IL FOTOROMANZO ITALIANO, l’editoriale di Mario Sechi
Pubblicato il 22 novembre, 2010 in Politica | Nessun commento »
Un signore dal nome lungo e altisonante, Luca Cordero di Montezemolo, dopo aver negato di voler entrare in politica ieri ha parlato della situazione italiana come un politico: «È un cinepanettone che sta arrivando alla fine anche se abbiamo sempre gli stessi attori, anche se cambiano i nomi dei partiti. Dobbiamo stimolare la società ad occuparsi dei problemi dell’Italia, aiutare i giovani a venire fuori». Ah, quale rivelazione. Eravamo in trepidante attesa di questa analisi. Luca ci ha fatto la grazia di svelarci cosa accade. Bene. E dopo? Niente. L’establishment di questo Paese da sempre chiacchiera molto sul Palazzo ma al dunque, cioè quando c’è da mettersi in prima fila e darsi da fare, si dilegua. La metafora di Montezemolo sul «cinepanettone» ci dà lo spunto per riprendere un tema caro a noi de Il Tempo. La narrazione del tipo antropologicamente superiore, quello che ha ragione a prescindere, colui che dell’Italietta «brun brun» se ne infischia perché è un predestinato. Non si sa bene a che cosa, ma certamente lo è.
Ripartiamo dunque dal «cinepanettone», metafora colta usata da Luca Cordero di Montezemolo per descrivere ciò che accade nel Palazzo. Prima considerazione: il genere cinematografico evocato da Ldcm è il campione d’incassi indiscusso in Italia. Questo per chi fa politica – o aspira a farla – non dovrebbe essere un dettaglio. Se nello spettacolo vince chi sbanca il botteghino, tra i partitanti se la gode chi ha più voti. Evocare il cinema considerato dalla critica colta di «serie b» rivela il vizietto della classe dirigente di credersi sempre più intelligente di chi vota e decide chi si afferma. Nel biz-show come in politica. Elevarsi non significa guardare tutti dall’alto in basso, ma cercare di essere «aristocratici» e nello stesso tempo pop. Non è facile e infatti un grande scrittore come Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura con il capolavoro «Massa e potere» (lettura indispensbile per affrontare la contemporaneità) cercava di capire il mondo trascorrendo le sue serate nelle stamberghe di Vienna. Non mi pare sia il programma dei radical chic di casa nostra. E per questo perderanno ancora. Quel che si muove nel Palazzo – proiezione del Paese – è in realtà intrigante. Stiamo assistendo alle prove tecniche di post-berlusconismo. Il problema è che chi fa i provini ha dimenticato che Berlusconi è ancora in campo e stando ai sondaggi ha molte frecce al suo arco.
Il Cavaliere non è insostituibile, solo che non è ancora giunto il momento della passeggiata ai giardinetti. Tutto qui. La giornata di ieri lascia sul taccuino un fatto vero: Pier Ferdinando Casini ha spiegato che si può apparecchiare un tavolo per parlare con Berlusconi e un ingresso dell’Udc nel governo non è più un tabù. Ha posto delle condizioni, ne discuteranno. Ciò che davvero conta è che Casini ha lanciato non tanto la sfida al Cavaliere, ma ha aperto il vero duello del futuro: quello tra lui e Fini. Con questa mossa Pier si è messo in testa al gruppone che segue la scia del Cavaliere. Ha fatto bene e provo a spiegare perché. Casini nel 2008 ha deciso di correre da solo alle elezioni politiche e invece di fare come Fini – bollare come le «comiche finali» la nascista del Pdl salvo poi cofondarlo – ha scelto di mantenere in vita il suo partito. Da solo non ha mai fatto sfracelli, ma la sua truppa di deputati e senatori gli ha consentito di porsi nella condizione di interlocutore.
Fini, al contrario, non solo è entrato nel Pdl, ma ne è uscito nel peggiore dei modi: prima dando vita a una minoranza dissidente su tutto, poi provocando una scissione studiata a tavolino. Fini aveva premedidato la mossa, ma non ha tenuto in conto la categoria del «tradimento» – esiste, anche in politica – e il fenomeno del berlusconismo che è pre-esistente a Berlusconi. Casini invece queste cose le ha sempre sapute e sulla base di questi due elementi ha fatto le sue scelte. Qualcuno potrebbe obiettare: anche lui ha lasciato il Cav e si è opposto al governo. Sicuro, ma il suo elettorato rimane sempre ancorato al filone culturale cattolico che ha dato vita al centrodestra italiano. Casini non ha mai sbandato a sinistra, ma come ogni post-democristiano che si rispetti ha trattato con la sinistra. Cosa ben diversa dall’abbracciare ideali lontani dalla propria biografia e storia collettiva, come ha fatto Gianfranco. Casini sta preparando il pacco a Fini. Vedremo presto se il leader di Fli resta a terra con Casini che gli fa marameo. In realtà non siamo di fronte a un «cinepanettone» di conio montezemoliano, ma a un appassionante «fotoromanzo italiano».
Le immagini sono un po’ ingiallite per tutti, i testi restano quelli elementari ed ingenui di Grand Hotel, ma questo tipo di narrazione è più vicino al sentimento popolare di quanto immaginino i parrucconi in terrazza. Scendano in strada e proveranno con mano quanto scrivo. Prendete la lite a borsettate tra Mara Carfagna e Alessandra Mussolini. É l’apoteosi del pop, è una dimensione terrena nella quale l’insulto e la critica sono riconoscibili per tutti. Sono uno scatto memorabile del fotoromanzo collettivo e chi lo guarda con disprezzo senza volerne comprendere il senso e il controsenso non ha capito niente di questo Paese e non si rende conto che in quelle pagine ci siamo tutti noi, gli italiani. Mario Sechi, Il Tempo,22/11/2010