Silvio Berlusconi Anche col suo discordo di domenica a Milano Silvio Berlusconi ha confermato di essere molto di più che un comune (eccellente o pessimo che sia) presidente del consiglio. Se fosse soltanto un bravo o cattivo premier sarebbe semplicemente uno dei moltissimi elementi che costituiscono l’insieme dei capi di governo toccati finora al nostro paese. Invece è anche, anzi soprattutto, il primo interprete e portavoce di un popolo che mai prima di lui era riuscito a esprimersi in prima persona sulla scena politica e che solo grazie a lui ha potuto finalmente presentarsi come una nuova, nuovissima Italia, nata felicemente dal decesso di tutte le Italie precedenti. E come tale è e resterà per sempre, quale che potrà essere l’epilogo, prossimo o remoto, della sua avventura politica, l’elemento di un insieme formato appunto soltanto da lui. Le diverse Italie dalle cui rovine è nata quella che ha trovato in lui il suo primo leader sono, nell’ordine, l’Italietta detta liberale, che fu accoppata dal Fascismo.

l’Italia fascista, che fu cancellata dalla sua disastrosa ma provvidenziale disfatta nella seconda guerra mondiale; l’Italia del primo trentennio della Prima Repubblica, che dopo essere stata fiaccata e sfregiata prima dal consociativismo statalista, quindi dal Sessantotto e dagli anni di piombo, stramazzò con l’assassinio di Aldo Moro; infine l’Italia cattocomunista degli anni successivi, che sarebbe dovuta crollare col muro di Berlino e il collasso dell’Urss, ma che invece riesce a vivacchiare ancora oggi grazie alla truffa di Mani Pulite, che permise ai comunisti (ex, posto e neo) ridotti dai fatti dell’Ottantanove e del Novantadue allo stato di morto che parla, di rilanciarsi sulla scena politica sventolando ipocritamente la bandiera della Questione Morale. L’Italia che ha trovato in Berlusconi il suo primo vero interprete e rappresentante simbolico non è dunque figlia né del Risorgimento (del quale ormai tutti sanno che non fu un movimento di popolo, ma una lunga serie di cospirazioni e sommosse ordite da movimenti elitari e sfociate in una serie di guerre di conquista combattute e vinte dal Piemonte, col sostegno di un’esigua minoranza di “patrioti” e di alcuni Stati europei, per annettersi tutti gli altri staterelli preunitari); né del Fascismo (del quale fra l’altro sarebbe ora di ammettere che avendo condiviso coi regimi comunisti delizie come il partito unico, lo stato etico e pedagogico, la militarizzazione delle masse, la statizzazione di vasti comparti dell’economia, il controllo dell’informazione, dell’istruzione e della cultura, la gestione del tempo libero, insomma tutto fuorché i massacri e il gulag, fu un singolare esempio di “socialismo dal volto umano”); né delle due sinistre antifasciste, la marxista e la cattolica, che hanno governato il paese prima dell’avvento di mastro Silvio.
Di che cosa è dunque figlia la nuova Italia che si riconosce in lui? È figlia della fede nel primato di quel fattore squisitamente pragmatico che egli ama chiamare “il fare”, e che come tale, basato com’è sul riconoscimento dei valori espressi e garantiti della costellazione “lavoro-scienza-tecnica-capitalismo-mercato-democrazia”, non ha proprio niente a che vedere con le nobili illusioni delle precedenti quattro Italie, tutte decedute sotto il botto di quell’evento epocale che fu la sua geniale “discesa in campo”. Ben altro dunque che un più o meno bravo Presidente del consiglio è Berlusconi. Di premier l’Italia, dal 1861 a oggi, ne ha avuti finora esattamente cinquantadue, e alcuni di essi, come capi dei governi da loro presieduti, si dimostrarono anche eccellenti. Ma in quanto prima espressione della nuova realtà sociale e politica sorta dalle rovine di quelle precedenti (che purtroppo ingombrano ancora il nostro paesaggio), Berlusconi è e resterà per sempre una figura unica. Sicché è evidente che lui, proprio come la luna è l’unico membro dell’insieme costituito dai satelliti della terra, è il solo elemento di quello costituito dagli ambasciatori dell’Italia sociale, economica e politica di oggi. Ruggero Guarini, Il Tempo, 5 ottobre 2010