Il caso di Adro per settimane è stato il simbolo della presunta ingerenza della politica in un istituto scolastico. Ma nessuno si scandalizza se in una materna del centro storico della città toscana campeggia il vessillo del Pdci.

di Valentina Carosini

Uno spettro s’aggira per Livorno. È lo spettro, per altro un po’ gualcito, del (vecchio) comunismo che uscito dalla porta, ora tenta di rientrare dalla finestra. Per rimanere nella metafora, la «finestra» simbolica è quella di una scuola materna, sui muri della quale, ciclicamente, campeggiano tre bandiere. Un inno alla patria? Una trovata romantica? Non proprio. I vessilli in questione, falce e martello in campo rosso, simbolo di un marxismo-leninismo rivisitato in chiave tristemente italica, sono quelli del moderno partito dei Comunisti Italiani. Due più una multicolore bandiera della pace, di quelle che qualche anno fa sventolavano dai terrazzi di mezza Italia, sull’onda di un pacifismo color arcobaleno finito presto nel dimenticatoio. Un metro e mezzo per un metro di stoffa rossa che sventola sui muri esterni della scuola materna San Marco, nell’omonima via del quartiere Venezia, nel cuore del centro storico cittadino. Sono lì dallo scorso gennaio, dove annualmente vengono sistemate per celebrare la fondazione del Partito Comunista Italiano, nato a Livorno nel 1921. Di più. Nato proprio sul posto, come si legge dalla targa alla memoria, e «sorretto dall’ideologia di Marx, Engels, Lenin e Stalin» (per citare testualmente la lapide apposta su quelli che sono i muri dell’edificio scolastico), nelle sale dell’ex teatro San Marco, oggi scuola comunale.
Il comune, che sempre annualmente provvede a togliere le bandiere dopo le cerimonie, quest’anno se n’è dimenticato. Qualcuno se n’è accorto e ha protestato ispirando mozioni e interpellanze, mai arrivate alla discussione in consiglio comunale. Una curiosa risposta tutta toscana alla Adro leghista, con una sola differenza. Mentre in terra padana i simboli di partito, esposti in scuole e luoghi pubblici, hanno scatenato un putiferio mediatico nazionale, con tanto di proteste, prese di posizione e urla scandalizzate, manco si trattasse d’un colpo di stato, qui invece, nella terra del cacciucco, l’invasione di falce e martello è percepita come normale, almeno stando alla maggioranza cittadina. Questione di punti di vista.
«Siamo una città simbolo – s’infiammano subito gli abitanti della zona, se interpellati sull’opportunità o meno di un simbolo politico su un edificio pubblico – Non lo sa che siamo la culla del comunismo italiano?». Una culla del materialismo dialettico dove si può ignorare perfino il via al minuto di silenzio, alla memoria dei quattro soldati italiani morti in Afghanistan pochi giorni fa, che doveva essere osservato in tutte le classi di un liceo scientifico cittadino ma che è stato completamente ignorato da un professore che in aula ha continuato a fare lezione, un’occasione come un’altra per stigmatizzare la guerra in Afghanistan, lasciando sbalorditi gli stessi alunni. Questione di punti di vista anche per la maggioranza cittadina, compatta sulla «querelle delle bandiere».
«La scuola ha l’ingresso dall’altra parte dell’edificio, i bambini non le vedono neanche le bandiere – ribatte Gabriele Cantù, capogruppo Pd in consiglio comunale – E poi sono apposte su quel che resta del muro dell’ex teatro, parte della memoria storica che la città che non vuole negare». Teatro dentro il quale però, di fatto, ora c’è una scuola materna. Stesso edificio, stessi muri. Non c’è sofismo che tenga. È un simbolo politico su un edificio pubblico. Fine. E a Livorno, a quanto pare, si può fare.