Perché non esiste più una auto­noma politica della sinistra? Perché l’opposizio­ne è governata dall’esterno, da giornalisti che fanno i magistrati e da magistrati che trafficano in noti­zie con i giornalisti?

Commenti
Condividi la tua opinione con gli altri lettori de ilGiornale.it

Log in / Registrati alla community e lascia il tuo commento

Perché non esiste più una auto­noma politica della sinistra italiana? Perché l’opposizio­ne è governata dall’esterno, da giornalisti che fanno i magistrati, gli origliatori, i pornoromanzieri, e da magistrati che trafficano in noti­zie con i giornalisti? Il giornalista di sinistra all’italiana è arrogante, è self­righteous (dal vocabolario: che si considera moralmente superiore, moralistico, bigotto). Non sopporta che qualcuno si metta in posizione di attacco, che lo critichi, che si difen­da su un piano di parità. Non cerca l’interlocutore, non accetta sfide ca­valleresche (vero, Scalfari?). Si sente investito di una missione che perse­gue senza rischi reali ma in modo fa­natico. Pensa di lavorare gratuita­mente per il bene della causa, e per il bene in generale. Non tollera dissen­si che non entrino di forza nel copio­ne di una commedia scritta da lui stesso, con protagonisti e antagoni­sti inventati allo scopo di compiace­re il lettore o lo spettatore, il suo incli­to pubblico di perbenisti. Esistono eccezioni, ma sono molto rare.

L’artista, lo scrittore, il giurista, il professore politicamente corretti so­no varianti di questa figura sociale del giornalista di sinistra all’italiana, e scrivono per lo più nei giornali o so­no (come diceva sorridendo Sergio Saviane) «maestri di gettonanza» te­levisiva. Frequentano voluttuosa­mente i luoghi in cui si realizza ben più che nell’arte o nell’accademia la loro vera identità psicologica, si esprime il loro rancore sociale, una infinita presunzione d’innocenza ol­tre il terzo, il quarto e il quinto grado di giudizio. Il loro idolo inconfessato è il mercato inteso nel senso idolatri­co del termine: le copie vendute, i premi amorosamente corrisposti, lo share of voice, la popolarità a buon prezzo, quella che si conquista dicen­do alla tua gente quel che la tua gente vuole sentirsi dire. Non c’è destrezza in tutto questo, non c’è mai sorpresa, non c’è invenzione. Abilità, inventi­va e imprevedibilità sono considera­te malandrinate, doti ciniche di un temperamento che può essere sì ro­busto, e che può anche incarnarsi in una qualche intelligenza, ma è ine­quivocabilmente votato al male mo­rale, alla doppiezza, a una mefistofe­lica incapacità di grazia.

Sono disposti alle più furbe mani­polazioni, ma sempre e solo nel qua­dro di questa strana teologia: la sal­vezza è amministrata dall’opinione pubblica, un corpo mistico e giudi­cante superiore all’elettorato, al po­polo, alle miserie quotidiane dell’uo­mo medio. Guardate i diari di Monta­nelli: era uno di noi, un principe del­l’ambivalenza, un uomo integral­mente inserito nel Palazzo della poli­tica, un qualunquista di talento, un gran pettegolo, un bel conservatore pieno di autoironia e di vanità dichia­­rata, un anticomunista e un italiano purissimo rassegnato amorevolmen­te a dannare e ad amare, con la riser­va dell’ironia e dell’intelligenza, il ca­rattere suo e dei suoi compatrioti. Ne hanno fatto un feticcio ideologico, in vecchiaia. Montanelli era il profeta dell’uomo comune, e faceva opinio­ne in questa veste; i suoi adoratori sa­crileghi schiacciano invece l’uomo medio sotto il peso di un’opinione che lo forgia, lo sovrasta, lo guida co­me una marionetta. I liberal america­ni, anche quando furono travolti da una variante eccentrica e molto im­probabile di comunismo a stelle e strisce, come avvenne al musicista dell’età di Roosevelt Aaron Copland, dedicarono al common man inni e fanfare con orchestre squillanti di ot­toni. I nostri guru di sinistra invece lo disprezzano, lo considerano la schiu­ma della terra, lo vogliono ridotto al silenzio. L’opinion,creatura dell’illu­minismo radicale nato in Francia, re­alizza l’utopia di un eroismo colletti­vo, arrembante, canterino, in cui non c’è spazio per il mito democrati­co anglosassone temperato da una autentica cultura liberale, per l’indi­viduo e per il cittadino. La classe dirigente di sinistra, quel­la che si conquista la nobile pagnotta della politica facendosi eleggere in Parlamento, praticando lo scambio e il negoziato, facendo esperienza e imparando tra gli errori l’arte di uni­re le forze in vista di obiettivi possibi­li, realistici,è soverchiata dall’opinio­ne e dai suoi padroni. I padroni del­l’opinione sono diventati i padroni della politica. Sono i nuovi padroni del vapore, per dirla con la formula del vecchio azionista e radicale Erne­sto Rossi. La loro offerta pubblica d’acquisto,una perfetta compraven­dita di influenza e prestigio, altro che le transumanze di quelli che varcano la linea in su e in giù, si dispiega a prezzi stracciati: inventano un lea­der al giorno, dettano condizioni im­pietose, misurano gli spazi vitali del­l­’informazione secondo le loro classi­fiche di rispettabilità e di ossequio ai dante causa. La destra si è scelto un padrone, un outsider, uno che si muove come un elefante nel negozio di cristalleria dell’Italia parruccona, corporativa, e del suo establishment fragile e insicuro. I padroni dell’opi­nione si sono scelti la sinistra, e la ten­gono ben stretta tra le loro mani. Giuliano Ferrara, Il Giornale, 6 marzo 2011