Il premier Silvio Berlusconi Pier Ferdinando Casini ha fatto la sua «offerta» a Silvio Berlusconi: si tolga dai piedi e potremo appoggiare un governo di centro-destra, purché senza di lui. Gianfranco Fini – con molta faccia tosta, senza riflettere sulla propria personale posizione di incompatibilità fra i ruoli ricoperti, di leader di partito e di uomo delle istituzioni – ha invitato il premier a dimettersi, cioè a togliersi dai piedi. Anche Massimo D’Alema si è mosso. Lo ha fatto con più furbizia, rivolgendosi a un altro interlocutore, la Lega, prospettando l’ipotesi di un accordo che preveda la possibilità, ancora una volta, di toglierci Berlusconi dai piedi in cambio dell’approvazione del federalismo. Sembrerebbe una trattativa, ma in realtà – diciamo le cose come stanno – è un ricatto. Un ricatto bell’e buono. Tutte queste proposte ed altre ancora, in ogni caso, hanno in comune qualche cosa: l’odio nei confronti del premier e, soprattutto, il vizio, antico e inveterato, della politica italiana di ordire congiure, predisporre trappole, disegnare scenari, tramare contro il governo. Naturalmente senza preoccuparsi affatto della volontà popolare. Si potrebbe dire. Niente di nuovo sotto il sole. Ma, questa volta non è proprio così. Perché il conflitto non è più soltanto politico, come ai tempi della prima Repubblica. Non si tratta più di rovesciare un governo e sostituirlo con un altro, di abbattere una consorteria per far posto a una nuova cosca. Dopo Tangentopoli e il tracollo della prima Repubblica le cose sono cambiate. Anche se molti attori sono gli stessi, sia pure in ruoli diversi. Sono cambiate, le cose, perché l’alterazione dell’equilibrio fra i poteri dello Stato a tutto vantaggio di uno di questi, quello giudiziario, è un dato di fatto.

Ed è, soprattutto, la variabile nuova della situazione. Quella che può fare la differenza. Il potere giudiziario, infatti, è ormai in grado di svolgere opera di controllo e addirittura di supplenza nel confronti di un potere politico, esecutivo e legislativo, sempre più indebolito. Ma, soprattutto, il potere giudiziario è ulteriormente rafforzato dal fatto che può autotutelarsi e che i suoi eventuali errori non sono né sindacabili né punibili se non, nella migliore delle ipotesi, con un qualche provvedimento amministrativo. È diventato un potere non solo autonomo (com’è giusto che sia), ma anche un potere sovraordinato agli altri (come non è giusto che sia) ed esente dal quel sottile ma complesso gioco di bilanciamenti e controlli reciproci che dovrebbe costituire l’essenza di una democrazia liberale e la garanzia del suo corretto funzionamento. In questa situazione, quando certi oppositori di Berlusconi in servizio permanente effettivo cercano per le loro trame da basso impero appoggio, sostegno o complicità in una magistratura, o in una parte di essa, sempre più politicizzata e incontrollabile mostrano tutta la loro ingenuità. Non si rendono conto che è difficile cavalcare una tigre scatenata. E che si rischia di rimanerne comunque vittime. Plaudire facendo da acritica cassa di risonanza – come mostra di fare l’opposizione – all’offensiva senza quartiere messa in piedi, con uno spiegamento di mezzi e di risorse incredibile, nei confronti del presidente del Consiglio equivale a giocare con il fuoco. Quando la democrazia rappresentativa diventa democrazia giacobina la strada è obbligata: la vittoria dei giacobini o giustizialisti lascia sul terreno nemici e anche amici. Perché la rivoluzione, prima o poi, come insegna la storia, divora sempre i suoi figli. Allo stato attuale, il problema vero della politica italiana non è quello di salvare il premier da accuse, fondate o infondate che siano, ma è invece quello della difesa della democrazia messa a rischio dall’invadenza di uno dei suoi poteri. Gli oppositori di Berlusconi – continuando a giocare la carta dell’eliminazione del premier per via giudiziaria – non si rendono conto di contribuire, sempre più, all’affossamento della politica e all’imbarbarimento del confronto politico oltre che all’alterazione degli equilibri dell’intero sistema istituzionale. Non si sono accorti che il quadro generale di riferimento è cambiato. E perseverano nell’imbastire trame sul modello di quelle che venivano ordite prima del crollo della prima repubblica. Le «offerte» dei Casini, le richieste dei Fini, le «trattative» dei D’Alema appartengono a questa logica. Ma è una logica senza futuro e senza prospettiva. E soprattutto incosciente perché, quand’anche il loro obiettivo riuscisse, si avrebbe un Paese soltanto in apparenza guidato da un governo, quale che sia, ma in realtà sotto tutela dei giudici. E non sarebbe davvero una bella prospettiva. Francesco Perfetti, Il Tempo, 25 gennaio 2011