Giafranco Fini
Giafranco Fini

Non si era mai visto un premier annunciare una visita al Quirinale per mettere in mora un presidente della Camera. Né si era mai visto un presidente della Camera convocare un’assemblea di partito per chiedere le dimissioni di un premier.

Ecco cosa ha innescato lo scontro tra Berlusconi e Fini, protagonisti di una crisi politica tracimata in una crisi istituzionale, che ha costretto ripetutamente Napolitano a intervenire persino sul calendario dei lavori parlamentari. E c’è un motivo se, ignorando i maldipancia delle opposizioni, il Quirinale impose a suo tempo che il dibattito sulla fiducia si svolgesse dopo l’approvazione della legge di Stabilità, per salvaguardare così i conti pubblici e l’interesse nazionale.
Il fatto è che nel duello con il Cavaliere, il presidente della Camera ha finito per esporre anche il ruolo che ricopre. E ora che il premier ha vinto la sfida con il voto di fiducia, il centrodestra ha accentuato la pressione sull’inquilino di Montecitorio. Senza mai chiederne formalmente le dimissioni, ha iniziato ad appellarsi al «senso di opportunità», e siccome non esistono strumenti parlamentari per sfiduciarlo, starebbe approntando un’iniziativa per indurre Fini al passo indietro. Non è dato sapere quale possa essere lo strumento, è certo che lo «strappo istituzionale» resta uno dei fattori della crisi. E sarà destinato ancora a pesare.

Perché con le sue mosse da leader di partito, Fini ha rotto «la prassi», così scriveva Giuliano Ferrara ieri sul Foglio, invocando l’intervento del presidente della Repubblica, la sua capacità di persuasione «privata e pubblica» presso la terza carica dello Stato, in modo da rendere «indisponibile la presidenza della Camera per giochi politici hard core». In realtà Napolitano è già intervenuto, in forma «privata» e anche «pubblica».

Accadde il tre dicembre, quando Fini – nei panni di capo del Fli – disse che le elezioni sarebbero state scongiurate anche se Berlusconi fosse caduto: «Il capo dello Stato sa cosa fare, di più non posso dire». Con una nota non ufficiale, qualche ora dopo, il Colle sottolineò che nessuna presa di posizione politica, di qualsiasi parte, poteva oscurare le prerogative di esclusiva competenza del presidente della Repubblica. Ma quella sera, rivolgendosi al Quirinale con un greve «noi ce ne freghiamo», il coordinatore del Pdl Verdini spostò interamente su di sé i riflettori.

Dall’inizio il doppio ruolo di Fini è parso a Napolitano «una novazione» istituzionale, sebbene abbia tenuto a difenderne la figura dagli attacchi scomposti del Pdl. Ma nell’escalation del conflitto con Berlusconi, lo stesso Casini ha avuto modo di confidare le proprie perplessità su alcune sortite dell’inquilino di Montecitorio: specie alla vigilia del voto di fiducia, quando – nel corso di un’intervista tv – anticipò che il Fli avrebbe «comunque» votato contro il premier, «a prescindere» dal discorso che si apprestava a fare davanti alle Camere. Così, paradossalmente, Fini aveva colpito se stesso, il ruolo di custode solenne del confronto nelle Aule parlamentari.
Dopo averlo battuto, il centrodestra pare abbia intenzione di chiudere il conto con l’ex alleato. Nelle argomentazioni – che sono giunte anche al Quirinale – viene fatto notare come si sia creato a Montecitorio un «pericoloso precedente» da sanare per evitare che il successore di Fini possa avvalersi della «novazione» istituzionale.

C’è anche questo nodo nel complesso negoziato in corso tra la maggioranza e il leader centrista, Casini, interessato a usare il mese e mezzo di tregua con il Cavaliere per evitare le elezioni anticipate. Ogni possibile elemento di conflitto va depotenziato, con beneficio reciproco per le parti. Così la mozione di sfiducia contro il ministro Bondi, già posticipata, potrebbe non avere impatto sul governo al momento del voto grazie a un atteggiamento di «responsabilità» del terzo polo. E nel frattempo la maggioranza al Senato potrebbe accettare la delibera della Camera sull’interpretazione della legge elettorale europea, dando il via libera all’udc Trematerra per il seggio a Strasburgo. Non solo. Un clima rasserenato, senza più la presidenza della Camera al centro del conflitto, potrebbe consentire di discutere sulle norme da adottare nel caso in cui la Consulta a gennaio dovesse bocciare la costituzionalità del legittimo impedimento, legge che fu ideata proprio dai centristi. Ma la tregua regge su fondamenta instabili. Dovessero cedere, il presidente della Camera tornerebbe nel mirino della maggioranza. A quel punto, a fine gennaio, con le elezioni ormai certe, Fini potrebbe lasciare Montecitorio: magari a Milano, proprio nel giorno in cui Futuro e libertà diventerà ufficialmente un partito. Francesco Verderami, Il Corriere della Sera, 18 dicembre 2010