La migliore analisi, la più realistica e anche la più approfondiata, delle incredibili baggianate raccontate ieri da Fini a Perugia, è di Mario Sechi, direttore de Il Tempo di Roma, il giornale che fu di Renato Angiolillo, che da sempre intepreta i sentimenti dei  moderati italiani, in primo luogo quelli di Roma che, prima al MSI, poi ad A.N., infine al PDL, hanno tributato vasti e convinti consensi. Nessuno meglio di Sechi, poteva, come ha fatto, svestire il discorso di Fini delle “belle parole” e indicarne gli oggettivi limiti, anzi la totale vuotezza politica, insieme al disperato ritorno ad un passato della politica, l’unico nel quale Fini riesce a nuotare. Ma questo è il primo, principale limite della svolta finiana, l’uomo che ha sbagliato sempre e dopo avera sbagliato pretende che a pagare siano gli altri,. Questa volta non solo e non tanto Berlusconi, ma l’intero Paese del quale in due ore di discorso Fini ha elencato i mali ma non ha indicato una terapia, anche perchè lui è uno dei medici che, ove tutti i mali elencati fossero veri, sarebbe il primo a dover salire sulla sedia degli imputati per rispondere quanto meno di omissione di soccorso. g.

Gianfranco Fini Gianfranco Fini vuole distruggere il berlusconismo, ma il suo discorso ieri è riuscito a ridargli vita e un senso. Anni fa scrissi che il berlusconismo come fenomeno sociale e politico era pre-esistente a Berlusconi, faceva (e fa) parte del carattere degli italiani. Lui è stato il leader che l’ha meglio interpretato. Il discorso di Fini invece immagina un popolo e un Paese forgiati e cresciuti da Berlusconi, il grande fabbricatore del golem italiano. Fatto fuori lui, il grande seduttore di Arcore, tutto cambia. È un errore di prospettiva storica e di analisi politica che Fini condivide con la sinistra. E questo spiega due fatti: 1. l’incapacità cronica del presidente della Camera di proporsi come successore ideale del Cavaliere; 2. l’inadeguatezza della sinistra a rappresentare un’alternativa di governo credibile.

Questo svarione storico continua a perpetuarsi e nel caso di Fini ad ampliarsi con conseguenze che vanno ben al di là della limitata immaginazione dei futuristi di nome ma non di fatto. Sedici anni al fianco di Berlusconi sono evaporati dalla memoria, ma presto i finiani si renderanno conto che il Paese da loro narrato non esiste; che l’elettorato berlusconiano è una realtà che prescinde dal Cavaliere; che la destra lib-lab è una contraddizione che non sta in piedi; che il conservatorismo è più vivo che mai; che l’Europa – lo spazio geopolitico di riferimento – va in una direzione opposta; che la storia sta frantumando inesorabilmente tutta la mitologia che abbiamo visto sbandierare a Perugia. I limiti culturali e politici di Fini e dei suoi personaggi in cerca d’autore sono emersi con una forza disarmante.

Dopo sedici anni di centrodestra berlusconiano, Fini ha abiurato completamente tutto ciò che è stato e ha rappresentato. È la certificazione del fatto che l’ex segretario del Movimento Sociale, l’erede di Giorgio Almirante, l’ex presidente di An, l’ex cofondatore del Pdl, è un contenitore vuoto in cui può entrare di tutto e si aziona come un juke-box. Non mi era mai capitato di ascoltare un discorso politico così lontano dalla biografia e dalla storia di chi lo pronunciava. Fini scende dal pianeta Marte, alza il sopracciglio e dipinge come un alieno piovuto dall’iperspazio il disastro di un’Italia che lui ha contribuito a creare. Stratosferico. Vederlo affermare il suo primato di uomo nuovo, di padre padrone di un altro centrodestra, di impeccabile rappresentante delle istituzioni, mi ha confermato tutto quel che penso di questa fase della storia italiana: è una tragica barzelletta.

