Italo Bocchino è un buffone. Non è che voglia aggravare la mia posizione di querelato: una sentenza della Corte di Cassazione relativa a quel Piero Ricca che diede, appunto, del buffone a Silvio Berlusconi, stabilisce infatti che rivolgersi in tal fatta a un politico non costituisce reato, essendo solo una «forte critica che può esplicarsi in forma tanto più incisiva e penetrante, quanto più elevata è la sua posizione pubblica». E Italo Bocchino, che è di elevata posizione pubblica, niente meno che il vice del Presidente della Camera, si prenda dunque da me del buffone.
Ne abbiamo passate delle belle, qui al Giornale. Dapprima trattati da pirla allo sbaraglio (ci davano per falliti entro sessanta giorni), poi da appestati cui negare non dico la parola, ma il semplice buongiorno e infine da nemici da abbattere con ogni mezzo. Subimmo scioperi selvaggi in tipografia, boicottaggi nelle edicole, assalti alla redazione da parte di branchi di scalmanati armati di chiavi inglese e oggetti contundenti di diversa natura. Montanelli si beccò anche le pallottole. Per dire del clima, fummo costretti a prendere il porto d’armi – subito accordato per manifesto stato di pericolo – e girare con la pistola nella fondina. E tutto questo era niente di fronte alla quotidiana martellante, proterva, violenta e sguaiata aggressione verbale e giornalistica. Altro che stalking. La libertà di stampa e d’opinione, i diritti riconosciuti dalla Costituzione «più bella del mondo» sbandierati ieri e oggi da quelle forze politiche e giornalistiche che vantano la diversità antropologica, a noi del Giornale non era riservata. Per i lorsignori, o cantavi nel coro o volente o nolente ti tappavi la bocca.
Ma a quei tempi a mordere erano almeno le iene, belve dalla forte dentatura. Oggi escono dall’ovile e ci mordono o provano a farlo le pecore, gli Italo Bocchino. Che da buon fascista, ancorché rinnegato, la libertà di stampa e d’opinione non sa nemmeno dove stia di casa e dunque si stizzisce, adendo subito le vie legali, se un giornale come il Giornale non dico lo critica, ma non lo eleva – come fecero in un primo momento, sognando il ribaltone, La Repubblica, Santoro e il Tg3 – a statista d’alto rango, di grande cultura e di sopraffina intelligenza. Non si sente diffamato, Bocchino. Non ha trovato, in quello che ho scritto o hanno scritto i miei colleghi querelati, particolari disonorevoli sul suo conto, tali d’averne offeso la reputazione. Ciò che abbiamo scritto è solo che la sua lucida mente ha portato l’ambizioso progetto futurista di far fuori il governo Berlusconi a una Caporetto senza se e senza ma. Provi qualcuno a negarlo. Per addentarci, col suo morso di pecora, è dovuto dunque ricorrere allo stalking, accusandoci non solo di fargli perdere il sonno, ma di averlo fatto, insieme alla moglie, deperire e dimagrire. È dunque una fortuna che ci venga in aiuto la Corte di Cassazione (sentenza 19509 del 4 maggio 2006) permettendoci di dare, «accertati il sostrato fattuale della critica e l’utilità sociale della stessa», del buffone a chi impugna simili mezzucci per unirsi all’opera di quanti vollero e tuttora vogliono far tacere la voce del Giornale. Non ci riuscirono, con mezzi assai più devastanti, negli anni di piombo. Figuriamoci se ci riuscirà, tirando in ballo la silhouette sua e della sua signora, una nullità politica come Italo Bocchino. Il Giornale, 11 marzo 2011