fatto cenno alla sua richiesta, da vero liberale, di licenziare i direttori dei quotidiani a lui sgraditi. Chi usa l’insulto è perché non ha argomenti, perché non può dire la verità. Ci voleva poco a spiegare dei soldi, dei paradisi fiscali, del cognato. Ma l’uomo non ha coraggio, e neppure il senso del ridicolo. Lo ha dimostrato pochi minuti dopo, quando rispolverando l’antica retorica ha detto che per i politici ci vorrebbe un codice etico perché la loro attività non deve rispondere solo ai codici penali. Evidentemente, nella sua testa, l’etica si ferma a Ventimiglia, quello che accade in Costa Azzurra sono solo affari suoi. E l’ultima infamia di Fini è non aver detto che, coerentemente con la sua analisi, domani mattina si dimetterà da presidente della Camera essendo diventato leader di uno schieramento politico ostile alla maggioranza che lo ha eletto in quella carica. Ha ragione Di Pietro che a caldo, poco minuti dopo la conclusione del discorso, ha commentato: Fini, non fare il furbo, che qua nessuno è fesso.

FINI A MIRABELLO: LE COSE IMPORTANTI SONO QUELLE NON DETTE

Pubblicato il 6 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Il discorso di Gianfranco Fini a Mirabello è politicamente importante, ma in realtà per un paio di cose non dette che invece andavano chiarite subito. Fini non è riuscito a mettere la parola «fine» sulle due partite che si sono aperte quest’estate: 1. la vicenda davvero imbarazzante dell’abitazione monegasca occupata da Giancarlo Tulliani, il cognato in affitto; 2. il rapporto ormai logoro con il Pdl, il suo leader Silvio Berlusconi e l’elettorato di centrodestra che l’ha votato. Quello di Fini è stato un intervento eccessivamente lungo, questo ha costretto il Presidente della Camera a recitare uno spartito in due tempi.

Il primo duro e polemico con il Pdl, abbastanza efficace per far emergere l’antiberlusconismo dei suoi ammiratori; il secondo in calando, senza forza, come un ciclista che scala la vetta ma poi arriva spompato al traguardo. Fini era preparato a colpire i suoi avversari interni con la sua nota abilità di oratore, ma è risultato insufficiente nella proposta e nella spiegazione della sua missione politica. Quando un leader prepara un discorso che deve essere il lancio di una svolta, non basta solo attaccare, deve anche avere un obiettivo concreto da dichiarare. E questo è mancato clamorosamente, tanto da lasciare con l’amaro in bocca persino l’opposizione che con Pier Luigi Bersani non ha nascosto la sua cocente delusione. Fini ha giocato con la tattica, tenendo in mente il suo bersaglio minimo: cercare di tenere in piedi la maggioranza, andare avanti e provare a organizzare qualcosa di più di una festa a Mirabello. Resta però la sensazione netta di una comunicazione monca, senza il colpo finale, priva di una sorpresa. Quella che un leader di partito è obbligato a dare in frangenti come questo. Per raggiungere questo scopo Fini avrebbe dovuto annunciare la nascita di un nuovo partito, ma non potendo fare ancora lo strappo, il suo discorso s’è chiuso come un urlo strozzato in gola. Fini ha delineato in lungo e in largo le ragioni di uno strappo insanabile, dell’incompatibilità con Silvio Berlusconi e il suo partito, è arrivato a dire che «il Pdl non c’è più» ma la logica conseguenza del suo discorso, quello che tutti si aspettavano a quel punto, cioè la nascita di una nuova formazione politica, sulle sue labbra non è mai affiorata.
É un punto debole enorme della comunicazione finiana e fa scopa con l’altro silenzio, ancor più imbarazzante. Fini non ha spiegato – e questo è il minimo che ci si attende da un leader politico della sua esperienza – perché Giancarlo Tulliani aveva un contratto d’affitto a Montecarlo in un appartamento che fu ereditato da Alleanza nazionale e poi fu venduto a due società con sede nel paradiso fiscale delle Piccole Antille. Ha liquidato la faccenda accusando i giornali di «infamia», ha detto di attendere sereno il giudizio della magistratura e così facendo ha cercato di liquidare come una questione di carta bollata e aula di tribunale un tema che invece è – e rimane – squisitamente politico. Il caso Montecarlo ieri non s’è chiuso, resta aperto per volontà dello stesso Fini che con il suo silenzio alimenta tutti i sospetti su Tulliani, la vendita dell’abitazione e la gestione dell’eredità della contessa Colleoni da parte di An. Poteva e doveva – così si fa in tutte le democrazie dove la stampa è libera, e in Italia lo è – dare spiegazioni esaurienti sul tema e chiudere la faccenda una volta per tutte. Non l’ha fatto e questo per me resta un mistero poco buffo. Nel dipingere le vicende del partito Fini, inoltre, ha svolto una narrazione che non corrisponde alla verità: Fini non è stato espulso dal partito, è stato oggetto di un documento duro nei suoi confronti, ma non di una cacciata. I suoi esponenti in direzione hanno votato contro quel documento e dunque, almeno dal punto di vista delle regole invocate dallo stesso Fini, la partita è regolare anche se giocata con colpi pesanti da entrambe le parti. Questo aspetto della cacciata emergerà con forza nei prossimi giorni. É chiarissimo infatti che sia Fini che Berlusconi cercano di imputare all’avversario «la colpa» del patatrac.
Come in ogni divorzio che si rispetti, la causa scatenante va attribuita all’altro. Questo perché stiamo entrando in uno scenario in cui le elezioni – presto o tardi – sono un’opzione che non si può escludere a priori, patto o non patto. Fini ha proposto a sua volta un accordo per andare avanti, ma nella sostanza il governo da oggi si trova nella difficile condizione di dover contrattare con un soggetto che non è (ancora) un partito ma si comporta come tale, il programma della seconda parte della legislatura. Il vero nocciolo del ragionamento finiano, al di là degli attacchi, delle polemiche, delle randellate, del sarcasmo, delle rasoiate a Giulio Tremonti (bersaglio continuo del discorso insieme alla Lega), ha fatto la sua comparsa quando Fini ha detto chiaramente che il patto in cinque punti proposto da Berlusconi è pronto a sottoscriverlo, ma bisogna andare al di là dei titoli di quel patto. Questo è l’annuncio di una stagione di conflittualità interna ben più aspra di quanto abbiamo visto finora. Fini ha invitato l’ex alleato a dialogare, ma tiene alzato il ponte levatoio del suo castello e si premura di far vedere a chi s’avvicina all’ingresso le fauci dei coccodrilli. Continui sono stati i tentativi di dividere Berlusconi dai berlusconiani, il Cavaliere dai falchi e in generale dalla sua corte, di volta in volta oggetto di battute di scherno che hanno messo in mostra tutta la rabbia accumulata da Fini. Troppa, tanta da indebolire la lucidità politica del discorso. A questo punto, dentro il centrodestra ci sono almeno tre mondi in rotta di collisione (il Pdl, la Lega e i finiani) e la scissione è un dato ormai ineludibile. É solo una questione di tempo. Non si è compiuta solo per impotenza dello stesso Fini che in questo momento non può permettersi il divorzio. Ora gli costerebbe un assegno d’alimenti che non può pagare, più in là probabilmente avrà abbastanza carburante per provare a rischiare. Sul tavolo di Berlusconi, con queste premesse, manca solo la data delle elezioni. Mario Sechi, Il Tempo

