Gianfranco Fini Ci sono partiti che appaiono come meteore. E scompaiono. Altri che nascono, crescono, durano nel tempo, ma alla fine anch’essi scompaiono. La politica, come tutte le cose, ha un ciclo di vita. Nasce, muore e si rigenera secondo le sue regole. Mai uguali. Che vita avrà il nascente partito di Gianfranco Fini? Difficile fare previsioni, possiamo però cercare di capirne la genesi rileggendo il passato, guardando il presente di futuro e libertà. La storia di Fini e Alleanza nazionale è un buon punto di partenza: Gianfranco si dedica alla svolta di Fiuggi, cambia la ragione sociale del partito e spegne la fiamma almirantiana quando capisce che, crollata la Prima Repubblica sotto i colpi della magistratura (e di una politica forcaiola di cui il Movimento sociale era parte), si sta aprendo un nuovo mondo e la destra di fronte all’arrivo di Berlusconi deve cambiare abito. La mossa non fu un’idea del leader, ma nacque grazie all’opera di un gruppo di intellettuali moderati (fu il professor Domenico Fisichella con un articolo pubblicato su Il Tempo nel 1992 a tracciare il primo solco, suggerendo la creazione di un partito che andasse oltre il recinto della destra) e all’intuito politico di Pinuccio Tatarella. Fini non era convinto della svolta, ma si decise comunque a lanciare un partito in versione “reloaded”, fare un passo avanti e mettersi in scia dell’uomo di Arcore per sfruttare la velocità di Forza Italia e provare a superarlo in curva. Fini fin dal primo giorno di questa avventura ha pensato a Berlusconi come a un parvenu della politica. Pensava: Silvio prima o poi si stuferà e tornerà in televisione a fare Drive In.
Per poi lasciare ovviamente il posto a lui, un professionista della politica. Cinque anni dopo la discesa in campo di Berlusconi, Fini si ritrova al suo personale punto di partenza e con un conflitto interiore irrisolto, quello dell’eterno numero due, sempre fermo al primo giro del pretendente al trono. Il suo obiettivo non è mai stato quello di far crescere il partito, ma di diventare il leader assoluto dell’area politica attraverso un subentro al Cav più o meno forzato. Per questo i risultati elettorali di Alleanza nazionale non sono mai stati la sua vera occupazione e preoccupazione. Appena Berlusconi entra in crisi grazie anche ai colpi della magistratura, siamo alla fine degli anni Novanta, Fini si fa sotto e nel 1999 matura il primo strappo ufficiale: parte l’avventura dell’Elefantino con Mario Segni. Nello zoo della politica c’è un gigante del regno animale. Fini le prova tutte. Offre una candidatura anche a Vittorio Feltri, il direttore del Giornale a cui oggi gli piacerebbe tanto far saltare la testa. Paradossi della storia. Che punisce Fini perché il risultato elettorale delle elezioni europee al posto di un Elefantino disegna una pulce: il partito raccoglie circa 3 milioni di voti, elegge nove parlamentari europei, fa un 10,3 per cento ma l’avversario in crisi da travolgere, Forza Italia, segna sul pallottoliere oltre sette milioni e mezzo di voti e supera il 25 per cento dei consensi. L’Elefantino si schianta a terra. Fini si dimette da An (letterina respinta) e Segni si consola con un seggio in Europa.
Da questo momento Fini agisce di conserva e giostra con la tattica di Palazzo. S’inventa con Marco Follini la stagione surreale del «subgoverno» e costringe Berlusconi a far fuori il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Una brutta pagina per il centrodestra. Tremonti viene richiamato qualche mese dopo di fronte allo spettro di una finanziaria con i fogli in bianco, Berlusconi, dato da tutti per spacciato, pareggia le elezioni, Prodi prova lo stesso a governare, Fini maramaldeggia e spera ancora nel tramonto del Cav, il quale invece fiutando le elezioni e non volendosi far cucinare da An fa la svolta del predellino, s’arrampica sullo sportello di un’auto in piazza San Babila a Milano e fonda il Pdl. Fini commenterà così la sortita di Silvio: «Siamo alle comiche finali». Poi smette di ridere, apre lo sportello e sale anche lui in macchina, diventa cofondatore del partito, elegge i suoi coordinatori ma nello stesso tempo mette in piedi una metamorfosi kafkiana passando dal destrismo al futurismo. E siamo all’oggi, all’estate di Montecarlo, al «che fai mi cacci», ai probiviri, all’uscita dal Pdl, alla fondazione di un gruppo parlamentare e poi di un partito in cerca d’autore. Fini ha in mente il regicidio (metafora politica) da sempre. Il colpaccio non gli è mai riuscito e questa è davvero la sua ultima occasione. Il problema è che i partiti nati da operazioni di palazzo non hanno grande fortuna. Come nel caso dell’Elefantino, Fini tenta l’operazione alchemica in laboratorio, scommette su se stesso e un manipolo di avventurieri che insieme riescono a sostenere tutto e il contrario di tutto: dall’ecologismo antinuclearista al progressismo rock. Non conosciamo il peso elettorale dei finiani, i sondaggi sono i più fantasiosi e vari, ma a giudicare dai discorsi di quelli che non si sentono dei Granata, le elezioni le temono. Vestiranno il loro manifesto politico con i colori futuristi di Balla. Vedremo quante stagioni riusciranno a ballare.

