IL CORTOCIRCUITO DELLA GIUSTIZIA, l’editoriale di Mario Sechi
Pubblicato il 20 novembre, 2010 in Politica | Nessun commento »
Nel pieno di una crisi della maggioranza surreale, mentre Silvio Berlusconi recupera le tessere del puzzle del governo, ecco riprendere il distillato di rivelazioni e boatos che raccontano al popolo il Cavaliere oscuro, l’uomo impegnato in trame e traffici degni di un gangster.
Ci risiamo. Il cortocircuito mai riparato tra politica e giustizia continua a provocare scintille. Nel pieno di una crisi della maggioranza surreale, mentre Silvio Berlusconi recupera le tessere del puzzle del governo, ecco riprendere il distillato di rivelazioni e boatos che raccontano al popolo il Cavaliere oscuro, l’uomo impegnato in trame e traffici degni di un gangster. Niente di nuovo sotto il sole, diranno i lettori che da sedici anni leggono le pagine della politica. Eppure, cari amici, in questo dejà vu risiede la ragione dell’incapacità del Paese di passare dalla transizione alla stabilità, dall’emergenza continua al governo della contemporaneità. La procura di Palermo deposita le motivazioni della condanna di Marcello Dell’Utri e la notizia sulla quale si punta l’attenzione degli speculatori politici è la seguente: secondo i magistrati palermitani il senatore Dell’Utri mediò tra i boss della mafia e Berlusconi e, in particolare, il mafioso Vittorio Mangano fu assunto come «stalliere» nella villa di Arcore per garantire l’incolumità di Berlusconi. Dalle mie parti questo significa che il Cavaliere era una vittima. Ma andiamo avanti, perché la vera notizia contenuta nelle motivazioni è un’altra: i magistrati scrivono che non c’è lo straccio di una prova certa «né concretamente apprezzabile» che tra Dell’Utri e Cosa nostra sia stato stipulato un «patto» politico-mafioso. Conseguenza: tutto il castello di carta costruito su Forza Italia come frutto mostruoso della mafia crolla miseramente. Casca l’unico vero interesse che la mafia poteva avere con Berlusconi: il controllo del potere politico, il famigerato «terzo livello» sul quale in questi anni s’è fatta un sacco di letteratura e poca sostanza investigativa.
Le motivazioni della sentenza Dell’Utri sono solo l’ennesimo petardone messo sulla strada del Cavaliere. Saranno utilizzate per premere l’acceleratore della sfiducia, pressare qualche parlamentare dubbioso sul voto, cercare di portare acqua al mulino della corrente finiana e degli improvvisati alleati che non vedono l’ora di liberarsi di Berlusconi e procedere con la restaurazione di un regime partitocratico senza più i partiti, cioè il peggio del peggio, il dominio di un’oligarchia non riequilibrata dal corpo e dallo spirito di quelle organizzazioni, i partiti, che comunque avevano costruito la nostra democrazia.
Pensare di tornare al passato senza questo contrappeso, smontando l’attuale architettura istituzionale e elevando a dignità politica la strategia delle «mani libere» è un progetto pericoloso. Mira a spogliare i cittadini dell’unico strumento che hanno per dire la loro sul Paese e chi governa: il voto. Significa chiedere una delega in bianco, totale e irresponsabile, per poi utilizzarla per giochi di potere e interesse che non hanno niente a che fare con l’agenda della nazione. Il processo Dell’Utri non è ancora giunto al terzo grado, quello della Cassazione, ma tutta questa vicenda s’è svolta con il senatore costretto nel ruolo del presunto colpevole e il Cavaliere nella parte del grande burattinaio che tutto vede, tutto sa e a tutto provvede. In questi anni certe procure hanno costruito un romanzo nero sul Cav davvero incredibile, al punto da ipotizzare per lui il ruolo di stragista. Tutte le accuse sono finite nel cassetto dei flop investigativi, sono stati spesi in questi anni milioni di euro in una folle corsa a incastrare Silvio ad ogni costo. Risultato: queste inchieste hanno rafforzato nell’immaginario collettivo l’idea di un Berlusconi perseguitato da una fazione giustizialista. La forza del leader del centrodestra italiano in questi anni è stata quella di resistere agli assalti, difendersi come poteva (anche attraverso la legislazione) e cercare di andare avanti. Ogni volta che la sua fine sembrava certa, inesorabile, senza appello, Berlusconi ha ritrovato la sua fonte di legittimazione nel voto popolare. Non so se sarà così anche stavolta, ma ho la netta impressione che lo scenario che vanno disegnando gli sfascisti continui a non tener conto di questo fattore, il voto, e preveda una soluzione extrapolitica, un intervento esterno – e dunque «violento» rispetto al quadro di regole della politica – per mandare al tappeto Berlusconi una volta per tutte. Il tallone d’Achille di questa strategia della demolizione di un uomo e di un blocco sociale che l’ha scelto come guida del governo sta tutto nella sua inconsapevolezza e incoscienza della situazione reale del Paese. L’Italia non è la nazione delle minoranze rumorose, ma quello delle maggioranze silenziose. Sono queste ultime ad aver sempre riportato la barra del Paese nella direzione giusta. Basta voltare lo sguardo indietro, ripassare qualche pagina della nostra storia per rendersene conto. Il partito degli sfasciti sembra voler ignorare tutto questo vissuto collettivo. E va avanti in un progetto che potrebbe risultare letale non tanto per Berlusconi quanto per l’intero Paese. Proprio ieri, mi è capitato di incontrare due persone in un aeroporto, due conoscenti che credo si possano definire «intellettuali». Ho stretto loro la mano e in un nanosecondo hanno cercato di fulminarmi con una domanda accompagnata da un ghigno: «E adesso con Berlusconi così come fate?». Come fate? I due intelligentoni avevano già edificato nella loro mente il castello che brucia, le folle urlanti e plaudenti, magari le espulsioni di massa dei pericolosi berlusconiani e la restaurazione di uno scicchissimo regime dei migliori e dei predestinati al potere. Ho risposto con disarmante semplicità: decideranno gli elettori. E ho visto un fuoco di paura nei loro occhi. No, non lo voteranno è stata la prima risposta. Ho snocciolato i dati dei sondaggi. E il fuoco nell’iride è diventato un’apocalisse. A quel punto, più all’articolazione della parola s’è sostituito un rumore sordo, sinistro e profondo, una voce dal sen fuggita ha esclamato: «Ah, ma scriveranno la sentenza!». La sentenza. Non il primato della politica, ma quello della spada giudiziaria. Non il voto dell’elettore, ma le manette e i processi, meglio se sommari. Un putsch giudiziario al posto della libera volontà dell’elettore. Questo è il sogno lugubre, la visione nera, il maleficio che ha pietrificato l’Italia. Mario Sechi, Il Tempo, 20 novembre 2010