IN ITALIA CHI VINCE NON GOVERNA

Pubblicato il 5 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Pubblichiamo un estratto dell’ultimo libro di Davide Giacalone «Terza Repubblica», edito da Rubbettino. Il giornalista, che collabora con Rtl, «Il Tempo» e «Libero», descrive la situazione in cui si trova l’Italia. Secondo l’autore il Paese ha le risorse e la passione per riprendere la via dello sviluppo economico e della crescita civile ma deve chiudere la Prima Repubblica, superare la Seconda e aprirsi alla Terza Repubblica. Di seguito quasi integralmente il capitolo «Bipolarismo bislacco».
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi L’Italia in preda alle convulsioni del manipulitismo scoprì il bipolarismo. Un bipolarismo che da noi non ha storia e non ha tradizioni. Lo si scoprì non grazie a una vocazione, che non c’era, e neanche grazie ai referendum sulla legge elettorale o alla legge firmata da Sergio Mattarella (detta «mattarellum», da Giovanni Sartori), perché nulla di tutto questo avrebbe condotto in quella direzione. Lo si scoprì grazie, o, se si preferisce, a causa di Silvio Berlusconi. La sua «discesa in campo» non si limitò a occupare lo spazio lasciato vuoto dal collasso della Democrazia cristiana e del Partito socialista, da quelle forze che avevano dato vita al centrosinistra, ma portò con sé una rivoluzione logica nel fare politica, affermando che tutte le forze erano buone per opporsi a un governo che sarebbe nato attorno ad un nucleo composto dal vecchio Partito comunista e dalla corrente di sinistra della dc. Coalizzò tutto ciò che era contro quella prospettiva, e con questo vinse le elezioni del 1994. Quello è l’atto di nascita del bipolarismo. Attorno a quel gesto si è a lungo teorizzato, ed è anche nata una scuola di pensiero secondo cui il bipolarismo sarebbe stato la soluzione di tutti i mali. Finalmente l’Italia entrava nel novero delle democrazie compiute, dando agli elettori la possibilità di scegliere e creando le condizioni per far sì che chi vince governa e chi perde va all’opposizione. Le cose sono andate in modo assai diverso. La coalizione messa su da Berlusconi si sfasciò nel giro di pochi mesi, complici le pressioni esercitate dal Quirinale e, naturalmente, anche a causa delle obiettive distanze interne fra le diverse componenti. La Lega abbandonò i vincitori, D’Alema riconobbe nei seguaci di Bossi «una costola della sinistra», e nacque un governo per il quale nessuno aveva mai votato, il governo Dini. Come collaudo, non era un granché. Dopo fu la coalizione denominata Ulivo a vincere le elezioni, nel 1996, con Prodi in testa.
Ai vincitori non bastò certo un Quirinale meno ostile per potere mettere riparo alle divisioni interne, così che la maggioranza cambiò (grazie all’apporto di Francesco Cossiga) e la legislatura si condusse avvicendando quattro governi. Come può, tutto questo, chiamarsi bipolarismo? Difatti non lo è. Berlusconi non ne era solo l’inventore, ne era anche l’unico perno, l’interprete solitario. Se lui aveva coalizzato tutto quanto serviva a battere la sinistra, la sinistra rispose coalizzando tutto quanto fosse utile a battere lui. Nel giro di due anni, dal 1994 al 1996, insomma, la sinistra si era berlusconizzata, ne aveva mutuato il metodo pur di strappargli la vittoria elettorale. Procedendo con questo metodo si sono creati due poli incarnati in due coalizioni che servono solo a vincere le elezioni, ma poi rendono quasi impossibile governare. E, del resto, basterà porre mente a un dato per comprendere l’assurdità nella quale ci troviamo a vivere: dal 1948 al 1992 il governo non ha mai perso le elezioni, le maggioranze si sono allargate in Parlamento, si sono sperimentate formule nuove, ma le forze di governo hanno sempre raccolto la maggioranza assoluta dei consensi liberamente espressi dagli elettori; dal 1992 al 2008 il governo non ha mai vinto le elezioni. Va bene che l’alternanza è un valore, ma si deve essere assai ottusi per non rendersi conto che questa è una patologia. *** Da nessuna parte esiste il sistema perfetto (celebre il detto di Churchill, secondo il quale la democrazia è il peggiore sistema di governo esistente, se si escludono tutti gli altri), ma, di sicuro, il più strampalato è quel sistema che pretende di conciliare il bipolarismo con un assetto istituzionale concepito per il pluripartitismo. E siamo noi. Dunque succede che per vincere si coalizza tutto il coalizzabile, ma, poi, il governo dipende dalla propria coalizione e le diversità, anziché eliminarsi, si esaltano nel corso della legislatura.
A quel punto o il governo decide, governa, e in quel caso cade perché perde la sua maggioranza originaria, o la conserva, se la tiene buona, pagando il prezzo di non decidere e non governare, almeno sulle materie che possono creare dei problemi. Un capolavoro della dissennatezza. E non basta: per vincere si arruolano anche estremismi francamente inguardabili e improponibili, residuati storici, stravaganze campanilistiche, sopravvenienze d’altri continenti (se il parlamentare dell’Oceania fosse stato in un film di Totò se ne sarebbe potuto ridere), se si vince con uno scarto risicato di voti e di eletti tutto questo caravanserraglio diventa determinante, e non nel suo insieme, ma in ciascuna sua variopinta componente, il governo dipende da ciascuno di loro. Ecco perché non è affatto vero che chi vince governa. Al massimo si può dire che chi vince va al governo, ma non è la stessa cosa. Come ha fatto a reggere, allora, il bipolarismo? Ha retto perché viveva del conflitto elettorale, che in Italia si rinnova praticamente ogni anno, e perché c’è il suo inventore, il suo perno, che ancora lo alimenta. Berlusconi. Insomma, non vorrei essere irriverente, ma come definirebbe, ogni persona di buon senso, la coalizione di sinistra se non come il raggruppamento dove si trovano tutti quelli che sono contro Berlusconi? Toglieteglielo e nasceranno immediatamente diverse sinistre, sancendo il divorzio fra il massimalismo antagonista e il pragmatismo riformista, fra il ribellismo antioccidentale e il rispetto dei rapporti con Stati Uniti e Israele. Toglietelo alla destra e sarà sancito il divorzio fra chi vuol fare il federalismo in Europa e chi se lo vuol fare in casa, tra chi guarda alle libertà del mercato e chi guarda all’uso invadente della spesa pubblica. *** Lo sfruttamento politico delle vicende giudiziarie ha prodotto disastri, fra i quali due vale la pena sottolineare. Il primo riguarda il giudizio politico sui fatti e sulle persone. Non credo Giulio Andreotti, come altri governanti, siano immuni da responsabilità, anzi, credo ne abbiano di pesanti, nella gestione del potere fatta in Sicilia, e non credo che la vicinanza con certi ambienti imprenditoriali, che coinvolse anche i comunisti, costando la vita a Pio La Torre, possa meritare altro che un giudizio negativo. Ma se si punta tutto, come fece la sinistra giudiziaria guidata da Luciano Violante, sulla condanna penale di Andreotti, quando poi arriva l’assoluzione che si fa? Si riscrive la storia che si era prima riscritta (illecitamente) con le carte dell’accusa? È evidente a qualsiasi persona civile e ragionevole che una cosa sono le responsabilità politiche e altra cosa quelle penali.
Delle prime posso liberamente parlare, portando argomenti alla mia tesi, ma delle seconde possono parlare solo i tribunali. Se, invece, mi faccio forte delle seconde perché non ho argomenti politici, quando le accuse cadono resto come un citrullo, per giunta incivile. Il secondo disastro consiste nel fatto che se descrivo la parabola politica di Berlusconi puntando tutto sui suoi interessi, anzi, sui suoi affari, per giunta descrivendoli come criminali, mettendo in evidenza che solo per quelli egli si muove e ricordando i tanti procedimenti penali che confermano questa tesi, poi, come spiego i milioni di voti che prende? Tutti complici, tutti criminali come lui, o tutti ipnotizzati? E dato che la coalizione da lui guidata ha preso e continua a prendere la maggioranza relativa dei voti degli italiani, cribbio, la trappola logica della criminalizzazione conduce a ritenere criminale metà dell’Italia. Una totale follia. (da Terza Repubblica – Edizioni Rubettino- Davide Giacalone)

