Ieri Roma e non solo, è stata teatro delle prove generali dello scontro per lo scontro. La scusa è stata la riforma dell’Università, predisposta dal ministro Gelmini, approdata alla Camera dopo innumerevoli e superati ostacoli legislativi, giunta infine alla volata finale. Sul fil di lana, ecco che uno sparuto nucleo di contestatori è sceso in piazza, anzi, è salito sui tetti,  per impedire con la forza che si giunga al voto finale. Non entriamo nel merito del disegno di legge, che chiunque può valutare per proprio conto ma una cosa ci sentiamo in obbligo di dire e cioè che gli unici che dovrebbero scendere in campo sono i baroni universitari, quelli che da sempre hanno trasformato gli Atenei in “cosa loro”, obbligando tutti, in primis gli studenti, a subirne le decisioni. La riforma Gelmini mette la parola fine a questo andazzo e a riconoscerlo sono anche illustri docenti universitari, conclamatamente di sinistra, che hanno dato non solo il loro assenso ma anche il loro qualificato contributo alla definizione della legge. Eppure, è proprio la sinistra a cavalcare la  ingiustificata protesta degli studenti, il che fa supporre che non è la legge in sè che non va, quanto il fatto che a vararla sia il Govenro Berlusconi e il suo corazzato benchè minuto Ministro dell’Univerrsità. E così a “far visita” sui tetti della Facoltà di Architettura di Roma sono andati nell’ordine: Bersani, Di Pietro e Vendola,  tutti e tre faticosamente issatisi fin lassù per dare man forte e solidarietà agli autori di una inqualificabile violazione  all’interno del Senato, di una ancor più inqualificabile violenza ai danni  di funzionari dello Stato, uno dei quali costretto a ricorrere alle cure ospedaliere, e di una ancor più squallida agressione ai danni dei carabinieri e della polizia di Stato. Episodi questi ultimi che si sono ripetuti questa mattina, mentre quelli che si dicono preoccupati del Paese, e della sua immagine, invece di prendere le distanze da queste prove tecniche di insurrezione, nello stesso Parlamento, come ha fatto il segretario del PD, Bersani, si è esibito in una specie di ricatto contro il Governo, che in  verità ha mostrato tutti i limiti di un personaggio politico che aspira a fare il premier e si è mostrato mentre tenta di accattivarsi qualche giovinotto che forse più che della riforma ha paura degli esami universitari, quelli seri e non quelli del 18 garantito, come ai tempi, ormai lontani e irriproducibili del ‘68. Come sono lontanti e irriproducibili i tempi, anch’essi lontani, di Genova ‘60, quando per far cadere un governo, il Governo Tambroni, che aveva l’appoggio esterno del MSI di Arturo Michelini, la  città fu messa a ferro e fuoco dai portuali comunisti agli ordini del PCI, allora come sempre, alternativo agli interessi del Paese. Il PCI non voleva che il Paese,  che viveva allora una straordinaria e felicissima età dell’oro, il  cosiddetto boom  economico, che mai più si sarebbe ripetuto nei decenni successivi,  fosse governato da un Governo di centro che per la prima volta, dopo la guerra, rilegittimava una parte politica sino ad allora esclusa, cioè la Destra. E così scese in piazza, con la copertura complice di quella parte della DC che già allora inciuciava con la sinistra, per costringere Tambroni e la Dc “centrista che guardava  a destra” , a capitolare. E così fu. La Dc di Tambroni capitolò e da allora iniziò la scivolata a sinistra che doveva portare alle convergenze parallele, al centrosinistra, al compromesso storico, giù, giù, sino  alla miserabile fine del partito dei cattolici, sotto le macerie di tangentopoli. Doveva arrivare Berlusconi perchè la marcia del PCI verso il potere, iniziata in quel caldo luglio del 1960 a Genova, fosse bloccata e da allora segni il passo, nonstante  abbia divorato la parte sinistra della DC. Ora gli ex pci, trasformatisi in “democratici” ci riprovano, grazie anche alla inaspettata svolta finiana e ci riprovano con il solo strumento che conoscono, la violenza delle piazze, sotto le quali tenteranno di costringere il Governo Berlusconi a ritirarsi. Come accadde a Genova. Ma non siamo più a Genova. Non siamo più nel 1960. Gli italiani pavidi e rinunciatari che 50 anni fa voltarono la testa dall’altra parte rifiutandosi di capire che a Genova non si calpestavano soltanto i diritti di un partito ma si violentavano la legge e le regole, oggi non sono più disposti a subire senza reagire i tentativi di sovvertire l’ordine dello Stato usando la violenza di piazza, ieri dei portuali (i quali ormai votano a destra e per Berlusconi), oggi quella di pseudo studenti che non hanno voglia di studiare. I tempi sono diversi e la democrazia italiana ha sufficienti ed efficaci  anticopri per mandare all’aria i piani del nuovo soviet. g.