di Vittorio Sgarbi

Invece di perseguitare i delinquenti, la magistratura mette sotto processo i servitori delle istituzioni. Da Lombardo a Contrada, da Ganzer a Mori. L’ultima vittima è Pollari, alla sbarra per il sequestro dell’imam Abu Omar, gli vogliono dare 12 anni

È una storia lunga e vergognosa. Comincio con le accuse, naturalmente da Santoro,  di Leoluca Orlando nei confronti del maresciallo Lombardo, accusato di essere colluso con la mafia. Il maresciallo Lombardo era il comandante dei Carabinieri di Terrasini. Infamato, senza fondamento e senza prove, si uccise. Analoghe accuse furono fatte dal procuratore Caselli al tenente dei Carabinieri Canale, uomo capace, che godeva l’assoluta fiducia di Borsellino. Ucciso Borsellino, anche Canale fu ritenuto colluso con la mafia. Forte e coraggioso, ha resistito, per anni, difendendosi nei tribunali. Qualche mese fa, dopo essere stato mortificato e umiliato per anni, è stato riconosciuto innocente. Destino diverso è toccato a Bruno Contrada, condannato senza prove e difeso strenuamente da un avvocato «coraggioso e radicale» come Pietro Millio. Non si è mai capito che cosa abbia fatto Contrada, in che modo abbia favorito la mafia. Si sa soltanto che investigava in epoche e con metodi in cui non c’erano pentiti à gogo e intercettazioni ambientali capillari; e occorreva utilizzare i confidenti, garantendo loro favori e parziali impunità. Per la stessa ragione fu arrestato l’allora colonnello (poi promosso generale) Conforti, comandante dei Carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio artistico. Cosa aveva fatto Conforti? Aveva, con grande abilità, ritrovato la reliquia della mandibola di Sant’Antonio da Padova sottratta al tesoro del santo dalla cosiddetta mafia del Brenta, per volontà di Felice Maniero detto «Faccia d’Angelo».
Naturalmente Conforti ottenne lo straordinario risultato attraverso confidenti avvicinati con l’abilità di non farsi riconoscere e con gli espedienti del mestiere di ogni buon investigatore. Operazione non corretta. Dopo averlo difeso in televisione con grande veemenza, lo andai a trovare nel carcere militare di Peschiera dove stava in una cella stretta e profonda, come Silvio Pellico. Lo vidi in maniche di camicia, desolato, ma non umiliato, sconcertato ma non pentito, e lontano dall’idea di avere compiuto un qualsivoglia delitto. Era in carcere per aver compiuto il suo dovere. Sull’aereo che mi portava a Verona, il destino mi fece sedere a fianco di un ragazzotto dall’aria furba e tranquilla: era lo stesso Felice Maniero, pentito e quindi libero, autore del furto per cui il colonnello era in galera. Un rovesciamento tipico della giustizia malata. Avendomi riconosciuto, e conoscendo il mio temperamento, Maniero cercò di farsi piccolo nel suo sedile, forse temendo che io lo aggredissi. Ero più che indignato. Andavo a trovare un uomo onesto in galera, mentre il delinquente era libero e impunito. Dopo qualche tempo, a forza di urlare, Conforti fu liberato. Inutile dire che l’accusa era senza fondamento e che dopo qualche tempo fu completamente prosciolto (e, appunto, promosso). Erano comunque tempi difficili. Un uomo da tutti riconosciuto onesto e capace, e un valoroso magistrato, Luigi Lombardini, si convinse, al di là delle sue competenze dirette, a occuparsi del rapimento di Silvia Melis. La situazione appariva drammatica, perché non c’erano precedenti di rapiti in Sardegna che fossero stati liberati senza pagare il riscatto. Ci fu dunque una trattativa e Lombardini fece la sua parte, trattando e forse incontrando i rapitori. Nichi Grauso, con la tipica valentia dei veri sardi, mise la somma necessaria e andò direttamente a consegnarla. La Melis fu così liberata trovando il modo di far credere che fosse scappata. Indagati tutti, per non aver lasciato morire l’ostaggio e, in particolare, incriminato Lombardini per essersi messo in mezzo e aver tentato una trattativa. Fu così messo sotto inchiesta dalla Procura di Palermo, ancora una volta Caselli con quattro sostituti procuratori. Appena usciti dalla sua stanza i «colleghi» di Palermo, che erano ancora vicini, e in attesa di essere perquisito e magari arrestato, prese una pistola dal cassetto della sua scrivania e si sparò.

