George W. Bush Il Colonnello Gheddafi consuma le sue ultime ore tra proclami deliranti e squadroni della morte assoldati per ricacciare in gola ai libici l’urlo di disperazione e speranza che sta sconvolgendo la mappa politica mediorientale. L’Europa condanna ma tentenna, l’America obamiana aspetta.
Sono solo dieci anni ma a Washington sembra passato un secolo da quando i neoconservatori americani furono catapultati dalle scrivanie alle stanze dei bottoni dagli attentati dell’11 settembre, in qualità di ideologi delle campagne mediorientali di George W. Bush e della sua freedom agenda. Dieci anni in cui un messaggio dalle caratteristiche apparentemente universali come la diffusione di democrazia e libertà nei territori piagati dall’oscurantismo e dalla repressione è stato interpretato e stravolto fino a essere descritto come l’incarnazione di una volontà di potenza propria dell’imperialismo più becero. Lungi dall’essere studiate, comprese e all’occorrenza confutate, le loro idee hanno rappresentato il male assoluto agli occhi di gran parte delle opinioni pubbliche mondiali, dei media allineati, delle sinistre ideologiche e del realismo classico. Additati all’occorrenza come criminali di guerra al servizio della lobby ebraica o fascisti assetati del sangue delle masse arabe, i neoconservatori – salvo poche e lodevoli eccezioni – sono probabilmente il fenomeno peggio spiegato e meno compreso della politologia contemporanea. Date per morte con la fine dell’esperienza bushiana, le loro teorie tornano oggi alla ribalta in coincidenza con il risveglio rivoluzionario del mondo arabo, nelle sue accezioni nordafricana e mediorientale.
E la parola rivincita comincia ad aleggiare nelle redazioni dei giornali e nelle sale di studio dei think tank americani. Così, mentre tutti sembrano improvvisamente riscoprire e sposare il concetto di promozione della democrazia senza peraltro riconoscerne la provenienza ideale, qualcuno comincia timidamente a chiedersi, sull’onda lunga delle guerre di liberazione in Afghanistan e Iraq, se i Vulcans in fondo non avessero ragione. Tentiamo una prima risposta. Se il vento di rivolta che sta scuotendo le autocrazie arabe non dimostra ancora la correttezza della dottrina Bush nelle sue conseguenze (ovvero il nesso causa-effetto), ne conferma però le premesse e le intuizioni originarie: la democrazia non è cosa (solo) occidentale e le legittime aspirazioni dei popoli alla libertà e allo sviluppo devono essere riconosciute, favorite e veicolate. I fautori dell’appeasement e della non ingerenza, nelle varie declinazioni ideologiche, basavano le loro conclusioni su due postulati fondamentali: che il risentimento delle popolazioni arabe fosse naturalmente rivolto contro l’occidente (da qui la necessità di ingraziarci l’autocrate di turno per mantenere la situazione sotto controllo); che i popoli del medioriente non fossero pronti per assumere le redini del proprio destino.

I fatti di queste settimane smentiscono entrambi questi pregiudizi a sfondo velatamente razzista. Una volta libere dalla paura le masse si sono ribellate non contro l’America ma contro quei regimi che hanno negato loro, in misura differente, dignità e diritti. È vero che gli esiti delle insurrezioni in corso sono ancora tutti da definire e che il vuoto di potere può essere potenzialmente riempito da fanatismi più o meno nocivi, ma è altrettanto evidente che i compromessi perseguiti dalle cancellerie occidentali per decenni non sono serviti né a migliorare le condizioni di vita nei paesi coinvolti né a garantire oggi quelle condizioni di sicurezza e stabilità che rappresentavano il loro principale obiettivo. La formula degli anni di Bush, secondo cui la nostra sicurezza dipende dalla loro libertà, torna quindi d’attualità e ripropone l’idealismo dei neoconservatori come la più conveniente e praticabile forma di realismo politico. Lo ricorda anche Bill Kristol in un suo recente articolo sul Weekly Standard, invitando ad abbandonare i timori e a schierarsi senza mezzi termini con gli insorti egiziani. Sulla stessa linea Paul Wolfowitz che sul Wall Street Journal spiega che Stati Uniti ed Europa dovrebbero intervenire per aiutare i libici ad abbattere Gheddafi. La storia recente dimostra che sostenere e guidare le aspirazioni dei popoli nella loro lotta contro decenni di immobilismo non è solo la cosa giusta da fare dal punto di vista morale ma anche la più conveniente sotto il profilo strategico. Allineare strategia e principi, suggeriva già Robert Kagan nel lontano 1997: un consiglio che con il tempo è diventato quasi un imperativo.  Enzo Reale, Il Tempo, 25 febbraio 2011