di Giancarlo Perna

Con la kermesse di Bastia Umbra sono emerse le caratteristiche di fondo di Futuro e libertà, il nuovo partito di Gianfranco Fini.
Innanzitutto, il culto per la poesia espresso con la lettura «artistica» del Manifesto del Fli da parte di Luca Barbareschi che si è pure commosso al suono della propria voce. Inoltre, una spiccata tendenza al plagio poetico da parte di Fini che per galvanizzare la platea non solo ha preso in prestito un brano di Antoine de Saint-Exupery, ma addirittura lo stesso brano già usato tre anni fa da Walter Veltroni nel discorso fondativo del Pd al Lingotto: «Se vuoi costruire una barca, non (…)
(…) radunare uomini per tagliare legna e non impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito».
Un’altra peculiarità è l’impostazione cesaristica del nuovo partito che fa impallidire il modello berlusconiano. Mentre Gianfry saliva sul palco, il fedelissimo, Adolfo Urso, ha urlato fuori di sé: «Il leader che l’Italia aspetta! Il presidente!». Ha poi dovuto aspettare due ore che Fini terminasse la sua arringa di dimensioni fidelcastriste prima di correre da lui e rimettere nelle sue mani il mandato di sottosegretario. Altrettanto hanno fatto, con eguale entusiasmo, gli altri componenti finiani del governo, Menia, Buonfiglio e Ronchi. «Basta una tua parola e noi ci dimettiamo», gli hanno detto piegando il capo e le ginocchia. Per cui, alla faccia della Costituzione, anziché vedersela loro col capo del governo di cui fanno parte sarà il ras del partito a decidere le sorti del gabinetto. Questa plateale sceneggiata di tipo medievale, con cui i valvassini si inchinano al dominio del principe, è inedita nella storia repubblicana. Come è senza precedenti che sia il presidente della Camera – potere neutrale per eccellenza – a tenere lui in mano il boccino sul futuro del governo. Di questo però parliamo dopo.
Altra tipicità del neopartito, già evidente in passato ma ingigantita a Bastia Umbra, è la petulanza con cui i pappagalletti finiani chiedono, a turno o in coro, le dimissioni di questo e di quello. Fini ha ingiunto al Cav di togliere il fastidio e di farlo alla svelta. Nei mesi scorsi, aveva fatto altrettanto con Verdini, Cosentino, Bertolaso. Fabio Granata ha chiesto le dimissioni di Sandro Bondi, ministro della Cultura, per il crollo del monumento pompeiano. In precedenza, aveva preteso l’allontanamento dal governo e dal Pdl di chiunque avesse ricevuto un avviso di garanzia. Carmelo Briguglio ha chiesto le dimissioni di tutti i finiani dal governo. Italo Bocchino, ripetendo le ingiunzioni già fatte dal capo, ha nuovamente invitato il Berlusca a uscire di scena, ferme restando le richieste di fare fagotto, già avanzate tra luglio e settembre, per Matteoli, Fitto, Bertolaso, Cosentino e altri malcapitati di cui si è perso il conto.
Ora, in questa orgia di ipotetiche cacciate, brilla per insuperata capacità di fare lo gnorri il solo che dovrebbe sparire per reale incompatibilità, ossia Fini. Ma lui, con straordinaria faccia di bronzo, continua a sedere sul seggio di presidente di Montecitorio che da mesi non gli spetta più. Per due precise ragioni. La prima è la decenza. Dopo la vicenda della casa di Montecarlo, Gianfry non ha più la statura morale per occupare una carica istituzionale. Oggi abbiamo un presidente della Camera che, tradendo la fiducia di una signora in punto di morte, ha lasciato incamerare al cognato un bene che gli era stato affidato a maggior gloria del partito. Un atto di destrezza come il gioco delle tre carte nei baracconi in fiera. È peggio di un reato perché viola i sentimenti e la civile convivenza. Come far sparire il portafoglio dato in custodia. Di fronte a questo gesto diventano veniali – ma non vanno dimenticate perché completano il quadro – le raccomandazioni in Rai per la suocera casalinga che si improvvisa produttrice tv. Il tutto appesantito dalla spocchia con cui Fini si intestardisce a non riconoscere la gravità della situazione in cui si è cacciato. Anzi, più sprofonda e più si riempie la bocca – lo ha fatto anche a Bastia – con appelli alla «legalità, al rispetto delle istituzioni, al senso dello Stato». O non capisce, e sarebbe grave, o ci prende per i fondelli. Questo getta su di lui – e sulle truppe che gli tengono bordone – una luce sinistra sull’apporto che insieme si accingono a dare alla già tanto scombiccherata politica. Ce n’è, comunque, quanto basta a ritenere Fini inidoneo al ruolo che ricopre.

A questa ragione etica se ne aggiunge, adesso che è diventato formalmente capo partito, una di ordine costituzionale. È inevitabile, a breve, una crisi di governo. Ci saranno le consultazioni al Quirinale. E allora, sentite a quale paradosso andremo incontro. Fini sarà ricevuto da Napolitano una prima volta come presidente della Camera. Ci andrà in pompa magna con la limousine e la scorta dovuti al rango. Nel colloquio dovrebbe esprimere il suo punto di vista volando alto come si conviene a un’autorità super partes. Diamo però per scontato che non lo faccia e che – visto il tipo – tiri l’acqua al suo mulino a piene mani. Si alza e se ne va, ma torna qualche ora dopo in veste di neo capo del Fli. Non come tutti gli altri, con l’auto di partito, ma con la solita limousine tirata a lucido di Montecitorio. Napolitano, rosso in viso per la vergogna di dovere stare al gioco, ascolta per la seconda volta lo stesso discorso di qualche ora prima. Un’insopportabile manfrina che calpesta ogni regola, dalla Costituzione alla logica. Umilia la Camera e il Quirinale. Fa di Fini un privilegiato figlio dell’oca bianca che – a differenza degli altri capi partito – può raddoppiare la sua interferenza nella soluzione della crisi martellando allo sfinimento il povero Napolitano con le sue rabbie e i suoi rancori. Questo avremo se non si dimette: uno spudorato Fregoli che recita tutte le parti in commedia. Con buona pace delle virtù repubblicane di cui straparla con la stessa improntitudine dell’evasore che inneggia alle tasse.