IL TEMPO, 6 OTTOBRE 2010

….Questa l’analisi del salto nel buio di Fini e dei suoi caballeros ad opera di Mario Sechi, direttore de Il Tempo di Roma, che, lo ricordiamo, è il quotidiano che da sempre, dai tempi del suo fondatore Renato Angelillo, è il portavoce, anzi il megafono dei moderati di Roma, del Lazio, e delle altre regioni del centro Italia. Noi condividiamo questa analisi, anche sulla scorta di una antica e mai nè dimenticata, nè rinnegata esperienza. Nel 1977, più della metà dei parlamentari dell’allora MSI, sia alla Camera che al Senato, con motivazioni che francamente erano ben più consistenti di quelle di Fini, anche perchè ventanni dopo hanno costituito le ragioni d’essere della svolta aennina di Fiuggi, si staccarano dal MSI di Almirante che voleva riportarlo sulle posizioni della lotta al sistema, e fondarano Democrazia Nazionale. Gli uomini che diedero vita a Democrazia Nazionale erano il fior fiore del MSI, sia a livello nazionale che regionale. Tutto faceva sperare che ciò,  unito alle “buone ragioni”  della scissione, cioè la creazione di una Destra capace di fare politica, liberale, dopo essersi scrollata di dosso il marchio di origine, cioè il legame con il fascismo, sopratutto quello repubblichino, pur senza giungere a rinnegarlo, ma attribuendosi la stessa definizione che  Giuseppe Berto,  a veva attribuito a se stesso: afascista, e magari, perdi dirla alla finiana  europea, avrebbe consentito alla nuova formazione politica di raccogliere i consensi necessari per bilanciare a destra lo spericolato e suicida pencolare a sinistra della Democrazia Cristiana.  Le elezioni del 1979 spazzarano via queste speranze , se volete, queste illusioni. Il partito dei moderati, o per dir meglio della Destra moderata, che aveva avuto il battesimo in Parlamento con la discussione sulla Legge Reale sull’ordine pubblico,  con l’accettazione esplicita e senza ritorni in quella sede della Destra ormai Nazionale del sistema della democrazia parlamentare, racccolse poco meno dell’1% dei voti, non entrò in Parlamento e  dovevano passare  altri 15 anni perchè nel Parlamento la Destra incominciasse ad essere protagonista e non solo testimone muto di una  parte di italiani che proprio non riuscivano a turarsi il naso per votare per l’altro partito nel quale la destra si era mimetizzata dopo il 1945, cioè la Democrazia Cristiana. Ma questo ci porta altrove e ai meriti storici ed innegabili di Berlusconi che alla Destra ha dato dignità di forza politica e legittimazione di governo. Quel che invece conta è che le scissioni non portano bene a chi le fa, neppure quando, come accade nel 1977,  davvero gli scissionisti mettendo a repentaglio il loro presente e il loro futuro politico, avevano come obiettivo di restituire la Destra agli italiani. Fini,  che benchè all’epoca della scissione di Democrazia Nazionale ancora  viveva a Bologna e ancora non era andato a vedere al cinema Berretti Verdi la cui visione doveva indurlo, secondo quanto lui stesso ha dichiarato, ad aderire al MSI, su Democrazia Nazionale e sugli uomini che la fondarono ha traccheggiato nel passato, quando era ancora uno che rivendicava i confini orientali e ancora come Almirante si definiva fascista e come Almirante definiva gli scisisonisti di Democrazia Nazionale come traditori.  Or, forse inconsapevolmente,  ripercorre lo stesso percorso di Democrazia Nazionale, senza avere le qualità morali, etiche e politiche di Ernesto De Marzio, di Gianni Roberti, e tanti altri, e pensa di poter conseguire, con ben altri propositi, compresi quelli di allearsi con la sinistra, compresa quella giustizialista di Di Pietro e quella massimalista di Vendola per sconfiggere Berlusconi,  il consenso degli italiani, gli italiani di Destra, quelli che per tutta la vita hanno subito le angherie, i soprusi, le violenze verbali e intellettuali della sinistra e che oggi tradisce coprendosi il volto con parole piene di niente.  Si illude e il tempo che è galantuomo lo dimostrerà. g.