Faccio questo mestiere da ventidue anni, seguo la politica fin da quando ero un ragazzino, ho mosso i primi passi da cronista mentre la Prima Repubblica tirava le cuoia sotto i colpi di una rivoluzione giudiziaria che dava fendenti a senso unico, ho visto nascere la Seconda, piena di speranze, e ora ho di fronte la sua agonia mentre l’idea di una Terza Repubblica non c’è e i presunti leader che si propongono per il futuro sono uomini che vengono dal passato e non brillano di luce propria.

Il discorso di Fini è stato un indietro tutta colossale, una demolizione perfino delle poche conquiste che gli italiani si sono presi sul campo di battaglia della politica. Se diventasse realtà quel che immagina il Presidente della Camera, il voto degli elettori sarebbe una formalità concessa con fastidio. Se andasse in porto questo putsch restauratore avremmo di fronte a noi uno scenario in cui la forza centrifuga della Lega sarebbe tale da spaccare il Paese in due, senza bisogno di fucili e rivoluzioni, basta e avanza il dito medio alzato di Bossi.

Tutta la retorica finiana è un pasticcio politico frutto di letture ben confuse, scarsa conoscenza del Paese reale e una disinvoltura istituzionale ben più grave dei “fatti di mutande” del Cavaliere. Quel che s’è visto ieri a Perugia è un deragliamento politico che in un altro Paese sarebbe tragico ma in Italia è solo ridicolo. Un presidente della Camera che dice al capo del governo di dimettersi e apre una crisi extraparlamentare, un manipolo di ministri che rimette il mandato nelle mani della terza carica dello Stato e non del capo del governo, fanno strame di qualsiasi principio del diritto costituzionale e parlamentare. E questi sarebbero quelli che hanno tuonato contro il “partito proprietario” e il “cesarismo” del Cavaliere. Fini non si è assunto fino in fondo le sue responsabilità politiche: se uno tuona contro il governo di cui fa parte, la logica vuole che sia lui ad aprire la crisi. Dica ai ministri di Futuro e Libertà di lasciare l’esecutivo, la poltrona e l’indennità di carica, faccia cadere Berlusconi in Aula e affronti il voto. Lasci perdere i penultimatum e il tono da statista di carta e si dia invece un po’ di coraggio. Il cerino che ha tentato anche ieri di passare nelle mani di Berlusconi in realtà si sta spegnendo tra le sue dita.

Con buona pace dei sognatori di governi tecnici, alla fine saranno gli elettori a decidere chi governa, a loro spetta il compito di decretare l’uscita di scena di Berlusconi. E saranno sempre loro a decidere chi sarà il capo del governo nel 2013. Fini se ne faccia una ragione, le autoincoronazioni funzionano in salotto, ma il voto è un’altra storia. Se ha buone idee da esporre sullo scaffale della politica, tiri giù la serranda del suo negozietto da baratto di Palazzo e vada sul mercato elettorale. Fini ha offerto a Berlusconi un’occasione unica, è rimasto in mezzo al guado ma è troppo avanti per tornare indietro. Il ponte levatoio s’è già alzato e nel fossato ci sono i coccodrilli. Da questo momento il Cav può giocare carte pesantissime, ma per essere di nuovo vincente deve rimettersi a fare politica e per cominciare dare al partito un volto e una sostanza che non siano quelli degli attuali coordinatori. Sono condizioni minime senza le quali non si gioca in attacco. Berlusconi tenga ben presente che il berlusconismo viene prima di lui e se è vero che non sceglierà mai e poi mai Fini è altrettanto vero che un outsider – come fu il Cavaliere nel 1994 – è sempre dietro la porta della Storia.

In politica la categoria amico/nemico coniata da Carl Schmitt – nonostante quel che ne pensano i parrucconi del regime del politicamente corretto – determina il successo o la sconfitta di un movimento politico. Il discorso di Fini ha restituito un senso al berlusconismo e allungato la vita a Silvio. Se fino a ieri al popolo che ha scelto di esser guidato per sedici anni dal Cavaliere mancava un nemico per assenza tecnica di avversari degni di nota, oggi quel blocco sociale se ne ritrova davanti agli occhi uno per il quale vale la pena andare di nuovo a votare. Mario Sechi, Direttore de Il Tempo, 8 novembre 2010