NASCE IL FLI, UN PARTITO CHE E’ GIA’ MORTO
Pubblicato il 11 febbraio, 2011 in Politica | Nessun commento »
Si è aperta a Milano l’assemblea costituente del FLI, il mini partito personale dell’ex leader di Alleanza Nazionale, Fini. Su questa nascita decco un commento, tra il salace e l’arguto, tra il sarcastico e l’ironico, di Stenio Salinas per il quale il FLI è un partito che è già mporto.
Costruire una destra nuova e moderna è un’impresa titanica, di quelle che entusiasmano gli intellettuali, ma lasciano freddi i politici di professione. I primi lavorano nel campo delle idee, i secondi sul terreno della realtà, e noi non faremo il torto, agli uni e agli altri, di ironizzarci sopra. Viene però da chiedersi se il neonato partito di Futuro e Libertà che, di qui a domenica, vedrà la luce, non sia già nato morto. Vediamo di spiegarci.
Per circa un quindicennio, l’elettorato di quello che era Alleanza nazionale si è mosso nel nome e per conto di un patto con la Lega di Bossi e Forza Italia di Berlusconi, fino a riconoscersi in una fusione con quest’ultima. Che essa fosse forzata, voluta o subita, poco importa: il dato di fatto è che, a distanza di tempo, si è rivelata, a Palazzo Chigi e a Palazzo Madama, infelice, ha provocato una sorta di scissione, la creazione di nuovi gruppi parlamentari minoritari che da coscienza critica e da stimolo della maggioranza si ritrovano ora, con molti mugugni e qualche pezzo perduto, nel campo dell’opposizione. Se domani si andasse a votare, non si capisce bene in nome di cosa e perché il suo già ridotto elettore tradizionale dovrebbe premiare il partito che li rappresenta e quale potrebbe essere il suo appeal per chi, finora, non l’aveva mai votato.
In Futuro e Libertà, lasciando stare i pasticci degli ultimi mesi (appoggio, non appoggio, astensione, non astensione, voto contro eccetera) c’è oggi una tendenza politica che, per comodità, definiremo moderata e che si batte per restare nell’ambito del centrodestra. Non è una posizione facile: se fa perno sul primo elemento, rischia una subalternità con le forze centriste già presenti e più lineari agli occhi del loro elettore tipo; se insiste sulla permanenza del secondo, avvalora l’ipotesi di una scissione più nominalistica e di vertice che altro, più legata a un problema di visibilità appannata e di insopportabilità caratteriale. L’elettore resta insomma perplesso, e se dovrà scegliere è più probabile che premi Berlusconi che non i critici di Berlusconi che però stanno con Berlusconi…
L’altra tendenza è quella che, sempre per comodità, definiremo estremista. In sintesi, sostiene che il Cavaliere non deve più governare, per indegnità morale oltre e più che per incapacità politica. È una tendenza interessante, perché da un lato situa il neopartito fuori dal perimetro politico prima occupato; dall’altro gli apre due possibili scenari. Il primo, più riduttivo, è di far parte di una sorta di Union sacrée, ovvero un nuovo Arco Costituzionale dei Puri che gli garantirebbe sì una ricostruita verginità politica (anche lui ha contribuito ad abbattere il tiranno), ma lo farebbe restare subalterno in un perimetro di fatto di sinistra. Il secondo scenario è quello che gli varrebbe, garante la sinistra, una sorta di legittimità di destra a governare. In sostanza, noi vi aiutiamo a farlo fuori, voi ci aiutate a sostituirlo e insieme dettiamo le regole della nuova stagione del governo e dell’opposizione. È, per la verità e senza offesa, un po’ cervellotica, perché dà per scontato un appeal parlamentare a destra che tale non è. Davvero un Pdl senza Berlusconi accetterebbe una guida Fli o, ipotesi subalterna, un patto di alleanza? Elettoralmente poi, entrambi gli scenari sono discutibili: se va al voto facendo parte dell’Union sacrée, il suo giustizialismo è un po’ fuori tempo massimo, un po’ peloso, difficilmente portatore di consensi altrui e rischia di vedere gli elettori ultras andare su lidi ultras da sempre, e quelli più tiepidi di non seguirlo affatto. Se lo fa in nome del ricambio da destra, oppure di un ipotetico terzo polo, si condanna o a correre da solo o ad annegare nel centrismo.
