IL VERO SAVIANO? ECCO DUE ARTICOLI CHE LO RACCONTANO, SPOGLIANDOLO DALL’AUREOLA DI UN EROISMO DI FACCIATA
Pubblicato il 18 novembre, 2010 in Costume, Cronaca | Nessun commento »
1- FENOMENOLOGIA SFIGATA DI SAN SAVIANO
Gian Marco Chiocci e Pier Francesco Borgia per “Il Giornale“
Se il buongiorno si vede dal mattino, ieri Roberto Saviano non vedeva l’ora di andare a dormire. Per l’imbarazzo. Perché lo schiaffo ricevuto a metà pomeriggio dal ministro Maroni è di quelli che stordiscono i più accecati detrattori del governo Berlusconi, a cominciare dallo scrittore di Gomorra che in tv ha catechizzato gli ascoltatori sulla connection fra la Lega e le ‘ndrine del nord.
Schiaffo bissato da un ceffone ancor più doloroso se si pensa che ad arrestare il boss Antonio Iovine, ci ha pensato l’ufficio guidato da un poliziotto coraggioso nella lotta al crimine quanto impreparato a difendersi dall’accusa di«lesa maestà»: parliamo del capo della Squadra Mobile di Napoli, Vittorio Pisani, che per aver osato dubitare sull’urgenza di una maxi scorta allo scrittore, è stato crocifisso dai fan dello scrittore casertano, già sgomenti per l’archiviazione dell’inchiesta sul fantomatico attentato natalizio sbandierato a mezzo stampa anche se mai pensato dalle cosche:
Fazio Benigni e Saviano a Vieni via con me
«Dopo gli accertamenti sulle minacce che Saviano asseriva aver ricevuto – confessò lo sbirro impenitente di cui Repubblica chiese l’allontanamento – demmo parere negativo sull’assegnazione della scorta. Resto perplesso quando vedo scortare persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni».
Il castello di carta può non scricchiolare ma basta un debole alito per farlo crollare. Mettere insieme pezzi disordinati di inchieste (giornalistiche o giudiziarie poco importa), condirli con retorica deamicisiana e azzardare teoremi suggestivi, è una ricetta vincente per un gourmet della cattiva informazione. Partiamo dall’origine, da “Gomorra”.
Roberto Maroni, ministro dell’Interno
Nessun politico è promosso, tranne uno: Lorenzo Diana, già parlamentare Ds, membro nella commissione antimafia, ora dipietrista convinto. Eppure secondo alcuni suoi lontani trascorsi ripresi in interpellanze parlamentari (che a politici come Cosentino non sarebbero perdonati) vien fuori che alla fine degli anni Settanta, Diana era in giunta a San Cipriano d’Aversa con Ernesto Bardellino (fratello del superboss Antonio) e Franco Diana (arrestato e ucciso in cella per un regolamento di conti).
Niente di grave, per carità. Ma se in una giunta simile ci fosse stato Cosentino? La risposta è scontata. Saviano, per dire, non ha perdonato all’ex sottosegretario nemmeno certe scomode parentele che nelle piccole comunità sono la regola: «Un fratello di Cosentino è sposato con la sorella di Giuseppe Russo, detto Peppe il Padrino, esponente dei casalesi e della famiglia Schiavone!» E poco importa che anche don Diana, il sacerdote ucciso dalla camorra e che Saviano celebra ogni volta che può, avesse parentele scomode come quelle di Cosentino: «Il parroco era mio parente da parte di papà – racconta a verbale Carmine Schiavone, killer pentito – mentre la sorella Maria ha sposato Zara Antonio, figlio di Schiavone Maria e di Schiavone Vincenzo».
E importa ancora meno che il prete, sempre a detta del collaborante, si fidasse del futuro sottosegretario all’Economia tanto da non far mistero di votare per lui. Quello che vale per gli altri, insomma, non vale per sé. Saviano non ha il copyright dell’anticamorra in “Terra di Lavoro”, non è l’unico cronista a battersi per la verità scomoda ai clan. Dei dodici colleghieroi senza scorta e senza ribalta, a cui i casalesi hanno bruciato l’auto, sparato a casa, recapitato resti di animale in redazione, Saviano non parla. Trova piuttosto il tempo di attaccare quei quotidiani locali per certi titoli a effetto che lo scrittore esula dal contesto (un verbale, una testimonianza) e definisce infami.
Non ha mai parlato delle rivelazioni che il Giornale mandò in stampa il 18 marzo 2009 dal titolo: «Così Saviano ha copiato Gomorra». Interi brani ripresi, senza citarli, da «corrispondenze di guerra» di cronisti con l’elmetto da sempre. Nulla da dire nemmeno sulla citazione per danni da mezzo milione di euro di Simone Di Meo, segugio di Cronache di Napoli che solo dopo aver ottenuto la correzione e la citazione della fonte (il suo nome) a partire dall’undicesima ristampa di Gomorra , ha deciso di soprassedere. Nessuna citazione per le numerose disgrazie del centrosinistra nel regno del nemico «Sandokan».
Un esempio, decine di esempi. La giunta dell’ex presidente della provincia di Caserta, Sandro De Franciscis, è finita nei guai per i lavori affidati a ditte del boss stragista Giuseppe Setola e lo stesso ex presidente è stato intercettato mentre parlava di protezioni della «camorra di Casale».