La causa scatenante del gesto non mi pare dubbia; ma il Csm che si occupò della vicenda non osservò l’anomalia dell’irruzione e dello scioccante interrogatorio, ma concluse che tutto era stato regolare, che nessuno aveva commesso abusi, e che l’interrogatorio era stato formalmente corretto. Insomma, Lombardini si era ucciso perché era troppo sensibile. Cazzi suoi.
In tempi più recenti abbiamo assistito a l’incriminazione e alla condanna di un altro generale, il generale Ganzer, che io ho anche incontrato e che, essendo stato tutta la vita diligente corretto e operoso nel combattere i trafficanti di droga, improvvisamente ha deciso di farsi complice dei suoi nemici e collaborare con loro a spacciare la droga. Un esempio di pentitismo alla rovescia. Si è pentito di essere onesto, ottenendo grandi risultati, nella zona grigia delle inchieste tra collaboratori e confidenti creandosi con ciò non imprevedibili nemici, è stato condannato a 14 anni di carcere, dunque dire che ha scelto di fare il carabiniere non perché credeva nella giustizia e nell’onestà ma perché non vedeva l’ora di avere l’occasione di diventare un criminale. Non diversamente aveva lavorato nei servizi segreti (da noi sempre sospettati delle peggiori infamie e, per così dire, fisiologicamente deviati) il generale Pollari, cercando di contrastare il terrorismo, non potendo pensare di farlo convertendo fanatici kamikaze islamici. Anche lui un genio del male, per di più servile nei confronti del governo. Perché non chiedere, per Pollari, 12 anni di carcere? Insomma, i criminali vanno cercati tra le forze dell’ordine. L’esempio più luminoso è il generale Mori. Torturato per anni, trascinandolo sotto processo per favoreggiamento aggravato in relazione alla mancata cattura di Bernando Provenzano, oggi viene incriminato per concorso esterno in associazione mafiosa. Naturalmente, a concorrere a questa attività criminosa, non poteva mancare anche un altro carabiniere, il colonnello Giuseppe De Donno, e anche il capitano Antonello Angeli. Insomma, tre carabinieri che avendo il compito di combattere la mafia, hanno pensato di favorirla. Per favorirla meglio, il generale Mario Mori ha catturato Totò Riina. E per farsi perdonare non ha perquisito bene il suo covo, così come il capitano Angeli non ha aperto la cassaforte di Massimo Ciancimino dove era custodito il «papello» con le richieste di Totò Riina allo Stato. Gente strana questi carabinieri: mettono in galera i mafiosi e non aprono le casseforti. Insomma il figlio e collaboratore del padre Vito Ciancimino mafioso, e il generale Mori, in questa insalata russa hanno le stesse responsabilità nel concorrere a sostenere la mafia. Ma di Ciancimino si capiscono le ragioni. Di Mori, di De Donno, e di Angeli restano misteriose. Inutile pensare alla missione compiuta. Occorre sputtanarli confondendo le carte in una assoluta mancanza di rispetto e di rigore morale per chi ha deciso da che parte del campo stare. Ma, inseguendo i criminali, si è fatto loro simile. Continuo a guardare con indignazione i professionisti dell’Antimafia e credo che la verità l’abbia intuita il colonnello De Caprio, il capitano «Ultimo», che, riconoscendo «le più raffinate manovre Corleonesi» parla di «un attacco da parte di forze oscure che dall’interno di Cosa nostra vogliono distruggere il valoroso generale Mori». Non sarà che Riina si vendica del generale Mori attraverso i magistrati che lo hanno incriminato? VITTORIO SGARBI, IL GIORNALE 29 OTTOBRE 2010