IL PIFFERAIO E LA DOPPIEZZA FINIANA, di Mario Sechi

Pubblicato il 5 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Gianfranco Fini e Francesco Rutelli «Non abbiamo niente da guadagnare da un modello di democrazia populista dove c’è un miliardario che suona il piffero e tutti i poveracci gli vanno dietro».
Pierluigi Bersani, segretario del Pd. Adnkronos, 13 dicembre 2009.

***

«E adesso, che succederà? I “coraggiosi” (o i “traditori”, a seconda dei punti di vista) rinunceranno alla loro scelta politica, culturale, ideale? Torneranno indietro, all’ovile? Si accomoderanno sulle loro poltrone con su scritto “riservato”? Difficile. Anzi, impossibile. No, nessuno seguirà il pifferaio di Arcore».
Filippo Rossi, direttore di Fare Futuro Web Magazine. Ansa, 4 settembre 2010.

***

Due notizie d’agenzia che hanno lo stesso comune denominatore: il pifferaio Berlusconi. Una metafora usata dall’esponente del principale partito della sinistra italiana e da quello che si ritiene debba essere uno degli intellettuali di riferimento della nuova destra che si ispira a Gianfranco Fini. Opposti che si toccano. È un caso? No, non lo è. Siamo di fronte a una spia rossa accesa che segnala un grosso problema nel motore della politica italiana. A questo punto è meglio far entrare l’auto in officina e dare un’occhiata al motore per capire cosa non va. Lo facciamo dopo aver sentito Fini ieri alla festa dell’Api di Francesco Rutelli e in attesa del suo intervento oggi a Mirabello. Fini userà anche oggi un tono diverso, ne sono sicuro, ma i finiani utilizzano lo stesso linguaggio del Pd e questo a gran parte dei commentatori della politica appare come un fatto normale.