Nessuno sputtanamento mediatico sul modello di quelli riservati ai big del centro-destra. È ovvio che poi Saviano non può pretendere di passare, a prescindere, per «credibile». È scontato che poi gli invidiosi ironizzino sulle improbabili confidenze liceali con Pietro Taricone nonostante i quattro anni di differenza. Ed è normale che il destino si accanisca anche a commento del suo annuncio di darsi alla boxe come Pietro Aurino («il mio mito»), purtroppo per Saviano arrestato perché picchiava chi non pagava il pizzo. La verità, insomma, è più prosaica di un’informazione «spettacolare».
2- LA TV TRIBUNIZIA – SAVIANO E L’EUTANASIA: E IL CAMPIONE DI LEGALITÀ ELOGIÒ LA NON-LEGGE
Domenico Delle Foglie per “Avvenire”
Sappiamo bene che criticare un “mostro sacro” è una partita a perdere, ma si potrà pure dissentire con Roberto Saviano senza passare per camorristi, fascisti o disfattisti. Se un intellettuale, nel caso uno scrittore coraggioso, vuole vestire i panni del maître à penser televisivo, del faro che illumina le coscienze, sa di dover fare i conti non solo con il mezzo, ma anche con i telespettatori. Milioni di persone diverse, ognuna con una sensibilità propria eppure tutte con un mondo di valori di riferimento dall’inevitabile base comune: la vita e la morte non tollerano giochi di parole ed esercizi concettuali spericolati e irrispettosi.
E qui ci permettiamo di inserire il rammarico: argomentare contro le mafie di ogni colore è un grande merito civile che unisce il Paese, tirare conclusioni politiche è un esercizio di libertà (e chi lo compie dovrebbe sapere di poter essere chiamato a renderne conto), ma schierarsi a favore del suicidio assistito e dell’eutanasia è un azzardo che come minimo squassa le coscienze e divide il popolo.
Noi sappiamo solo in parte – per quel po’ che ci hanno fatto sapere – che cosa hanno pensato e patito le migliaia di donne e uomini in carne e ossa che tutti i giorni accudiscono in famiglia un malato terminale o un grave disabile senza risparmio di energie, sentimenti e risorse finanziarie, nel sentirsi dire con la forza della parola televisiva che quella vita lì, proprio quella, non è degna di essere vissuta.
Lunedì sera, a “Vieni via con me”, è andata in scena una pagina sconcertante di quella «dittatura dei sentimenti» che sembra ormai voler legittimare ogni tragitto individuale e anche ogni scelta estrema, fuori da un contesto comunitario, al di là del sentire comune, persino oltre i confini della razionalità umana.
Ragione umana che viene invocata per opporsi alle mafie, ma non viene messa in campo se è in gioco la vita di un essere umano nella condizione di massima fragilità. Saviano, con la sua performance, si è reso colpevole del più grave degli addebiti che si possano avanzare nei confronti di un cultore della laicità: ha eliminato con un tratto di penna la cultura del dubbio. Secoli di severa laicità, di continuo sbattuta in faccia ai credenti, bruciati in pochi minuti. Così Saviano ha mostrato all’improvviso il volto del moderno giacobino che oscura la ragione: «Quella di Piergiorgio Welby non era più vita».
MARCO TARQUINIO, direttore di Avvenire
Ecco, questo nostro tempo è pieno di tradimenti della ragione e ci dispiace scoprire che l’ implacabile accusatore dei più feroci camorristi non si faccia scrupolo nel liquidare ferocemente una vita, nascondendosi dietro l’idolo assoluto della libertà senza vincoli di solidarietà. Sino al punto di suggerire a tanti altri, uomini e donne, di seguire la strada che porta al darsi e al dare la morte.
Lo rimbeccano i dati di realtà, che tradiscono meno degli intellettuali: dopo i drammi di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby, abbiamo assistito a un solo caso di suicidio assistito, con una donna italiana accompagnata a morte in Olanda. Eppure ci è toccato ascoltare, dalla voce di Saviano, la “certificazione” (già tentata in tv da altri) che negli ospedali italiani, con una manciata di euro, è possibile effettuare un’eutanasia.
Lui che è un professionista della legalità (e non è il solo) perché non fa denuncia alla magistratura? Forse condivide questa scorciatoia, e tacita la coscienza? Come può chiedere ai taglieggiati di ribellarsi alle mafie se spinge, lui, a calpestare la legge dello Stato che non consente eutanasia né suicidio assistito e persegue chi li favorisce con il reato di omicidio del consenziente? Ci sono leggi che secondo il maestro Saviano, e con lui Fazio, il campione dei sornioni, si possono violare senza pagare dazio? Che differenza c’è fra loro e quanti cercano leggi “ad personam”, o giustificano chi non si sottomette alla legge?
La coscienza, Saviano pretende a suo modo di insegnarlo, è un tempio interiore da salvaguardare. Ma lo è sempre, sia dinanzi alla mano omicida del camorrista sia dinanzi a quella che si erge, presuntuosa e autoritaria, ad affamare e assetare l’inerme. Uno come noi e come lui. O no?
I DUE ARTICOLI SONO STATI RIPRESI DA DAGOSPIA