La crisi di governo tanto reclamata da Fini e dalle opposizioni è marcita prima ancora di aprirsi, se mai si aprirà davvero dopo le votazioni di fiducia in programma martedì prossimo in Parlamento. Essa è marcita nelle mani del presidente della Camera un po’ per i tempi lunghi imposti da Napolitano a tutela della legge di bilancio, della cui “inderogabilità” Fini si era dimenticato chiedendo il 7 novembre le dimissioni del presidente del Consiglio, e un po’ per l’ostinata resistenza opposta da Berlusconi a minacce e lusinghe. L’ultima delle quali è stata «il reincarico entro 72 ore» che il presidente della Camera ha fatto offrire al Cavaliere dallo sprovvedutissimo Bocchino in cambio delle dimissioni prima, anzi senza le votazioni di martedì. Come se fosse diventata sua la prerogativa del capo dello Stato di affidare, in caso di crisi, il mandato di formare un nuovo governo.
Ormai non si contano più le regole che Fini ha calpestato nella sua guerra a Berlusconi, cominciando col restare al vertice di Montecitorio. Dove di solito si accantonano le insegne di partito, non se ne creano di nuove abusando della visibilità e del prestigio di una carica di garanzia e di equilibrio. Penso con sgomento, fra l’altro, alla disinvoltura con la quale Fini, se non avvertirà il buon gusto di astenersene, presiederà lunedì e martedì le sedute della Camera in cui si svolgerà la partita contro il governo da lui stesso promossa. In un paese normale uno al posto suo si sarebbe dimesso almeno adesso, non foss’altro per assumersi direttamente l’onere e l’onore dell’assalto, intervenendo nel dibattito e votando. Lui evidentemente indossa abiti di stoffa e taglio diversi da quelli immaginati dai nostri cosiddetti padri costituenti. Alcuni dei quali, per esempio Scalfaro, sono ancora vivi ma stranamente tacciono.
Nella lunga vigilia della fiducia o sfiducia al governo tutti gli avversari del Cavaliere hanno perduto per strada credibilità e pezzi, persino Di Pietro. Che anche in questa vicenda ha chiesto aiuto alla solita Procura della Repubblica, dove continua a ritenersi di casa, per cercare di sbattere alla sbarra d’imputato i parlamentari che hanno osato voltargli le spalle e tentennare all’idea di una crisi al buio mentre incombe quella che viene descritta dalle stesse opposizioni come una possibile tempesta finanziaria. Bersani, si sa, è già salito sui tetti e teme di scenderne per non essere preso a pernacchie dai vari Renzi e Vendola. Quel campione di furbizia che sembrava Casini è corso dal medico per l’attacco di bile procuratogli dalla notizia della missione di Bocchino dal Cavaliere.
Fini infine, sempre lui, non sa se temere di più la fiducia della Camera a Berlusconi o la sfiducia. La fiducia, prevedibilmente frutto anche di una divisione fra i suoi, segnerebbe l’umiliazione di Fini. La sfiducia certificherebbe il suo passaggio dalla destra ad uno schieramento opposto, capeggiato per incontrovertibili ragioni numeriche dal Pd-ex Ds-ex Pds-ex Pci. È proprio a questa imbarazzante, direi nefasta certificazione, premessa di una sua scomparsa o quasi al primo appuntamento con le urne, che il presidente della Camera ha cercato di sottrarsi reclamando le dimissioni di Berlusconi prima e senza voto di fiducia. Ma al tempo stesso egli ha partecipato autolesionisticamente, su istigazione di Casini, alla presentazione delle mozioni contro il governo: un’autentica pazzia politica. Senza un manicomio dove poterla curare. Francesco Damato, Il Tempo, 11 dicembre 2010