E invece non siamo dentro una semplice questione semantica, sotto le parole c’è un retroterra politico completamente sconvolto. La crisi d’identità del Pd e della sinistra in generale è in corso dal 1989, anno del crollo del Muro di Berlino. I postcomunisti non si sono mai scossi quelle macerie di dosso. La loro seduta di autocoscienza da allora è permanente ed è passata attraverso varie «cose» e sigle fino a snocciolare nel corso della nostra storia contemporanea un rosario di sigle (Pci-Pds-Ds-Pd) e aggregazioni politiche (Ulivo, Unione, Nuovo Ulivo) che nascondevano l’incapacità di formare un soggetto unico della sinistra, un vero partito socialdemocratico. Non vi è stata mutazione genetica, solo un camaleontico cambio di pelle, un continuo rigenerarsi dell’abito dentro un corpo sempre più stanco e privo di idee nuove. Quel che sta accadendo nell’area politica finiana invece è qualcosa che somiglia a una metamorfosi provocata dalle radiazioni dell’antiberlusconismo. Una mutazione genetica che avvicina sempre più i finiani a un surreale progressismo da terza via. Questo gruppo più o meno vasto di persone dedite alla politica, infatti, non ha solo cambiato sigla, ma sta tentando con un’operazione culturale spericolata di mutare i punti di riferimento culturali della destra classica. Il risultato è un guazzabuglio ideologico, la costruzione di un Pantheon di icone a dir poco imbarazzante per chiunque abbia un po’ di confidenza con la filosofia, la letteratura, il cinema, l’arte, la televisione, la cultura tout court, cioè con tutto quel materiale che poi diventa patrimonio di un partito politico e si traduce in azione di governo e/o opposizione. I finiani offrono a un elettore che fino a ieri credeva nel valore della tradizione, nei fondamenti del triangolo Dio, Patria, Famiglia, un nuovo carnet di biglietti per entrare in un teatro dove si suona uno spartito che fino a poco tempo fa era degli avversari, cioè della sinistra. Molto istruttiva in questo senso è la lettura del Secolo d’Italia, in passato quotidiano del Movimento sociale di Giorgio Almirante, poi organo ufficiale di Alleanza nazionale e oggi equivoco «quotidiano nel Pdl» con una linea politica completamente fuori dal Pdl e inserita pienamente invece in quella finiana ora in precario e bizzarro divenire.
A pagina 8 del Secolo d’Italia ieri c’era un articolo firmato da Fiorello Cortiana intitolato «La sfida di Fli? Può ripartire dall’ecologia». A moltissimi quella firma non dirà granché e ad altrettanti l’argomento può sembrare pura ricerca di eccentricità. Non è così. Cortiana è l’espressione di un mondo che oggi viene corteggiato e a sua volta corteggia i finiani, è stato eletto ben due volte senatore dei Verdi, negli anni Settanta faceva parte di Lotta Continua, nel ‘77 era nei Collettivi giovanili, è un non nuclearista e, naturalmente, un antiberlusconiano. E scrive sul Secolo d’Italia, giornale che si autodefinisce «nel Pdl». È un numero qualsiasi di un giorno qualsiasi di un giornale che però non è qualsiasi ma, come leggiamo nella gerenza, il «quotidiano di Alleanza nazionale», diretto dalla finiana Flavia Perina e amministrato dal finiano Enzo Raisi. Non penso affatto che i giornali e le culture di partito debbano essere monolitiche o monocordi, ma in politica un conto è essere plurali, altro è mostrare un minimo di coerenza. Proporsi come destra (nuova o riverniciata, poco importa) e poi parlare lo stesso linguaggio, adottare gli stessi miti di quello che dovrebbe essere il tuo avversario politico, si traduce in un’operazione di doppiezza che nasconde il vero nocciolo della questione: Fini e i finiani non riconoscono più Berlusconi come capo del centrodestra. O meglio, obtorto collo devono accettare il responso delle urne e la sua leadership, ma sotto sotto sognano la dissoluzione del berlusconismo come fenomeno sociale (commettendo lo stesso errore storico della sinistra) e si compiacciono sul Secolo d’Italia della loro superiorità antropologica (come la sinistra) perché sono «un popolo festoso in cui nessuno intona “Meno male che Silvio c’è”».
Si sentono già al di sopra di chi vota l’uomo di Arcore, sono già saliti in terrazza e discettano delle sorti del Paese sorseggiando lo champagne gentilmente offerto dai mecenati del ribaltonismo, hanno esordito in società e già realizzato – contenti loro – la vera scissione dal partito, irreversibile perché ha dentro il virus dell’antiberlusconismo, la separazione da un mondo che considerano ormai lontano dalla loro torre eburnea, dopo averne goduto i frutti (posti, cariche, visibilità) e aver contribuito a fondarlo, quel mondo. È un caso di dissociazione da manuale. E infatti, nonostante tutto questo, si sentono ancora nel Pdl ma rivendicano di essere la terza gamba della coalizione. Un pasticcio. Cambiare idea è possibile, ma stare nella stessa alleanza comportandosi come un partito nel partito è più difficile. Vedremo oggi se Fini sarà più o meno doppio dei finiani.

