La libertà di stampa non è un bene democraticamente divisibile: qualcuno ce l’ha e altri no. Non importa se la Costituzione, adorata da chi pretende sia applicata solo per sé, consente a tutti i cittadini di esprimersi con ogni mezzo. La discriminante è l’opinione politica: se fai parte del club antiberlusconiano hai diritto di dire e di scrivere ciò che ti pare; se, invece, sei schierato sull’altra sponda ogni tuo pensiero è indegno, quindi da condannare, quantomeno disprezzare. È così da molti anni, ma oggi la situazione è peggiorata e rischia di precipitare. Quando morì Giovanni Guareschi, autore fra i più amati dal pubblico non soltanto italiano, L’Unità – organo ufficiale del Partito comunista più potente del mondo occidentale – fece un titolo grazioso. Questo il nobile concetto: «È morto uno scrittore mai nato». Perché un giudizio tanto severo e definitivo? Guareschi, nonostante fosse antifascista, era anche anticomunista; motivo sufficiente a renderlo inaccettabile ai compagni. Giovannino fu messo all’indice, deriso e insultato per oltre un quarto di secolo. Poi l’apparato pseudoculturale della sinistra lo rivalutò, dedicandogli alcuni articoli elogiativi.
I progressisti usano rinnegare se stessi. Lo fanno senza pudore e con disinvoltura. Un altro caso interessante è quello di Indro Montanelli. Quando il principe delle penne fu licenziato dal Corriere della sera per incompatibilità ideologica, venne spernacchiato in coro dalla massa comunista e dai gruppi extraparlamentari tollerati, anzi coccolati da Botteghe Oscure. Il corsivista più incisivo dell’Unità, l’ex democristiano Fortebraccio, fu lapidario: «Indro scrive per le portinaie». La gambizzazione di Montanelli a opera delle Brigate rosse fu liquidata dal Corriere della sera nel seguente modo: «Gambizzato un giornalista». Alla vittima – per dire in quale considerazione il fondatore del Giornale era tenuto dalla nouvelle vague dominante in via Solferino – venne negata addirittura l’identità. Venti anni più tardi Montanelli fu cooptato nel pantheon della sinistra per meriti speciali.

Il toscanaccio, infatti, pur avendo a lungo goduto dei miliardi di Publitalia, buoni per ripianare i passivi mostruosi accumulati dal suo quotidiano, litigò con Silvio Berlusconi dopo averlo sempre coperto di elogi sperticati: il miglior editore del mondo, per citarne uno moderato. Bastò un gesto di ribellione. Indro diventò l’idolo degli antiberlusconiani, ai quali fornì argomenti e invenzioni lessicali per attaccare il Cavaliere: squadrista, despota, manganellatore mediatico eccetera. Montanelli da quel momento non scrisse più per le portinaie, ma per l’élite degli intellettuali.
Lo stile della sinistra non è cambiato. La Repubblica, quando si accanisce su personaggi del centrodestra, Berlusconi in particolare, fa il suo mestiere forte della libertà di stampa, ed è sostenuta dagli applausi dei compagni e della maggioranza degli scribi. Se, invece, la stessa attività è svolta dal Giornale, da Panorama, dal Tempo e da Libero, allora i cronisti sono bastonatori, killer e fanno dossieraggio mirato a distruggere gli avversari del premier. E i direttori sono servi del padrone. Non solo. Scattano per i reprobi procedimenti giudiziari e disciplinari finalizzati a zittirli, delegittimarli, buttarli fuori dalla professione in maniera che non possano più nuocere. E la libertà di stampa? Bisogna sapersela guadagnare. Come? Pentirsi, abiurare, gridare che Berlusconi e la metà degli italiani che lo eleggono sono il Male assoluto. A quel punto, forse, gli «spretati» avranno il perdono e saranno liberi. Liberi di dire che il Cavaliere è un essere spregevole.