Gli scheletri di Ilda la rossa. Agli agenti non arrivò mai l’ordine del magistrato di rilasciare un ragazzo slavo rilasciato per “false generalità“

Milano – Ci sono detenuti e detenuti. Innocenti o presunti tali costretti a restare in cella per un errore o una dimenticanza. A Milano negli anni Ottanta i detenuti in attesa di giudizio erano abbastanza numerosi. Questa è la storia di due persone, diversissime. Per una singolare coincidenza succede che lo stesso magistrato chieda da un lato la scarcerazione di uno e si «dimentichi» in cella l’altro. Lei è Ilda Boccassini, agli albori di quel decennio già magistrato rampante e super protetta dall’ombrello di Magistratura democratica. Assieme ad altre toghe della sua corrente, Ilda il 17 febbraio del 1981 mette la sua firma sotto una lettera appello, pubblicata dal Manifesto, per chiedere che Mario Dalmaviva, da 36 giorni in sciopero della fame venga trasferito dalle carceri speciali per terroristi a un penitenziario comune. Scrivono i magistrati di Md: «Il regime carcerario speciale è del tutto al di fuori dei principi costituzionali». Dalmaviva, un pubblicitario che giocava in Borsa per finanziare il movimento studentesco, era accusato da due pentiti Br, Fioroni e Sandalo, ed era coinvolto nella famigerata operazione 7 aprile, la maxi inchiesta voluta dall’allora pm di Padova Pietro Calogero, che emise in tutto 22 mandati di cattura contro i leader di Autonomia operaia come Toni Negri, Franco Piperno e Oreste Scalzone, accusati di associazione sovversiva e banda armata. Tutti prosciolti con formula dubitativa nel 1984 in primo grado, poi condannati in appello e in Cassazione. Dalmaviva fu condannato a sette anni di carcere, ridotti poi a quattro e già scontati col carcere preventivo. Lo stesso giorno dell’appello proprio il Manifesto pubblica la notizia dello spostamento di Dalmaviva in una cella comune. E quando il procuratore capo della Repubblica di Milano chiede al Csm la censura per la Boccassini (lei e Francesco Greco vennero sospesi dal «turno esterno») Md insorge: «L’impegno politico non è causa di turbamento nel corretto esercizio delle loro funzioni». Amen.
Pochi mesi dopo, il 13 novembre 1981, finisce a San Vittore un ragazzo di origine slava, Mirsaad Adzimuhovic. E lì resta per nove mesi, fino al 26 luglio. Fermato e portato in caserma per «false generalità», venne interrogato 4 giorni dopo dalla Boccassini. Il fermo, secondo il pm, non fu convalidato, ma all’ufficio matricola del carcere secondo l’agenzia Ansa non arrivò mai. Sempre secondo la Boccassini il verbale di carcerazione venne «smarrito». A marzo Adzimuhovic scrisse una lettera al giudice di sorveglianza e un magistrato dell’ufficio gli rispose due giorni dopo che doveva considerarsi «a disposizione della procura». Passarono altri mesi e il detenuto chiese di parlare col giudice di sorveglianza Francesco Maisto. Fu lui a chiedere al pretore la scarcerazione del detenuto, che scattò solo alcuni giorni dopo che la procura l’aveva a sua volta disposta. Il caso indignò l’opinione pubblica, tanto che alcuni parlamentari chiesero al ministro di Grazia e Giustizia quali provvedimenti avrebbe adottato per «accertare le responsabilità del drammatico episodio» e come sarebbe stato risarcito l’uomo per la «sconcertante negligenza dei pubblici poteri». Il Giornale, 6 marzo 2011