IN ATTESA DEL NULLA

Pubblicato il 4 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Non v’è giornale italiano che ancora stamattina non dedichi parte della prima pagina al discorso che l’on. Fini, il traditore del centro destra, farà alla “sua” festa in quel di Mirabello, nei pressi di Ferrara, la città che diede i natali a Italo Balbo. Balbo era stato uno dei quadriumviri della marcia su Roma e durante gli anni del fascismo aveva ricoperto ruoli e cariche importanti del regime e autore di memorabili imprese, come la leggendaria transvolata atlantica cui seguì il trionfo, novello Cesare, nelle strade di New York; ma  era stato anche uno dei maggiori critici delle esagerazioni del fascismo e  uno di quelli che non mancava mai di farsi “sentire” da Mussolini, il duce, al quale,per esempio,  non lesinò le sue critiche per l’alleanza con la Germania hitleriana cui Balbo era contrario.  Era, insomma, Balbo uno che non tramava nell’ombra e che aveva, come si soleva dire un tempo, la schiena dritta.  Per questo Mussolini, che non poteva  impedirgli di parlare,  lo aveva nominato governatore della Libia e ve lo aveva mandato per tenerlo lontano da Roma. E proprio nei primissimi giorni della guerra,  giugno 1940, Balbo  precipitò con il suo aereo nel cielo di Tobruk, colpito da “fuoco amico” della contraera italiana che lo scambiò per aereo nemico. Immediatamente ci fu chi adombrò il dubbio che il “fuoco amico” in verità fosse stato un “fuoco nemico”, nel senso che l’aereo fosse stato colpito volutamente dalla contraerea su ordine di Mussolini,  per eliminare un oppositore interno che, però, la sua opposizione l’aveva fatto alla luce del sole e che, peraltro, una volta presa la decisione aveva risposto “obbedisco”. Tutte le inchieste che si sono succedute,  da quella voluta da regime mussolinano alla inchiesta giornalistica pubblicata poche settimante fa a cura  di Folco Quilici,  il cui padre,  Nello Quilici,  fu grande amico di Balbo e morì sull’aereo precipitato a Tobruk, hanno escluso che quello di Balbo sia stato un assassinio premeditato ed hanno definitivamente concluso che fu davvero la conseguenza di un tragico errore che spazzò via un personaggio che, in vita, forse avrebbe potuto far molto per evitare all’Italia i lutti della seconda guerra mondiale e la fine tragica del fascismo. Chissà!  Certo è che il traditore del  nuovo e unico centro destra italiano, cioè l’on. Fini, sta andando  proprio nella terra di Balbo per formalizzare il suo ultimo, ennesimo tradimento della destra italiana. Cosa dirà Fini domani sera a Mirabello, ha poca importanza, perchè, per dirla con lo scomparso Edmondo Berselli nel suo Postitaliani, dietro l’eloquio di Fini non v’è nulla, anzi vi è il nulla. Comizierà a Mirabello Fini, dicendo in mille parole ciò che Montanelli avrebbe detto in tre, farà il prestigiatore con le parole discettando di “nuova destra”, di “destra europea”, di “destra diversa”, diversa da quella di Berlusconi, senza però andare oltre l’eloquio, guardandosi bene dallo spiegare ai presenti e, sopratutto, agli assenti cosa sia mai la “nuova destra”, la “destra europea”, la “destra diversa” da quella berlusconiana. Si guarderà bene dal dirlo, ma non perchè voglia mantenere riserbo e segreto, non lo dirà solo perchè non lo sa neppure lui. Sono parole, sono solo aggettivi  che non spiegano  nulla,  per la smeplice ragione che la “destra” non è nè “nuova”, nè “europea”, nè “diversa”, la Destra o è o non  è. O è ancorata a valori, principi, obiettivi che affondano radici e legami nella tradizione o non è “destra” E’ qualcosaltro. E quella di Fini è qualcosaltro. E’ la sua smisurata ambizione non supportata da reali capacità, da verificate esperienze, caratterizzata da mai contraddette contrapposizioni ai Valori e ai Principi che da sempre sono stati il faro della “nostra” destra, l’unica. A Mirabello Fini raccoglierà gli applausi di quanti in nome di una presunta destra sarebbero capaci di allearsi anche con la sinistra che comunque si camuffi è pur sempre la sinistra del terrore e dell’orrore, di quelli che hanno come bandiera e parola d’ordine la vendetta el’odio. Perchè è questo che Fini, grondante di odio contro Belrusconi,  come tutti gli irriconoscenti,  anela: la vendetta, e atteggiandosi a sansone, lui che al più è un modesto emulatore della filosofia del ratto delle sabine, farà di tutto perchè, ormai certo della sua morte politica, muoiano anche tutti i “filistei”,  alfieri della Destra che è la nsotra Destra. g.

UN CAVALLO DI TROIA NEL CENTRO DESTRA

Pubblicato il 4 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

di Marcello Veneziani

Tirerà la corda ma non la spezzerà. Resterà in casa, ma farà il cavallo di Troia, senza offesa per nessuno. Non fonderà il partito farfalla di cui si parlava ma il partito-tarma che corrode la mobilia dall’interno. Dicono che parlerà chiaro e forte, e sul tono e il timbro di voce non c’è dubbio che sarà così: è sui contenuti che sarà chiara e forte la sua ambiguità, vorrà tenere il piede in due staffe. Non fonderà ma annuncerà, non deciderà ma minaccerà. Che statista, ma che bravo, diranno i giornali che faranno la ola ad ogni antiberlusconata.

L’estate finissima volge alla fine e vorrei tentare un bilancio dell’impresa alla vigilia della sua riapparizione terrestre a Mirabello. Qual è in estrema sintesi il suo attuale fatturato politico? Gode di un potere e di buona stampa perché può azzoppare il governo Berlusconi. Ha un potere in negativo.

