Negli anni Settanta i giornalisti non comunisti se la cavavano: bastava che si proclamassero antifascisti e la passavano liscia. Al Corriere della sera, quando si trattava di assumere un giovane cronista, il comitato di redazione (che contava molto di più del direttore, dato che i sindacati lo tenevano in ostaggio e lo ricattavano: o fai come diciamo noi oppure addio pace sociale) pescava perfino all’Avvenire, proprietà vescovile, tanto per gettare un po’ di fumo negli occhi a chi criticava la tendenza a reclutare soltanto compagni.
In una circostanza, dal giornale della Cei arrivarono in via Solferino addirittura due ragazzotti sotto i trent’anni con l’etichetta di cattolici osservanti. Di lì a pochi mesi, entrambi si iscrissero al Pci e la loro carriera fu brillante: uno fu subito promosso caposervizio, l’altro, dopo un breve periodo di gavetta, cooptato nel gruppo degli inviati, considerati degni di ogni privilegio, tra cui quello di non avere orari né l’obbligo di frequentare la redazione.
Altre assunzioni avvenivano prevalentemente tra i comunisti organici dell’Unità, raramente di altre testate. Io fui ingaggiato dal Corriere per errore. Infatti avevo lavorato alla Notte di Nino Nutrizio, che era di destra, ed ero quindi sospettato di simpatie fasciste. Sennonché un amico corrierista garantì per me: «Feltri è socialista». E nessuno mi ostacolò. Questo dimostra che al tempo la nostra corporazione era abbastanza democratica. Se confessavi di non essere comunista, beh, non eri amato però ti tolleravano; se invece osavi ammettere di essere anticomunista, allora addio, eri destinato all’emarginazione.
Oggi che il comunismo è un reperto archeologico, paradossalmente le cose sono peggiorate. Se non sei di sinistra, o non ti comporti come lo fossi, i colleghi progressisti ti guardano con disprezzo e si sentono autorizzati a liquidarti così: incolto, rozzo, servo, venduto, killer, per citare gli epiteti più gradevoli. Il problema è capire che significhi essere di sinistra e non esserlo. La soluzione è semplice. Se non sei berlusconiano, nel senso che non riconosci al Cavaliere legittimità politica, hai diritto alla patente di democratico (ormai sinonimo di progressista); se invece in qualche modo accetti che Silvio Berlusconi possa esercitare funzioni istituzionali, e magari hai votato centrodestra in qualche occasione, ti infliggono il marchio di berlusconiano, un’infamia. E non c’è verso di cancellarlo. A meno che non ti decida pubblicamente ad abiurare. Nel qual caso puoi sperare in una riabilitazione dopo un lungo periodo di quarantena necessario per purificarti.
I pentiti d’ogni genere in Italia godono di grandi favori. Quelli che si offrono volontari nei salotti televisivi, per recitare tutte le litanie dell’antiberlusconismo di maniera, sono i più richiesti e applauditi. Così, con relativa facilità, nel giro di qualche mese da buzzurro sei promosso a intellettuale con i requisiti indispensabili per accedere al club dei lib-lab. Se invece ti ostini a pensare che in politica non si debba scegliere il meglio (che non c’è), ma il meno peggio, e che il meno peggio non stia nel centrosinistra bensì nel centrodestra, ti può succedere qualsiasi disgrazia. Intanto, l’Ordine dei giornalisti ti tiene in osservazione e, se gli dai il minimo pretesto, ti frega perché dispone di poteri illimitati, tra cui quello di condannarti alla disoccupazione temporanea o definitiva.
Il giornalista «eretico», a differenza di quello progressista ortodosso, non ha protezioni politiche: nel centrodestra, la prevalenza del cretino impedisce ogni iniziativa in appoggio agli scribi più in sintonia col Pdl che col Pd. Strano, ma vero. Risultato, i redattori in conflitto con le bandiere rosse di risulta sono mazziati e cornuti. Basta vedere quanto è successo nelle scorse settimane.
Panorama, Libero e Il Giornale si sono dedicati con scrupolo all’appartamento monegasco ereditato da An grazie a una nobildonna (la cui volontà era che servisse a finanziare una buona causa nel partito), svenduto da Gianfranco Fini e attualmente abitato dal cognato di questi, Giancarlo Tulliani. Una vicenda oscura; forse non è stato commesso un reato, ma una scorrettezza sì. Ebbene, mentre le tre testate citate si davano da fare per completare le loro inchieste, i giornaloni tipo Repubblica e Corriere della sera (e non contiamo le emittenti televisive), dei quali è nota la pendenza a sinistra, si spremono onde minimizzare il lavoro dei concorrenti di segno politico opposto, arrivando a deriderli: tanto chiasso per poi un affaruccio immobiliare.
Parecchi si sono domandati come mai Gianfranco Fini fosse difeso dalla stampa che fino a un anno prima lo riteneva un abusivo del Parlamento, un ex fascista da scansare. La risposta è ovvia: da quando il presidente della Camera si è trasformato da conservatore bigotto («Dio, patria e famiglia») in fiero oppositore di Berlusconi è stato iscritto d’ufficio al circolo degli eletti. Fosse rimasto ciò che era, una camicia nera stinta, l’avrebbero massacrato. Invece hanno massacrato gli inchiestisti che hanno svelato le sue «disattenzioni».
E che dire di Maurizio Belpietro, sfuggito a un attentato terroristico in casa? Pur di banalizzare il fatto, l’apparato mediatico insinua che il caposcorta del direttore di Libero si sia inventato l’agguato e abbia sparato a un fantomatico aggressore così, per sport, per fare un po’ di casino.
Questa è la situazione. Cambierà? Sì. In peggio, naturalmente.