BIN LADEN NON VIVE IN UNA GROTTA
Pubblicato il 19 ottobre, 2010 in Politica estera | Nessun commento »
Se volete sapere dov’è Osama Bin Laden chiedetelo al Pakistan. E per trovarlo non scandagliate le grotte, ma cercatelo in una comoda casa di montagna. Il messaggio-siluro affidato dai vertici Nato alle antenne della Cnn parte proprio mentre a Roma il ministro degli Esteri Franco Frattini discute con l’ omologo afghano Zalmai Rassoul, con il comandante dell’Isaf generale David Petraeus e con l’inviato del presidente americano Barack Obama, Richard Holbrooke, i temi salienti della nuova strategia afghana. Una strategia incentrata non solo sulle offensive militari, ma anche su un articolato e selettivo negoziato con talebani che non potrà mai estendersi ad Al Qaida, ma può comprendere gli iraniani. Un prospettiva suggellata dalla presenza nelle sale della Farnesina di una delegazione di Teheran invitata per la prima volta a questo ciclo di colloqui. Per quanto riguarda la fine della missione bisogna invece pensare a un ritiro lento e scaglionato che non inizierà inderogabilmente nel 2011, come aveva fatto intendere inizialmente la Casa Bianca, ma si svilupperà tra il prossimo anno e il 2014.
Il puntino sulla «i» più importante da aggiungere alla voce negoziato discussa a Roma è però nascosto nell’indiscrezione Nato sul rifugio pachistano di Bin Laden e del suo braccio destro Ayman Al Zawahiri. «Nessuno dei capi di Al Qaida vive una grotta», spiega un anonimo funzionario Nato ai giornalisti della Cnn. Il messaggio è chiaro. I vertici dell’organizzazione terrorista non sono fuggiaschi allo sbando, ma godono di protezioni ad alto livello. L’indiscrezione include un pesante avvertimento a Islamabad. La fonte Nato disegna infatti un’accurata mappa della latitanza del capo di Al Qaida. Bin Laden, dopo un lungo periodo tra le vette del Chitral, alla convergenza le frontiere di Cina, Pakistan e Afghanistan, sarebbe tornato nelle zone di confine pachistane contigue al vecchio nascondiglio di Tora Bora, il dedalo di cunicoli e grotte sotterranei in cui si ritrovò assediato alla fine del 2001. A non troppa distanza da lui in una residenza altrettanto comoda, ben servita e sempre in territorio pachistano vivrebbe anche il suo braccio destro, il medico egiziano Al Zawahiri. Le rivelazioni contengono un doppio segnale ai pachistani. Il primo è «attenti abbiamo le prove del vostro doppio gioco e siamo pronti a mettervi con le spalle al muro». Il secondo è legato alla questione negoziati. Mesi fa i vertici militari di Islamabad premevano sul presidente afghano Hamid Karzai per fargli accettare una trattativa guidata dai loro generali in cui fosse incluso il clan Haqqani, ovvero la componente talebana più vicina ad Al Qaida e ai servizi deviati di Islamabad. Puntando il dito sul ruolo ambiguo del Pakistan, la Nato vuole evitare qualsiasi negoziato con personaggi legati ad Al Qaida o controllati dai generali di Islamabad.
Non a caso subito dopo il summit alla Farnesina Richard Holbrook ricorda che per il negoziato «esistono paletti ben definiti». E fra le linee rosse inserisce subito la «chiara rinuncia ad Al Qaida, la deposizione delle armi e il rispetto della Costituzione». Nessuna preclusione invece per gli iraniani. «Per gli Usa non c’è alcun problema a vedere intorno a questo tavolo gli inviati dell’Iran, paese che ha un ruolo da svolgere per la soluzione pacifica» assicura il diplomatico statunitense, sottolineando che la vicenda afghana è molto diversa dalla questione nucleare. Anzi, aggiunge Holbrooke, la presenza a Roma di una delegazione iraniana dimostra che in Afghanistan «non c’è nessuno scontro di civiltà», ma «un fronte unito contro minacce comuni».
Il puntino sulla «i» più importante da aggiungere alla voce negoziato discussa a Roma è però nascosto nell’indiscrezione Nato sul rifugio pachistano di Bin Laden e del suo braccio destro Ayman Al Zawahiri. «Nessuno dei capi di Al Qaida vive una grotta», spiega un anonimo funzionario Nato ai giornalisti della Cnn. Il messaggio è chiaro. I vertici dell’organizzazione terrorista non sono fuggiaschi allo sbando, ma godono di protezioni ad alto livello. L’indiscrezione include un pesante avvertimento a Islamabad. La fonte Nato disegna infatti un’accurata mappa della latitanza del capo di Al Qaida. Bin Laden, dopo un lungo periodo tra le vette del Chitral, alla convergenza le frontiere di Cina, Pakistan e Afghanistan, sarebbe tornato nelle zone di confine pachistane contigue al vecchio nascondiglio di Tora Bora, il dedalo di cunicoli e grotte sotterranei in cui si ritrovò assediato alla fine del 2001. A non troppa distanza da lui in una residenza altrettanto comoda, ben servita e sempre in territorio pachistano vivrebbe anche il suo braccio destro, il medico egiziano Al Zawahiri. Le rivelazioni contengono un doppio segnale ai pachistani. Il primo è «attenti abbiamo le prove del vostro doppio gioco e siamo pronti a mettervi con le spalle al muro». Il secondo è legato alla questione negoziati. Mesi fa i vertici militari di Islamabad premevano sul presidente afghano Hamid Karzai per fargli accettare una trattativa guidata dai loro generali in cui fosse incluso il clan Haqqani, ovvero la componente talebana più vicina ad Al Qaida e ai servizi deviati di Islamabad. Puntando il dito sul ruolo ambiguo del Pakistan, la Nato vuole evitare qualsiasi negoziato con personaggi legati ad Al Qaida o controllati dai generali di Islamabad.
Non a caso subito dopo il summit alla Farnesina Richard Holbrook ricorda che per il negoziato «esistono paletti ben definiti». E fra le linee rosse inserisce subito la «chiara rinuncia ad Al Qaida, la deposizione delle armi e il rispetto della Costituzione». Nessuna preclusione invece per gli iraniani. «Per gli Usa non c’è alcun problema a vedere intorno a questo tavolo gli inviati dell’Iran, paese che ha un ruolo da svolgere per la soluzione pacifica» assicura il diplomatico statunitense, sottolineando che la vicenda afghana è molto diversa dalla questione nucleare. Anzi, aggiunge Holbrooke, la presenza a Roma di una delegazione iraniana dimostra che in Afghanistan «non c’è nessuno scontro di civiltà», ma «un fronte unito contro minacce comuni».