In origine Fini aveva un partito, il terzo per numero di voti, pari al 12-15 per cento. Era il leader più piazzato nel centrodestra per la successione a Berlusconi e questa popolarità, in una formazione populista e presidenzialista, conta assai. Essendosi esposto poco a governare, a fare, a esplorare, preferendo piuttosto parlare, seguire e lasciar fare, Fini aveva ancora una sua verginità di immagine e di prospettiva come leader. Infine aveva avuto un trattamento di favore da media e magistrati perché appena il suo nome spuntava in qualche inchiesta giudiziaria, a Perugia o a Roma, su affari, sanità, assicurazioni e altri campi, toccando i suoi famigliari e il suo entourage, finiva tutto in un beato nulla di fatto e la sua integrità restava inviolata. Insomma aveva un patrimonio buono da spendere. Ma poi lo prese la second life, ovvero la fregola di cambiar vita, privata e pubblica; il suo partito lo infastidiva, i suoi colonnelli gli stavano sugli zebedei, i suoi alleati pure e sopra tutti non sopportava Berlusconi. Quando devi a qualcuno larga parte del tuo successo hai due molle: una è la gratitudine, l’altra è la voglia ingrata di liberartene, perché lui ti ricorda i tuoi limiti, i tuoi debiti, le tue origini. Insomma, Fini partì per la sua impresa, munito di tutor. La prima, brutta avvisaglia, fu quando pensò di far nascere la fondazione Fini che avrebbe dovuto incamerare i beni del vecchio Msi; ma l’idea, denunciata in tempo e sgradita a molti ex, fu resa impraticabile e si ripiegò su Fare Futuro. Però la marcia fu innestata e vi risparmio le tappe seguenti, fin troppo note, per arrivare agli esiti finali.

Il risultato è che Fini guidava un partito grande e ora capeggia un mezzo partito senza identità e collocazione, che è la terza parte di Alleanza nazionale o forse meno nei suffragi e che probabilmente regredirà a corrente o setta. Era il leader più popolare nel centrodestra e ora lo è tra i suoi avversari, che lo usano ma non lo voteranno mai. Era il successore naturale di Berlusconi ed ora è percepito dal suo stesso elettorato come il suo nemico interno, il cavallo di Troia. Era gradito ai moderati, ai cattolici, ai conservatori, ai postfascisti ed ora è la bestia nera di tutti questi. Ed appare dopo le storie emerse sul filo di Montecarlo come un politicante come gli altri, che sistema parenti e usa la Rai per appalti famigliari, che usa o lascia usare in modo indecente il patrimonio di un partito accumulato attraverso donazioni di idealisti e sacrifici, anche umani, dei suoi militanti. In più appare come il coperchio istituzionale di una famiglia fino a ieri nullatenente e ora ricca e possidente, accaparrandosi prima la fortuna di Gaucci nei modi ben noti; poi usando il potere di Fini per acquisire contratti milionari, auto lussuose, privilegi vari. Chi dice che questo è becero linciaggio, dimentica che per molto meno fu linciato e si dimise Scajola. Molti di quelli che oggi si sentono feriti dalle inchieste su casa Fini, ieri ululavano di piacere per le inchieste su casa Berlusconi. Ci sono intimità inviolabili e altre esposte al pubblico ludibrio. La privacy lampeggia a intermittenza…

Ma sul piano politico che prospettive ha ora Fini? Diventare il vice di Casini in un’alleanza terzista? Entrare nel mitico cartello degli Stati generali dell’antiberlusconismo, da Vendola a lui? Fondare un partitino o una corrente di futuristi passatisti, che nel nome di Marinetti elogiano la velocità e la macchina e poi nel nome del sociologo comunista Franco Cassano, evocato da Granata a base dei finiani, elogiano la lentezza e la natura col pensiero meridiano? Ma per Fini l’unico barese Cassano che conosce è il calciatore. E se Fini è Marinetti, allora Berlusconi è D’Annunzio e Bossi è Montale…
Non so cosa verrà fuori dagli accertamenti sul patrimonio immobiliare del vecchio Msi, dalle società fondate ai Caraibi e dal rientro in patria del giovane Tulliani. Ma so che si può tracciare un bilancio politico. Fini non è un mostro e non è un losco affarista; però si è confermato un modesto politicante, dall’ottima loquela comiziale e televisiva, che si fa pilotare ed è disposto a vendersi chiunque e ogni idea, se serve alla sua carriera.

Un politicante non diverso da quelli della prima Repubblica, che abusavano del loro potere; per anni ha campato sull’idealismo nostalgico di un partito emarginato, poi ha goduto i vantaggi e le comodità di un’alleanza che lo ha portato al governo e nelle istituzioni; e infine, quando doveva dimostrare la sua effettiva statura, si è mostrato un inaffidabile opportunista di corte vedute e mosso solo da fini personali, che non sa cogliere nemmeno le grandi opportunità al momento giusto. Qualunque cosa accadrà adesso, perfino la ricomposizione o addirittura la reintegrazione del figliol prodigo nella Casa, abbiamo misurato definitivamente Fini: è un pezzo di meringa, e si scioglie in bocca.

IL RICATTO LIBERTICIDA DI FINI

Pubblicato il 3 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Fini, il liberticida

