Libia, l'ultima apparizione tv di Gheddafi Il grande timoniere Mao avrebbe detto: «Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è ottima». Ma qui non c’è nessuna lunga marcia e al posto di Mao c’è un tal Gheddafi. Il Colonnello ieri ha detto che non vuole levarsi di mezzo e farà di tutto per «schiacciare i ratti». Spesso i dittatori sono come il trombone nell’orchestra, ma nel caso del raìs c’è da scommettere che farà di tutto per restare al potere. La scia di sangue e morte che abbiamo visto finora in Libia potrebbe essere niente rispetto a quel che si va preparando: la guerra civile. Se la situazione piomba nel caos, la comunità internazionale dovrà affrontare lo scenario peggiore: l’intervento militare. Mentre scrivo il Consiglio di sicurezza dell’Onu è riunito, vedremo cosa tirerà fuori dal cilindro del Palazzo di Vetro. Da questo momento comunque un piano di intervento in Libia è quanto mai possibile. Proviamo a immaginare lo scenario futuro. Se Gheddafi non mette fine al massacro e non riesce quel che di solito si fa in questi casi – un colpo di Stato dell’esercito per deporlo – Stati Uniti e alleati dovranno cominciare a pensare alle grandi manovre: un primo show of force di mezzi navali – portaerei in prima battuta – nel Mediterraneo e istituzione di una no-fly zone in Libia per evitare raid aerei e rifornimenti di armi per i mercenari che il regime sta usando per sterminare i rivoltosi. Ma questo potrebbe non bastare a fermare il piano di sopravvivenza di Gheddafi.
A questo punto Barack Obama potrebbe correre il rischio di doversi imbarcare nella sua prima guerra: la campagna di Libia. Non è certo pensabile che un super produttore di gas e petrolio sia lasciato nel caos, con il rischio concreto non di «islamizzazione» ma di gruppi terroristici al potere che avrebbero uno sbocco diretto sul Mediterraneo, l’accesso a cinque grandi terminali petroliferi sulla costa (Tripoli, Ras Lanuf, Al Sidra, Zuetina e Tobruk) e ad altrettante raffinerie di greggio che sfornano 388 mila barili di oro nero al giorno. Il petrolio per la Libia è tutto. Un report della Cia, citato nel Military Balance del Nord Africa compilato da Antony Cordesman per il Csis di Washington, mette nero su bianco numeri che parlano: il 95 per cento delle esportazioni del Paese è rappresentato dal barile che costituisce il 25 per cento del prodotto interno lordo e assicura il 60 per cento degli stipendi del settore pubblico. La Libia, grazie al petrolio e a una popolazione contenuta (circa 6 milioni e mezzo di abitanti) è lo Stato del Nord Africa con il più alto reddito pro-capite, ma, come accade sempre nel caso di dittatura e governo di clan, questa ricchezza non è distribuita. Pochi ricchi, moltissimi poveri. Se a questo aggiungete che il 90 per cento del territorio è desertico e che il 75 per cento del cibo viene importato, la frittata gheddafiana è servita. Mentre in Egitto e in Tunisia l’esercito ha rappresentato lo strumento per organizzare la caduta dei dittatori (Mubarak e Ben Alì), in Libia la situazione delle forze armate è semplicemente caotica. Secondo gli analisti la qualità complessiva delle sue forze armate è bassa, equipaggiamento e addestramento idem. Il suo isolamento internazionale, ai tempi del Gheddafi terrorista, ha determinato un declino delle forze armate in tutte le sue componenti: manca perfino il requisito minimo – come abbiamo visto in questi giorni con gli episodi dei due aerei da caccia atterrati e Malta e della nave da guerra con 200 marinai a bordo approdata a la Valletta – che si chiede a ogni soldato durante un conflitto: la lealtà. Se l’esercito libico si sfascia, si fraziona in gheddafiani, ribelli e uomini in fuga tout court, organizzare una transizione sarà quasi impossibile mentre le probabilità di guerra civile aumenteranno vertiginosamente. A quel punto, la comunità internazionale si troverà davvero di fronte a una decisione grave: varare una missione militare sotto la bandiera Onu per ristabilire l’ordine in Libia. Gli Stati Uniti hanno adottato finora una tattica di stop and go dettata dalla necessità: Obama ha condannato la violenza del regime libico e chiesto un cessate il fuoco immediato. Il minimo sindacale.
La Casa Bianca sta alla finestra e per ora non può fare nient’altro. Il terremoto in corso in Medio Oriente e Nord Africa ha colto tutti di sorpresa e il Presidente non ha molte carte da giocare per uscire da un rompicapo pazzesco, mentre in Bahrein – sede del comando della Quinta Flotta navale degli Stati Uniti – ieri centomila persone hanno protestato contro il governo. Contemporaneamente, due navi da guerra iraniane, la fregata Alvand e la nave appoggio Kharg, hanno varcato il canale di Suez e sono entrate nel Mediterraneo. Il regime di Ahmadinejad ora può scrutare con i suoi radar e guardare con i binocoli dei suoi marinai le coste di Israele. Non accadeva dal 1979 e questo indica un paio di cose non proprio rassicuranti: la caduta di Hosni Mubarak ha buttato giù il muro degli equilibri precedenti e da questo momento il Mare Nostrum è anche un po’ loro, degli iraniani e di chi di volta in volta l’Egitto deciderà di far passare per il Canale di Suez. Ecco perché Obama può fare la voce grossa, ma prima di imbarcarsi in un’operazione militare – anche leggera e con il solo uso della marina e dell’aviazione – deve fare prima i conti con quello che ha in casa: due campagne militari in corso (Afghanistan e Iraq), un bilancio del Pentagono appena revisionato e un avvicinamento rapido verso le elezioni presidenziali. Per quanto tempo ancora gli Stati Uniti potranno continuare con questa tattica attendista? Poco. E l’Europa non sembra avere carte migliori da giocare. Abbattuto il muro geostrategico di un Egitto pienamente filoamericano, senza doppi giochi e sante alleanze islamiche, non resta che attendere la frana di quello legato al controllo delle masse di migranti che spingono verso Nord. L’Europa potrebbe essere investita da un esodo biblico e l’Italia rischia grosso. È uno scenario terribile e sarebbe bene che in queste ore i partitanti nostrani abbandonassero ogni demagogia e ogni piccolo e misero calcolo di politica interna per fare i conti con la realtà: la Libia è un problema nostro. E brucia. Mario Sechi, Il Tempo, 23 febbraio 2011