PANCIA PIENA E TESTA VUOTA, l’editoriale di Mario Sechi
Pubblicato il 1 marzo, 2011 in Politica estera | Nessun commento »
La crisi libica è giunta al suo momento più delicato: la calma prima della tempesta. Gli attori di questa tragedia si stanno parlando a distanza: da una parte abbiamo Muammar Gheddafi che fa sapere di non avere nessuna intenzione di mollare la presa, dall’altra sul palcoscenico è salito Barack Obama che ha vestito l’uniforme del Commander in Chief e dato il via alle grandi manovre navali. Gli Stati Uniti hanno capito che a Gheddafi deve essere lasciato ancora uno spazio per trattare la resa, ma non così ampio da consentirgli di riorganizzarsi. Nel Golfo della Sirte si disegnano gli equilibri futuri del Mediterraneo. Come avevo anticipato nei giorni scorsi, le due unità navali più importanti che pattugliano la zona del Corno d’Africa hanno cominciato la loro risalita verso il canale di Suez: la portaerei atlantica Enterprise e la portaelicotteri d’assalto Kearsarge si stanno schierando per quello che ora è solo uno show of force e dopo – se il Colonnello non lascia – un’operazione militare mare-aria-terra che al Pentagono stanno studiando in queste ore. Tutte le opzioni sono ancora sul tavolo, quella dell’esilio del dittatore per la prima volta è stata evocata dalla diplomazia USA e non ci sono dubbi che sarebbe l’epilogo più indolore per la Libia. Ma Gheddafi è un osso duro, è un beduino, un guerriero che spera di poter ribaltare la situazione. Il Colonnello in realtà ha il destino segnato. E in cuor suo lo sa. Ieri ha evocato – come immaginavo – il tradimento degli alleati, segno che ha compreso di esser giunto all’atto finale della sua storia quarantennale.
Muammar deve solo scegliere l’epilogo: una fine nel clangore della battaglia o una resa con le mani alzate e il tramonto senza spade e cavalieri. Le navi americane ci metteranno un paio di giorni a posizionarsi sul teatro di guerra, mentre gli insorti – che hanno ottenuto l’appoggio del Dipartimento di Stato – attendono a questo punto le mosse e le istruzioni di Washington. Se fossimo in una corsa, saremmo all’istante del surplace, prima del giro finale e del traguardo. Sarebbe tutto maledettamente più facile se davanti a Obama non ci fosse un Gheddafi al crepuscolo, che digrigna i denti come un animale ferito, ma un uomo pronto a lasciare che la Storia faccia il suo corso. È una ciclopica guerra di nervi che gli Stati Uniti non avevano messo nel conto. La presidenza di Obama in questo senso sta ripercorrendo quella di Bush. Il presidente repubblicano non aveva come primo punto della sua agenda la politica estera, ma l’11 settembre 2001 mise i «Vulcans», il gabinetto di consiglieri di Bush, di fronte a un nemico capace di colpire gli Stati Uniti al cuore. Il 12 settembre il mondo è cambiato. Obama ha ereditato due guerre – Afghanistan e Iraq – e un generale David H. Petraeus che a Baghdad ha trovato la soluzione mentre ancora a Kabul non c’è una victory strategy che funziona. Ma per Barack l’emergenza, il primo punto del programma, era un altro: l’economia, l’uscita degli Stati Uniti dal buco nero della crisi finanziaria e della recessione. La politica estera era un carnet di buoni propositi, in linea con il «yes we can» della campagna elettorale, con il discorso retorico pronunciato a Il Cairo dal Presidente, ma niente di più. Obama si era presentato come il più classico degli isolazionisti, senza mai dirlo, ma di fatto proponendo una ricetta in cui il grande guardiano del mondo erigeva un muro in patria e sperava nella nascita di un multilateralismo illuminato per la soluzione dei conflitti. Questo piano – difficile in realtà definirlo tale – si è scontrato con la dura realtà del Medio Oriente prima e dell’Africa del Nord subito dopo. Una potenza nucleare in fieri come l’Iran, l’impazienza e i timori di Israele, le difficoltà del Pakistan, il collasso dell’Egitto, l’implosione della Tunisia, le rivolte in Bahrein, hanno presentato a Obama lo scenario che all’inizio della sua avventura alla Casa Bianca voleva riporre nel cassetto: gli Stati Uniti sono ancora l’unica potenza in grado di usare la forza in tempi rapidi per spegnere incendi che possono propagarsi fino a noi.
Nessun altro si è fatto avanti per assumersi questa responsabilità: non l’Europa imbelle e senza spina dorsale, non la Cina che sta costruendo un suo esercito, ha in Africa enormi interessi economici ma non vuole gettarsi nella mischia, non la Russia che in Consiglio di Sicurezza si è opposta a un intervento militare americano ma sa di dover prima o poi capitolare. L’America è chiamata ancora una volta a svolgere la sua missione. La Libia non è un paesello desertico qualsiasi, non è un rebus tribale che si risolve piantando una tenda nel deserto, stringendo quattro mani, offrendo un pugno di perline colorate e saluti a tutti. La Libia è petrolio, gas, le sue coste s’affacciano sull’Europa, i suoi confini ora sono aperti a chi traffica in Niger, Egitto, Tunisia e Chad. Giusto per fare un esempio: il Niger produce uranio, il Chad esporta mercenari. Non è un mondo per il circolo dell’uncinetto quello che abbiamo davanti. Per queste ragioni il paradigma della crisi economica applicato alle banche – too big to fail, troppo grande per fallire – è stato applicato direttamente alla situazione libica: è un Paese troppo grande e aperto alle scorribande di soggetti nocivi alla salute per poter implodere nel caos. Di tutto questo in Italia non si discute per niente. Il deserto è qui. È un quadro desolante che presenta un Paese chiuso in se stesso, timoroso di prendere l’iniziativa, bloccato dalla partigianeria dei protagonisti politici. La maggioranza si è resa conto tardi dell’accelerazione dello scenario post-Gheddafi e ha balbettato parecchio prima di dire due parole chiare sul flipper insanguinato e il game over mentale del Colonnello, mentre l’opposizione è semplicemente disarmante nelle sue contraddizioni e meschinità politiche. I libici muoiono, la sinistra rotea come un avvoltoio sperando che tutto questo si traduca in una caduta del governo per mano della piazza egitto-girotondista. È un quadro deludente, riflesso anche dall’informazione. Il mondo davanti a noi brucia ma – tranne qualche bella eccezione – i titoloni sono per la cronaca nera, il gossip politico più rancido, fattacci che non cambiano la nostra vita ma servono da capro espiatorio per metabolizzare la nostra assenza di visione e coraggio, pagine di putrefazione che servono a trovare altri colpevoli per la nostra indifferenza. Se qualcuno avesse fatto un giro per le strade de Il Cairo, dato un’occhiata ai nugoli di bambini che giocano nelle metropoli del Nord Africa e del Medio Oriente, si accorgerebbe che abbiamo di fronte una minaccia e un’occasione. Quel mondo che guarda le nostre coste cresce, fa figli, si moltiplica, mentre da noi la crescita è a tasso zero. Quel mondo giovane e vigoroso aspira ad essere libero, mentre noi siamo prigionieri di un benessere che non è per sempre. Abbiamo la pancia piena, ma la testa appare vuota. Mario Sechi,Il Tempo, 1° marzo 2011