Pare che Gianfranco Fini abbia posto come condizione indispensabile per una eventuale ricucitura del rapporto della sua componente con il Pdl l’immediata conclusione della campagna di stampa che “Il Giornale” e “Libero”, con l’apporto esterno de “Il Tempo”, conducono da mesi contro la sua persona. A stare a quanto scrivono i media che fiancheggiano l’opposizione e per questa ragione sostengono gli amici del Presidente della Camera, il Presidente del Consiglio dovrebbe convocare a Palazzo Grazioli il fratello Paolo ed il direttore de “Il Giornale” Vittorio Feltri, i rappresentanti della famiglia Angelucci ed il direttore di “Libero” Maurizio Belpietro e Domenico Bonifaci ed il direttore de “Il Tempo” Mario Sechi. Ed imporre loro, con le buone o con le cattive, di interrompere immediatamente l’offensiva giornalistica che stanno portando avanti da mesi contro l’ex leader di An e che ha prodotto un incredibile incremento di vendite da parte dei tre quotidiani. “L’Opinione” avrebbe potuto mettersi sulla scia di Feltri, Belpietro e Sechi nel tentativo di raccogliere almeno le briciole di una campagna risultata particolarmente fortunata. Non solo perché condotta con estrema virulenza ma anche perché fondata sulla singolare pretesa di Fini di usare l’autorevolezza istituzionale della terza carica dello stato per non rispondere alle domande sui suoi rapporti con Giancarlo Tulliani Ma questo è un giornale di cultura liberale e garantista. Che per rispettare i propri valori di riferimento ha sempre condotto battaglie sulle idee e mai sulle persone. Così, nel caso Fini, non si è gettato a capofitto negli attacchi personalizzati contro il Presidente della Camera, la sua attuale compagna e l’imbarazzante fratello Giancarlo Tulliani. Ma si è limitato a contestare in termini politici la scelta dell’ex leader di Alleanza Nazionale eletto alla Presidenza della Camera dalla maggioranza di centro destra, di rompere la propria stessa maggioranza impegnata nella difficile azione di contenimento della crisi economica.E di averlo fatto senza nutrire alcuna preoccupazione per gli interessi generali del paese. La decisione di non cavalcare la tigre dello sputtanamento personale e di seguire la strada della semplice critica politica, ha impedito a “L’Opinione” di entrare nel ricco circuito della stampa scandalistica. Ma mette in condizione ora il nostro giornale di avere pieno titolo nel sostenere che la richiesta di Fini al Cavaliere di zittire la stampa che lo avversa in cambio di un parziale rientro nei ranghi costituisce non solo un atto ricattatorio ma un comportamento apertamente e brutalmente liberticida. E’ singolare che chi si è battuto in nome della libertà di stampa contro la cosiddetta “legge bavaglio” pretenda oggi di mettere la museruola a chi lo incalza, ponendogli quesiti scomodi. La libertà di stampa che valeva ed andava difesa allora, non può essere dimenticata e calpestata oggi.  Ed è addirittura scandaloso che la perentoria richiesta di chiudere la bocca ad alcuni giornali venga da un Presidente della Camera evidentemente entrato in uno stato di grande confusione che gli impedisce di riconoscere il confine tra il ruolo di rappresentante delle istituzioni e quello di capo corrente. E’ possibile che nelle prossime settimane la campagna scandalistica contro Fini diventi meno ossessiva. Ma se si esaurisce l’interesse per la casa di Montecarlo o per i favori in Rai a Giancarlo Tulliani, non si esaurisce il problema della assoluta mancanza di principi di democrazia liberale dell’ex leader di An. Per questo è auspicabile che il chiarimento tra Pdl e finiani non sia un compromesso pasticciato ma una chiara distinzione di posizioni, scelte e responsabilità. Magari per continuare a collaborare nel quadro di una maggioranza più articolata. Ma ognuno con la propria identità e, come dovrebbe sollecitare anche il Capo dello Stato così sensibile a questione del genere, senza sfruttare indebitamente la copertura dei ruoli istituzionali!

LE PALE EOLICHE INVADONO LA MURGIA

Pubblicato il 3 settembre, 2010 in Il territorio | No Comments »

di Leonardo Maggio (La Gazzetta del Mezzogiorno)

Settantaquattro pale eoliche nella bassa murgia. Lancia l’allarme Maria Teresa Capozza, portavoce del comitato «Pro Ambiente» di Palo. Dice: «Con il progetto Enel di un parco eolico in contrada pezza Rossa, sul territorio circostante potrebbero sorgere settantaquattro aerogeneratori, poiché quindici sono già stati autorizzate dalla Regione a Toritto e 6 a Grumo Appula mentre sono in fase di autorizzazione altri quindici in agro di Mariotto, molto vicini a Pezza Rossa. Il tutto insiste sulla bassa murgia, l’unico spazio verde rimasto per respirare un po’ di tranquillità e aria buona».

Il comitato Pro Ambiente, il Circolo di Sinistra e libertà e il movimento Insieme per Palo, preparano la contromossa e inviano in zona cesarini, una serie di osservazioni sulla proposta di parco eolico con 36 aerogeneratori della potenza massima unitaria pari a duemila kw e potenza elettrica installabile di settantadue mw. Secondo le tre associazioni, infatti, «il Comune di Palo non è dotato di un piano regolatore degli impianti eolici (Prie) e, perciò, non è possibile autorizzare impianti sul territorio palese. Inoltre, il progetto deve essere sottoposto a valutazione di impatto ambientale; devono essere riaperti i termini di presentazione delle osservazioni per violazione del decreto legislativo 152/2006; approfondite le analisi sui rumori; esaminati gli aspetti paesaggistici e fornite simulazioni fotografiche più significative. Inoltre – ribadiscono le associazioni – è necessario che le autorità competenti valutino gli effetti sul paesaggio, in un ottica che tenga conto anche degli impianti eolici autorizzati nei comuni circostanti».

Intanto, si apprende che i mulini eolociipotrebbero essere più di trentasei, poiché altri due aerogeneratori di potenza unitaria pari a duemila kw e per una potenza nominale complessiva di impianto pari a quattro mw, potrebbero essere realizzati nelle campagne di località Mangiaquero, nel bel mezzo di contrada Pezza Rossa. Spunta, infatti, una delibera di consiglio comunale, la n. 10 del 31 marzo 2010, avente ad oggetto la «proposta di realizzazione di impianto di produzione di energia rinnovabile da fonte eolica».

Si apprende così, che ancor prima di Enel, già il 17 aprile 2007, con numero di protocollo 6693, la società «Decos srl», presentatava al Comune di Palo del Colle una prima proposta per la realizzazione di un impianto eolico. Per questo, il consiglio comunale, a stretto giro di maggioranza Pd-PdL, approvava uno schema di convenzione con la «Decos» che riconoscesse alle casse comunali un corrispettivo annuo a titolo di compensazione ambientale del 2% sui ricavi rivenienti dalla vendita dell’energia elettrica e nella percentuale del 2% sui ricavi rinvenienti dalla vendita sul libero mercato dei certificati verdi.

P.S. Mentre a Palo del Colle, Sinistra e Libertà si batte contro le pale eoliche dietro le quali, spesso,  si nascondono affari e cattiva gestione del territorio, a Bari, il gran capo Vendola fa finta d niente e a Toritto i rappresentanti locali di Sinistra e Libertà non aprono bocca e, anzi,hanno detto   si al raddoppio delle pale nel territorio di Toritto,  quelle che i “compagni” di Palo sostengono che distruggono il paesaggio e inquinanao l’aria buona della Murgia.

