La Camera dei Deputati La presidenza della Camera sarà il crocevia della legislatura. Qualsiasi scenario non può prescindere da questa casella istituzionale. O in piena crisi di governo (e probabili elezioni) o con la maggioranza in sella, quello di Montecitorio è il quadrante da tenere d’occhio. L’annuncio di Gianfranco Fini di passare dal gruppo al partito, dal movimento di truppe parlamentari al gioco duro sul territorio ha una conseguenza che il leader di Futuro e Libertà non ha ancora maturato del tutto, ma presto o tardi dovrà affrontare: le sue dimissioni. Domanda semplice che nessuno finora s’è posto: se Fini lascia, chi andrà a Montecitorio? Non stiamo trattando di una posizione qualsiasi, ma della terza carica dello Stato, figura che insieme alla Presidenza della Repubblica e a quella del Senato fa parte del «triangolo istituzionale» che fa (e disfa) l’agenda istituzionale.
Fini è un leader che sa benissimo di non poter a reggere a lungo la situazione così com’è: non si può essere contemporaneamente capo di un partito nascente, uomo “terzo” in un ramo del Parlamento e antagonista di Berlusconi sullo stesso terreno elettorale. La sua decisione di lasciare prima o poi arriverà e il centrodestra non deve farsi trovare impreparato di fronte al risiko politico che ne scaturirà. Silvio Berlusconi ieri a Milano ha parlato chiaro: fuori da questa maggioranza ci sono le elezioni. Detto questo, un leader che studia le mosse sulla scacchiera deve preparare il terreno politico su un doppio registro: quello della chiamata al voto e della battaglia fino all’ultimo consenso e quello del governo che si mette alla prova giorno dopo giorno. Se la casella di Montecitorio si libera, Berlusconi avrà sulla sua scrivania un paio di opzioni. Quali? La prassi consolidata finora nell’era del bipolarismo prevede che le presidenze delle Camere siano affidate alla maggioranza. Questa consuetudine è stata praticata dalla destra e dalla sinistra e nessuno ha avuto da obiettare. Lo scenario attuale però potrebbe suggerire anche altre soluzioni. Non un ritorno al passato, ma uno scenario mobile in cui, giocando di fantasia, quell’allargamento della maggioranza finora fallito potrebbe perfino riuscire oppure aprire un’altra fase della legislatura. Sul tavolo c’è anche la possibilità di riaprire la partita delle riforme e puntare dritti alle elezioni del 2013 con una serie di fatti concreti da presentare agli elettori. Quest’ultimo scenario converrebbe sia alla destra che alla sinistra. Ma andiamo con ordine. La domanda “chi verrà dopo Fini?” non ha una risposta univoca. Le figure che possono correre per quella carica sono tante, ma la premessa è che dietro ci deve essere un progetto politico coerente.
Faccio una serie di nomi che sono plausibili, ma soprattutto rappresentano la metafora di una situazione politica. La carta d’identità potrebbe cambiare, ma lo scenario sarebbe simile anche cambiando la figurina nell’album politico. Ne prendiamo tre dal mazzo, tutti buoni: Maurizio Lupi, Pier Ferdinando Casini e Massimo D’Alema. Ripeto, sono dei tipi ideali, ma proprio per questo val la pena di guardarli da vicino, sono un orizzonte da osservare prima di muovere i pezzi. Maurizio Lupi, parlamentare del Pdl e attuale vicepresidente della Camera, è un politico del Nord che si è distinto per la sua competenza e tenacia. Ha un legame forte con il suo territorio, la Lombardia, è intelligente e conosce le cose del mondo terreno. È un cattolico doc, uno dei link di Comunione e Liberazione in Parlamento. Il suo settentrionalismo è un valore importante, Lupi è una pedina seria da giocare nella competizione interna con la Lega, i suoi legami con il Vaticano sono preziosi sul piano dell’impostazione culturale del Pdl e la sua linea “berlusconiana” una garanzia per il Cavaliere. Una presidenza Lupi sarebbe un segno di continuità nella prassi della maggioranza che controlla tutte le cariche fondamentali dello Stato e contemporaneamente un segnale al Carroccio di Bossi e agli elettori del Nord. Con questa scelta, a livello di equilibri e giochi parlamentari non cambierebbe granché, ma dal punto di vista del Pdl e delle sue dinamiche interne sarebbe una carta logica da giocare. Rimane un dubbio: i finiani voterebbero Lupi? La verità è che una simile soluzione può maturare solo attraverso un armistizio con Fini.