Poi c’è la questione del leader. Nell’epoca del populismo, la sinistra ha sempre sofferto la mancanza di una leadership forte in grado di incarnarla. Fli, da questo punto di vista, è messa meglio e, per quanto ammaccato da Montecarlo e dintorni e dal balletto un po’ inverecondo che lo vede appeso alla presidenza della Camera, Fini è un leader populista. Il doppio ruolo, tuttavia, premier di un nuovo partito e terza carica istituzionale dello Stato, non può durare in eterno. E però, il risolverlo dimettendosi, lo riconsegna a una condizione di capo partito non esaltante, viste le dimensioni parlamentari di quest’ultimo. Il non risolverlo, lo condanna a un controllo meno diretto del partito stesso e ne appanna la funzione leaderistica. Le elezioni, naturalmente, scioglierebbero il dilemma al suo posto, ma viene da chiedersi, a seconda della campagna elettorale scelta, quanto questo appeal gli varrebbe in partibus infidelium, cioè fra chi non lo ha mai votato e sempre avversato; e quanto risulterebbe carismatica nei confronti del vecchio bacino d’utenza. Elettoralmente, quanto vale, da solo, Fini?
Riassumendo. La politica è anche tattica, ma, si sa, se dietro non c’è una strategia si possono vincere le battaglie, ma si perdono le guerre. Al netto dei proponimenti, delle interviste e delle parole d’ordine, non si capisce bene questa destra nuova e moderna cosa voglia fare, dove voglia situarsi nello scacchiere politico, a quale elettorato intenda rifarsi. Il gioco di essere liberale e insieme statalista, per esempio, poteva anche funzionare nell’ambito della antica Triplice intesa (Berlusconi-Bossi-Fini), ma la defunta Alleanza nazionale era un partito centro-meridionale, garante di ben precisi interessi, e così la più piccola Fli.
Questo fa sì che una destra moderna, nell’accezione liberale e liberista, per intenderci, non è proprio alla sua portata ed è discutibile che una maggiore spregiudicatezza etico-ideologica (embrione, immigrazione, eccetera) sia al centro degli interessi di quello che è sempre stato il cuore del suo elettorato. È una spregiudicatezza, inoltre, che cozza contro l’eventuale scelta morale e moralista anti-Cavaliere e qui ci fermiamo. Giudicherà il lettore se abbiamo descritto un partito nato morto, oppure se l’analisi non lo convince e lo ritiene invece vivo e vispo. C’è anche una terza ipotesi, uno di quegli ossimori che piacciono tanto agli intellettuali futuro-liberisti: un cadavere in buona salute…
……..Non abbiamo granchè d’aggiungere all’analisi di Solinas.Salvo due sole battute.
Una riguarda l’on. Bocchino secondo il quale il FLI intende dar vita ad una “destra moderna, tradizionale, europea che intende contrapporsi a quella estremista del PDL”. Certo che ne ha fatta di strada Bocchino, visto che usa nei confronti del PDL che, gli piaccia o no, incarna il centrodestra italiano, le stesse accuse – estremista - che per un quarantennio sono state rivolte dai partiti dell’arco costituzionale, con a capo il PCI oggi chiamato PD, al MSI di De Marsanich, di Michelini, di Almirante e, colmo del colmo, dello stesso Fini (che vi si trovò a capo senza meriti e solo per conclamato servilismo ad Almirante), per tenerlo incostituzionalmente e ingiustificatamente fuori dalla porta della democrazia italiana, che gli si aprì solo nel 1994 grazie all’oggi esacrato Silvio Berlusconi. Ogni commento ci sembra superfluo, salvo che la storia si prende gioco degli imbecilli.
La seconda riguarda lo stesso Fini. Enfatico e vaniloquente come sempre, Fini ha aperto l’assemblea di Milano auspicando una “primavera italiana”. E’ evidente il riferimento alla “primavera” di Praga, alla Cecoslovacchia del 1968, ad Alexander Dubcek che l’impersonò a cui, forse, spocchiosamente Fini si paragona. Come sempre però Fini dimentica i dettagli. A Praga la primavera si infranse sui carri armati sovietici che la soffocarono nel sangue, in piazza San Venceslao il giovane Jan Palack si diede fuoco per rivendicare il diritto alla libertà per sè e per tutti gli europei, Alexander Dubcek fu ridotto in catene e costretto ad un periodo di “riabilitazione” che lo vide umiliato e trasformato in spazzino nei parchi pubblici dello stato cecoslovacco ricondotto alla più rigida ortodossia comunista. Non ci sembra che la cosiddetta primavera finiana abbia nulla in comune con la “Primavera” praghese. Non ci sono rivoltosi che scendono in piazza contro i carri armati, non vediamo all’orizzonte nessuno che voglia sacrificarsi come Palack (francamente non riusciamo a capacitarci di un Briguglio o di un Granata che si danno fuoco nella piazza Colonna di Roma). Infine, Fini. Fini non paga alcun prezzo per la sua “primavera” visto che rimane incollato alla sedia più alta di Montecitorio sulla quale lo ha issato la maggioranza che egli ha tradito e sulla quale lo mantengono gli epigoni di quelli che soffocarono nel sangue la “primavera” di di Praga. Dei quali aspira ad essere il più servile ruffiano. g.