A PROPOSITO DI FINI: DUE E TRE COSE PER GLI SMEMORATI

Pubblicato il 2 settembre, 2010 in Politica | No Comments »

Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini Tra qualche giorno il Presidente della Camera romperà il silenzio in cui è piombato da quando è esploso il caso dell’appartamento di Montecarlo passato da An a Giancarlo Tulliani. Cosa dirà Fini? Non penso sia in grado di rispondere alla domanda delle domande: chi c’è dietro le società con sede nei paradisi fiscali che hanno acquistato la casa da An per poi girarla al cognato? La chiave della storia è qui. Ma Fini ha preferito tacere. E il silenzio è davvero pesante. Fini in realtà farà quello in cui riesce meglio da una vita: farà un comizio. Cercherà di spiegare la sua scelta di metter su un gruppo parlamentare distinto dal Pdl, accuserà Berlusconi di averlo cacciato dal partito e parlerà di una campagna di stampa che punta a screditarlo. Su quest’ultimo aspetto, vale il fatto che tutti i giornali – tutti – hanno chiesto a Fini spiegazioni credibili. Non sono mai arrivate e non è mai troppo tardi. Sugli altri due punti – la formazione del gruppo e l’espulsione dal Pdl – proviamo a rimettere le cose in ordine e dare una mano agli smemorati di Futuro e Libertà. Primo: Gianfranco Fini non è stato espulso dal Pdl. E così anche i suoi fedelissimi. Il partito ha deciso di aprire un procedimento disciplinare e c’erano buoni motivi per farlo. Il documento votato dalla direzione del Pdl lo dice chiaramente: «L’onorevole Fini e taluni dei parlamentari che a lui fanno riferimento hanno costantemente formulato orientamenti e perfino proposte di legge su temi qualificanti (…) che confliggono apertamente con il programma che la maggioranza ha sottoscritto solennemente con gli elettori». Vero o falso?

Non è forse vero che Fini ha sempre più differenziato il suo percorso politico da quello del Pdl, il partito che ha contribuito a fondare? É una bugia o corrisponde a verità che i suoi sodali hanno attaccato la maggioranza di cui fanno parte più volte, fino al punto da uscire da quella che è la normale dialettica di partito? Non esiste formazione politica che possa reggere a un fenomeno del genere. La perdita di credibilità diventa immediata, il correntismo degenera e diventa una sorta di Cavallo di Troia per gli avversari politici. Questo in politica può accadere, ma tutte le volte che è successo, i partiti si sono divisi fino a scindersi. La maggioranza del Pdl dunque ha reagito – dopo mesi di attacchi – nell’unica maniera possibile. Interpellando gli organi del partito.
Secondo: la formazione del gruppo di Futuro e Libertà non segue l’espulsione dal gruppo, ma il semplice annuncio del procedimento disciplinare. Non siamo di fronte a una questione di puro formalismo, ma di sostanza politica. Fini e i suoi non hanno atteso né il giudizio degli organi del partito né hanno provato a usare l’arma della diplomazia e del dialogo. Hanno deciso di rompere tout court il rapporto parlamentare. Questo indica almeno un paio di cose rilevanti politicamente: 1. erano pronti a farlo e lo stavano studiando a tavolino da tempo e, dunque, l’azione non solo era premeditata ma condivisa e ispirata dal presidente della Camera; 2. Fini con questa mossa ha intaccato in maniera decisiva il suo delicato ruolo di arbitro della partita parlamentare; 3. la decisione di costituire il gruppo non è stata portata fino alle logiche conseguenze, cioè l’uscita definitiva dal partito, segno che si voleva – e vuole ancora – usare questa mossa solo a fini tattici, per trattare con mani libere le prossime decisioni da prendere in Parlamento. Il gruppo di Fini agisce come un partito, ma non è un partito e addirittura può denunciare di esser stato cacciato da un partito stando con un piede fuori e con l’altro dentro lo stesso partito.
Tutto questo è vero o falso? Come uscire da questo pantano? Berlusconi attende il discorso di Mirabello di Gianfranco Fini per prendere le sue decisioni. Se Fini lancia dei diktat – come pare intenzionato a fare – le porte della diplomazia avranno poche possibilità di aprirsi, se invece Fini lascia perdere la polemica personale e fa politica allora il discorso si fa diverso e la maggioranza può trovare un suo modus vivendi. Berlusconi e Fini non sono obbligati ad abitare nella stessa casa, ma è chiara che per stare allo stesso tavolo bisogna almeno condividire un metodo. É quello semplice, elementare, della maggioranza. Chi la detiene ha il sacrosanto diritto di far valere le sue decisioni. Si obietterà che la minoranza ha lo stesso pieno diritto di dissentire. Giusto, ma in politica il dissenso va incanalato nei meccanismi decisionali. Come può essere compatibile tutto questo con le sparate di Granata, gli aut aut di Bocchino e le minacce di non votare i provvedimenti del governo? Se queste sono le intenzioni dei finiani, non ci sarà mai pace, ma solo una guerra continua che logorerà il governo fino a decretarne la fine. Il Pdl può permettersi tutto questo? Non credo. La base elettorale già prima della decisione di Berlusconi non era in sintonia con Fini e con l’attendismo del Pdl nei suoi confronti. Chiedeva e voleva una decisione chiara. Ieri come oggi. Fini ha in mano il suo destino, ma non quello del Pdl. Può provare a far cadere il governo Berlusconi, ma per lui è impossibile cancellare il Cavaliere dal Paese reale. Vedremo fino a che punto arriverà. In ogni caso, prima o poi lo scettro torna al popolo che, quando si vota, ha buona memoria.(da IL TEMPO)