I rifiuti invadono le strade di Napoli I prossimi funzionari pubblici che saranno chiamati a occuparsi della spazzatura napoletana, come d’ogni altro disastro ambientale provocato dall’incuria degli amministratori locali e dagli interessi della criminalità organizzata, saranno fortemente tentati di rifiutare. In alternativa potrebbero chiedere, in via cautelare, una casa all’estero, un conto nei paradisi fiscali e un passaporto diplomatico, in modo da potere scappare nel caso qualche procura decidesse che la colpa del disastro non è di chi lo ha provocato, ma di chi ha tentato di porvi rimedio. Quando la protezione civile fu chiamata a Napoli, cosa si pensava che potesse fare? Credevano che facessero sparire la mondezza per incanto, disintegrandola fuori dall’atmosfera terrestre? Avevano a che fare con discariche chiuse, sotto sequestro della magistratura o sature. Se così non fosse stato non si sarebbe provocata alcuna emergenza, semmai un accumulo, da smaltirsi in fretta e, tutto sommato, in modo semplice. Il problema è strutturale, invece, perché non si sapeva dove metterla.

Gli uomini al servizio dello Stato, un prefetto e il personale della protezione civile, avranno anche sbagliato, ma se fossero stati disponibili luoghi e modalità per fare sparire il tutto, nel rispetto formale e sostanziale della norma, semplicemente si sarebbe dovuto mandare al manicomio quanti non avevano provveduto prima. Hanno agito, quindi, in condizioni d’emergenza. Ricordo una telefonata fra di loro, raccolta dagli inquirenti e prontamente passata ai giornali (è il rito post moderno della malagiustizia medioevale), nel corso del quale uno diceva all’altro che in una tale discarica c’era ancora posto, si poteva usarla. Peccato che, codicilli alla mano, era da considerarsi satura. E allora? dovevano mangiarsela? Decisero di procedere, come avrebbe fatto qualsiasi persona sensata. O, meglio, qualsiasi sconsiderato che crede di adempiere ad un dovere e non ha fatto i conti con l’irresponsabilità di massa. Difatti, ora sono al gabbio. Accusati di reati ambientali, hanno perso la libertà. Di taluni si dice con il «beneficio» degli arresti domiciliari, come se fosse una scelta di bontà e non una modulazione relativa alla pericolosità sociale.

E la minaccia, per la collettività, non sono quanti hanno seppellito Napoli sotto al pattume, ma quanti hanno provato a rimuoverlo. Arrestati, dunque. Pensavano di scappare all’estero? No, erano a casa. Possono inquinare le prove? A parte il triste umorismo, relativo all’inquinamento dell’inquinamento, se la procura ha raccolto le prove non c’è nulla da inquinare. Come, del resto? Mica possono cambiare le carte del depuratore. Possono reiterare il reato? Tanto per fare un esempio, la dottoressa Marta Di Gennaro è in pensione. Al massimo può reiterare buttando qualche cartaccia lontano dai cestini. Però sono detenuti, le loro foto si trovano sui giornali, il loro nome infamato, a qualche anno di distanza da un qualsiasi processo e a imperituro monito di quanti s’azzardino a fare il proprio dovere guardando al risultato anziché alla forma. Serva d’esempio per le forze dell’ordine, cui già s’è portato quello di carabinieri impegnati a perseguire la mafia e processati (poi, molto poi, assolti) per mafia. Quindi, la (im)morale di questa storia è: il burocrate faccia il burocrate, si trinceri dietro la mezza manica e se ne freghi delle conseguenze per gli altri, quel che conta, per lui, è solo il rispetto scrupoloso, maniacale e immobilista di tutte le norme e regolamenti. Si blocca tutto, ma la procura non verrà a svegliarti e ammanettarti. Davide Giacalone, Il Tempo, 29/01/201