Ieri è stato inaugurato l’anno giudiziario, cerimonia che ogni anno che passa appare sempre di più una specie di rito funebre in memoeria di quella che fu la Giusitizia in Italia. Ieri il PG della Cassazione ha ribadito lo sfascio della giustizia in Italia e però ha ribadito la necessità del riserbo. Ecco il commento di Filippo Facci, opinionista fuori degli schemi.

Tanto varrebbe abolirle, queste pompose cerimonie dense di solenni auspici dei quali i destinatari se ne fregano regolarmente. È tutto l’anno, che è giudiziario: quello politico, istituzionale, mediatico, quello che in realtà viene inaugurato a settembre e dovrebbe essere officiato solennemente da tutti i suoi protagonisti: presenti i magistrati – certo – ma anche i politici, e i ministri, i giornalisti, i conduttori televisivi, insomma tutti gli attori del serial che prosegue da una vita. Berlusconi con la Boccassini, Santoro con Di Pietro, Bocchino con Ghedini: dovrebbero intervenire tutti alla cerimonia tra frizzi e lazzi, strizzando l’occhio al pubblico come per dire: vi faremo divertire anche quest’anno, a però anche quest’anno, ahinoi, scusateci, saremo costretti a rinviare l’ordinaria amministrazione di un Paese, la normalità democratica,  l’equa divisione del poteri, queste cose.
Ormai è surreale che si celebri questa messa mentre attorno scoppiano le granate: sembra l’ora del te chiamata in mezzo a un’orgia cannibalesca. Non c’è da prendersela con Vitaliano Esposito, il procuratore generale della Cassazione cui è toccato aprire la cerimonia e ripetere stancamente sempre le stesse-stesse-stesse cose: che la giustizia è al fallimento, che i tempi della giustizia eccetera, che manca questo e quest’altro, che l’organico bla bla. Ma lui queste cose deve dirle, fa soltanto il suo dovere, no? Ed è per dovere, chiaro, che anche quest’anno ha ripetuto la nenia del «dovuto riserbo» cui le toghe dovrebbero attenersi, e chi non lo fa «non si rende probabilmente conto che una notizia o un giudizio da lui riferita o espresso, data la funzione svolta, assume una rilevanza tutt’affatto diversa da quelli provenienti dalla generalità dei cittadini». E già, il problema è che il magistrato non se ne rende conto: ecco perché «al riserbo», ha detto il procuratore generale, «non sempre i magistrati si attengono». Davvero? Gli risulta questo? Tranquilli, il solito colpo al cerchio precede il solito colpo alla botte: «Questo non vuol significare una limitazione della libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 21 della Costituzione a tutti i cittadini; si vuol solo segnalare la necessità di riserbo, equilibrio e prudenza, ai quali deve essere improntato il comportamento dei magistrati anche fuori dall’esercizio delle funzioni».

Oh, dopo queste parole cambierà certamente tutto. Sono parole identiche a quelle ripetute come mantra a ogni Anno giudiziario, ma chissà, magari è la volta buona. E non dite che stesse riferendosi alla Procura di Milano e allo storico colabrodo che rende superfluo, ormai, separare l’irrilevante dal penalmente rilevante, le inchieste dai processi, i colpevoli dai prosciolti: è chiaro che non parlava di Boccassini e company. Sentite questa, per capirci: «La giustizia non ha bisogno di audience, ma di fiducioso rispetto», perché «desta perplessità» la partecipazione a talk show dove si ricostruiscono delitti alla «ricerca di una verità mediatica diversa da quella processuale». E ancora: «il Diritto non si applica nel dibattito sui media», altrimenti si incorre in «sanzioni disciplinari». Anche queste parole sono state pronunciate all’inaugurazione dell’Anno giudiziario: ma a quello dell’anno scorso. E l’anno scorso, poi, il ritornello fu lo stesso: è chiaro che non ci si riferiva a questo e quello, si parlava in generale. Cioè a nessuno, come quest’anno e come sempre: sono vacue dichiarazioni d’intenti che fotografano soltanto, nelle forme e nei toni,  la sacralità con cui la magistratura ammanta la propria separatezza dalla realtà. È il trionfo delle parole separate dai fatti, com’è sempre accaduto e come pure accadrà anche ’stavolta. I magistrati italiani, negli anni, hanno detto ogni cosa, fatto ogni piazzata, diffuso ogni cartaccia, scaldato ogni platea possibile scatenando le più varie reazioni: e mai una sola volta sono stati seriamente incolpati e puniti. Non lo sono stati per l’azione disciplinare promossa infinite volte dai ministri guardasigilli degli ultimi vent’anni, figurarsi se si è mai mosso seriamente il Csm. Cane non mangia cane, magistrato non punisce magistrato: però, ecco, fanno dei bellissimi discorsi alle aperture degli anni giudiziari.

Di importanti e sterili raccomandazioni pronunciate in occasioni analoghe, andando indietro negli anni, se ne trovano quante ne volete: e tutti ogni volta ad annuire, come no, certo, bravo, ha ragione. Seguiva qualche titolino di giornale. La reprimenda più dura, a proposito di paventati illeciti disciplinari,  forse rimane quella del 1994 a opera del procuratore generale presso la Corte Cassazione Vittorio Sgroj. Sentite un po’: «Ogni giorno», parole sue, «si assiste a una serie di condotte che, se non provenissero da magistrati che vanno spesso sui giornali, potrebbero interessare i titolari dell’azione disciplinare … In Italia esistono magistrati intoccabili che possono aver acquisito una immunità disciplinare per aver acquistato benemerenze. Mi chiedo quanto il titolare dell’azione disciplinare possa ritenersi libero di esercitarla senza essere accusato di ritorsione». Non male, considerando che era il 1994 e che Vittorio Sgroi , dato il suo ruolo, era peraltro il titolare dell’azione disciplinare. I giornali titolarono: «In Italia esistono magistrati intoccabili». E quali? È semplice, dati alla mano: tutti. Se poi sono milanesi, vabbeh. Filippo Facci

29/01/2011