LE CARTE DI BERLUSCONI, l’editoriale di Mario Sechi
Pubblicato il 16 novembre, 2010 in Politica | Nessun commento »
Dopo le dimissioni dei finiani dal governo la crisi entra in una dimensione diversa. L’uscita dei ministri telecomandati da Fini aziona l’orologio costituzionale, cioè il complesso di regole che servono per giocare una partita che s’annuncia pesante. Proprio queste regole saranno l’arma migliore nelle mani di Silvio Berlusconi.
I finiani si sono dimessi dal governo e c’è una sola parola per commentare la loro decisione: finalmente. Perché da questo momento la crisi entra in una dimensione diversa da quella del logoramento futurista. L’uscita dei ministri telecomandati da Fini aziona l’orologio costituzionale, cioè il complesso di regole che servono per giocare una partita che s’annuncia pesante. Ebbene, proprio queste regole, se utilizzate con saggezza politica, saranno l’arma migliore nelle mani di Silvio Berlusconi. Dal vertice con Bossi è uscita la decisione logica: nessuna crisi pilotata. Non serve. Perché il presidente del Consiglio è ancora il capo del governo e ha una serie di prerogative parlamentari che nessuno può contestare. Quando Berlusconi chiede di andare a riferire prima al Senato, per esempio, non fa alcun colpo di mano, ma si serve di una prassi più che consolidata. Quando il presidente del Consiglio prepara d’accordo con i gruppi parlamentari di Palazzo Madama e Montecitorio una mozione di sostegno al suo governo, occupa uno spazio politico legittimo che impegna tutti a un’assunzione di responsabilità. Quando il premier sostiene l’idea dello scioglimento della sola Camera, non stravolge nessuna regola costituzionale, ma anzi si richiama al dettato della Carta Fondamentale, a un caso previsto e non a una forzatura del diritto. Questi esempi ci suggeriscono uno scenario in cui le regole possono diventare strumento di machiavellica precisione e sono nella disponibilità del Cavaliere. In una crisi finora senza regole, tenuta scientemente fuori dal Parlamento, esser tornati dentro la Costituzione, per Berlusconi è un vantaggio e per i suoi avversari fonte di paura, grande paura. E ora vi spiego perché. La fuga dei ministri di Fini dall’esecutivo dà a Berlusconi una serie di opzioni politiche. La prima, macroscopica, è che il cerino si è già spento tra le dita del Presidente della Camera. È lui che fin da questo momento si assume la responsabilità formale e sostanziale dell’apertura della crisi di governo. Nel presente parossistico di chi vuol vedere il Cavaliere disarcionato a tutti i costi questo può sembrare un particolare insignificante, ma quando sarà finita la rumba, in un futuro molto prossimo, il significato profondo di questa decisione verrà a galla e il suo impatto con l’opinione pubblica (che poi si trasforma in corpo elettorale) sarà determinante nella scelta di chi vota. Ma andiamo avanti e vediamo che cosa sta accadendo.
Manovra e finiani. Berlusconi è a capo di un governo che ha una maggioranza certa per l’approvazione della manovra economica. I finiani, già usciti dall’esecutivo e ormai iscritti nella fazione antiberlusconiana, voteranno un provvedimento di politica economica che porta la firma del ministro dell’Economia e del presidente del Consiglio, un complesso di norme che incide profondamente sulla vita dello Stato. Siamo in presenza di una contraddizione rumorosa, un comportamento double face da parte dei finiani.
Presidente double face. Oggi insieme al presidente del Senato Renato Schifani, Fini salirà al Quirinale per parlare della crisi con il presidente della Repubblica. Di fronte a Napolitano si presenterà l’inedita figura del presidente della Camera, terza carica dello Stato, e del capo e proprietario del movimento politico che ha innescato la crisi che si dovrebbe risolvere. Ancora una volta, una contraddizione rumorosa e un abito double face.
Mozioni e veti incrociati. Il presidente del Consiglio ha in mano il pallottoliere e sta facendo i conti sulla fiducia al Senato e alla Camera. A Palazzo Madama ha buonissime possibilità di avere il semaforo verde, a Montecitorio la situazione è magmatica. In teoria Futuro e libertà può far cadere il governo, ma per riuscirci deve convincere l’opposizione a votare la sua mozione. Andrà così? Lo vedremo, ma su questo punto val la pena di soffermarsi ancora. Il finiano Adolfo Urso ieri ha escluso che il gruppo di Fli possa votare le mozioni di sfiducia di Italia dei Valori e Pd. Dunque, i finiani non hanno intenzione di votare con la sinistra. Se così è, Idv e Pd possono fare lo stesso ragionamento e riservare lo stesso trattamento alla mozione dei finiani. Risultato: alla Camera nessuno avrebbe i numeri per sfiduciare Berlusconi. Un sistema di veti incrociati cristallizzerebbe la situazione attuale, dando al governo del Cavaliere il gerovital.
La paura del voto. Sono giochi tattici che, al di là dell’epilogo in aula, mettono in luce una grande verità: il timore del voto da parte dei partiti è enorme. Berlusconi è indebolito, controlla il Senato e sembra spacciato alla Camera, ma in realtà non è finito e se sente l’odore delle urne entra nella fase del risveglio del drago. Questo è il punto chiave di tutta la vicenda in corso. Se il Cav incassa la fiducia al Senato, può uscire anche malconcio dal voto della Camera, ma conserva una carta pesantissima nel dibattito istituzionale. Può non solo chiedere lo scioglimento del ramo di Montecitorio, ma trattare con gli altri soggetti istituzionali le condizioni per un altro governo o chiedere le elezioni anticipate. Queste ultime sono più vicine di quanto traspaia dalle parole degli esponenti del Comitato Nazionale di Liberazione da Silvio. Tutti hanno capito che non sono tempi in cui le forzature istituzionali passano inosservate. Pensare a uno scenario simile al ribaltone del 1994 nel 2010 non è possibile. Sono trascorsi sedici anni e non invano. Nel frattempo il cittadino ha metabolizzato un paio di cose importanti: sceglie la merce politica in un supermarket bipolare, ha sperimentato l’alternanza (Berlusconi è stato sconfitto due volte, ma l’opposizione lo dimentica), vota leggendo il nome del candidato premier sulla scheda elettorale, conosce e riconosce le leadership e non i partiti che si sono dissolti dopo il 1992. Sono dati di fatto reali, materiali, dei quali non si può non tener conto quando si dipinge lo scenario di una crisi di governo e si fanno ipotesi per il domani. Le facciamo noi, umili cronisti, e mi auguro che gli stessi temi siano sull’agenda dei politici e delle istituzioni. Chiunque pensa di poter fare a meno di questi elementi, vive in un altro mondo (finito) e pensa di poter condurre la partita con il solo gioco di Palazzo. Il problema è che i finiani hanno messo in moto un meccanismo che è sfuggito loro di mano. Il treno del futuro va sui binari in piena libertà e nessuno può più tirare il freno d’emergenza. Non Fini, che vuole vedere Silvio con il morale sotto i tacchi e il governo a pezzi, non l’ala dei falchi finiani e non il gruppetto di colombe che subisce l’imposizione di una linea torquemadiana che allontana Fli dalla destra e la schiaccia verso i dipietristi. Chi sembra aver capito come stanno le cose è Pier Ferdinando Casini, postdemocristiano di lungo corso: ha capito che non gli conviene portare acqua al mulino del suo prossimo avversario (Fini) e per questo è il meno appassionato di tutti al crash del Cavaliere. Dice Casini: «Prima di dire che Berlusconi è finito consiglio molta cautela». Sottoscriviamo. E saranno casini.