Pier Ferdinando Casini – ieri criticato da Berlusconi a Milano – rappresenta un’incompiuta della politica italiana. Leader di un piccolo partito, artefice di una linea identitaria forte nei giornali ma debole sull’elettorato, potrebbe rientrare in pista proprio nella carica che aveva occupato nel governo Berlusconi. Il suo ritorno alla presidenza della Camera sarebbe la prima mossa di un riavvicinamento al Pdl di un partito che ha difficoltà a stare sia con il centrodestra sia con il centrosinistra. Comprendo le remore di Casini a rientrare nella maggioranza dopo aver rappresentato – a torto o a ragione – una posizione d’opposizione contro il Cav, ma Casini è anche un uomo molto pragmatico e una sua collaborazione sarebbe plausibile e coerente con la natura del suo partito. Domanda: Casini si renderà disponibile ad uno schema che prevede almeno in prospettiva una politica di alleanza? Pier è disposto a mollare la sua posizione di equidistanza e i legami con la sinistra? Massimo D’Alema continua ad essere di gran lunga l’unico politico di razza tra i leader del Pd. Ha grande esperienza, il tratto giusto per essere assai poco indulgente con i compagni di partito a Montecitorio e, soprattutto, è ancora il principale azionista del Pd. Difficile che D’Alema passi come candidato di uno schieramento alternativo al centrodestra, basta guardare alle mosse dei veltroniani, ma il buon Max potrebbe essere la candidatura per le grandi riforme finora mancate.

Le tre soluzioni hanno premesse e conseguenze politiche diverse. Nel caso di Lupi siamo pienamente dentro il centrodestra così com’è dopo lo strappo di Fini; nel caso di Casini a monte sta una strategia dell’attenzione nei confronti dell’Udc; in quello di D’Alema entriamo nel solo scenario possibile di fronte a una carta così pesante, ossia quello del finale di legislatura costituente. La prima opzione (Lupi) non allarga la maggioranza, ma conferma la supremazia parlamentare del Pdl, mette un altro elemento sulla scacchiera e – in caso di assenso dei finiani – puntella la maggioranza uscita dal voto di fiducia dei giorni scorsi. La seconda scelta (Casini) è quella che riapre il dialogo con l’Udc, costruisce le basi non per un ingresso dei centristi nella maggioranza, ma per una collaborazione politica con una base concreta. La terza carta da giocare (D’Alema) è quella più fantasiosa e nello stesso tempo intrigante. Il vero leader del Pd è da tempo fuori dai grandi giochi istituzionali, ma è senza dubbio alcuno la punta di diamante dell’opposizione e – quando vuole – sa essere uomo ricco di una materia prima sempre più rara: la realpolitik. Con lui si disinnescherebbe il bing bang del Pd, si ricostruirebbe un quadro politico meno avvelenato e soprattutto si potrebbe guardare a un finale di legislatura con un tot di riforme plausibili. D’Alema sarebbe la pietra tombale per le forze antisistema che stanno ammazzando il Pd, Berlusconi avrebbe la possibilità di sottrarsi alla tenaglia dei torquemada che sognano la rivoluzione giudiziaria, la strategia dei calcioni che la terza gamba finiana ha cominciato ad assestare in queste ore con un esito che appare sempre più vicino (le elezioni) sarebbe fortemente indebolita. Sul tavolo Berlusconi presto avrà tre carte e una sola scelta. Non può lasciare che il cappello su questa partita lo mettano altri partiti. Sta giocando una mano di poker decisiva, in palio c’è il futuro del suo governo.