LA CATASTROFE ATOMICA IN GIAPPONE FAVORISCE IL RITORNO AL CARBONE. CHI CI GUADAGNA?
Pubblicato il 16 marzo, 2011 in Economia, Politica | Nessun commento »
Il no all’atomo rilancia le energie inquinanti. Il sisma giapponese arricchirà petrolieri, produttori di metano e la Cina che detiene tecnologia fotovoltaica. Affari anche per chi ricostruirà.
Quanto rischia il mondo con la catastrofe giapponese? È la domanda del momento. Che però andrebbe posta anche al contrario: chi guadagna dal fallout, radioattivo e non, della crisi di Tokyo? Rispondendo otterremo una lista probabilmente più lunga dell’elenco delle perdite. Le grandi tragedie in tempo di pace non sono dissimili dalle guerre: uccidono vite ma rilanciano prepotentemente molti portafogli.
Una notizia dei primi giorni è passata quasi inosservata. Il Pil del Giappone, in declino da anni e nel 2010 sorpassato dalla Cina al secondo posto nel mondo, potrebbe ripiegare ancora nell’immediato ma su una prospettiva non troppo lunga beneficiare di un aumento superiore al 2 per cento. Cioè più elevato rispetto ad ogni altra grande economia occidentale, Usa e Germania a parte. Qualcuno ha ricordato il terremoto di Kobe nel 1995, che causò danni per 10 mila miliardi di yen, il 2,5 per cento del prodotto lordo giapponese di allora: eppure a fine anno il Giappone contò tre trimestri consecutivi di crescita. Quel qualcuno di buona memoria non è gente qualsiasi: si tratta della Nomura, la prima banca d’affari del Sol Levante e tra le più potenti del mondo. Nomura ha già sfornato un report che prevede due trimestri di recessione tra l’1,1 e l’1,5 per cento, e poi un periodo di ripresa. A fine anno, appunto, il Pil giapponese potrebbe segnare un rialzo del 2,1 per cento.
Chi ne beneficerebbe? «Innanzi tutto la domanda legata alla ricostruzione: acciaio, cemento, infrastrutture» scrivono gli analisti di Nomura. Che evocano il Namazu, il pesce gatto della mitologia nipponica. Vive sottoterra e quando sfugge alla guardia del dio Kashima si dibatte provocando terremoti e devastazioni, ma anche resurrezioni. Il Namazu è stato spesso associato allo spirito di rinascita del Giappone dopo le grandi sconfitte militari, soprattutto la seconda guerra mondiale. Ora però spopola tra Wall Street e le business room di Riyad, Mumbai, Mosca e ovviamente Shangai.
Anche JP Morgan traccia uno scenario a breve, che vede ribassi per le materie prime in relazione al rallentamento dell’economia, e poi un loro rilancio legato soprattutto all’energia, alle costruzioni e alla finanza. Tutti settori che dovrebbero beneficiare del temporaneo ko nipponico. Il motivo è evidente: l’ondata di ripensamenti sul nucleare pomperà da una parte le energie cosiddette verdi (fotovoltaico, eolico, biomasse), dall’altra le vecchie fonti quali petrolio, gas e carbone. Il che significa dire Cina, Arabia, Medio Oriente, Russia e ancora Cina. Se rallenta il nucleare le tre fonti energetiche più immediatamente disponibili sono il petrolio, il gas ed il carbone. Soprattutto quest’ultimo, sempre trascurato dagli analisti: ma quanti sanno che già secondo il World Energy Outlook 2010 da qui al 2035 il vecchio carbone è destinato a consolidarsi come la prima fonte energetica del mondo, passando dal 39 al 45 per cento della produzione globale? E indovinate chi sta facendo incetta di miniere e diritti, dall’Africa all’Asia? La Cina. Quanto al gas, la Gazprom stava rinegoziando le forniture con tutti i paesi europei in piena crisi libica: contratti lunghi e un po’ onerosi in cambio di forniture stabili e strategiche rispetto al greggio. Ora gli inviati del colosso russo, e di Vladimir Putin, moltiplicano i contatti. Su questo punto è giusto dare anche a Silvio ciò che è di Silvio: a lungo accusato di aver legato se stesso e l’Eni alla dipendenza energetica dal gas russo (files di Wikileaks in testa), il premier italiano vede in fondo premiate le proprie scelte: con petrolio e nucleare ballerini, il gas risulta indispensabile all’Italia. E certo Putin è tra coloro che si fregano le mani; ma non è il solo.
L’Edison, per esempio. Azienda simbolo del capitalismo privato italiano, con domicilio in Foro Buonaparte a Milano, è oggetto del pressing insistente della francese EdF, colosso energetico pubblico che sta a Nicolas Sarkozy quasi quanto la Gazprom sta a Putin. Una guerra tra azionisti vede contrapposti EdF e A2A, guerra che si era conclusa con una spartizione a vantaggio dei francesi, finché Giulio Tremonti non ha bloccato tutto. Ma è interessante l’obiettivo dichiarato della EdF: fare di Edison «l’hub strategico per il gas nel Sud Europa». Dopo il carbone il gas, dunque. E dopo ancora, ovviamente le energie verdi. Forse qualcuno ha notato che nel bagno generale di piazza Affari collegato alla crisi libica e al Giappone, tra i pochi titoli che hanno salvato le penne ci sono Enel Green Power e la Cir. Che cosa c’entra la finanziaria di Carlo De Benedetti? Semplice: controlla la Sorgenia, azienda deputata al business delle rinnovabili.
Stessa cosa in Germania per Q-Cells, Nordex e SolarWind (otto punti guadagnati in un solo giorno a Francoforte), in Danimarca per la Vestas Wind Systems (più 5 per cento alla borsa di Copenhagen), a Madrid per Gamesa. E se questo accade per aziende tutto sommato di dimensioni piccole e medie, proviamo ad immaginare le ricadute future per colossi come la tedesca E.On o l’americana Bechtel. Le rinnovabili però costano, più di quello che danno, e la situazione non cambierà per molti anni. Devono i
nsomma essere sovvenzionate, ed il record lo abbiamo proprio in Italia: quest’anno gli incentivi graveranno per 5,7 miliardi sulle bollette di tutti i cittadini, che di elettricità verde non consumano neppure un watt. Una situazione insostenibile per molti governi, Roma e Berlino in testa. Ma ora la lobby delle rinnovabili, attivissima a Bruxelles, sta proponendo facilitazioni comunitarie per i pannelli solari e le pale eoliche: e vedrete che la spunterà. E poco importa che già il 50 per cento della produzione di tecnologia fotovoltaica sia, di nuovo, in mano alla Cina.
Alla fine, però, è ancora a Wall Street che è bene guardare attentamente. Benché acciaccati, gli squali – tra cui il nostro Gordon Gekko – hanno un’altra grande chance, ed è impensabile che non la sfruttino. Per esempio: il Giappone ha il più alto debito pubblico mondiale, ma è anche con 882 miliardi di titoli di stato americani il maggior creditore degli Usa dopo la Cina. Se riduce un po’ per finanziare la ricostruzione, i prezzi dei T-bond scendono e di conseguenza il loro rendimento sale. A loro volta i titoli in yen saranno costretti ad offrire cedole superiori. Tutto questo potrebbe riaprire la guerra mondiale delle obbligazioni. Ma c’è qualcosa di ancora più importante nell’agenda giapponese del dopo disastro: si tratta dell’adesione alla Trans Pacific Partneship, una zona di libero scambio con Australia, Nuova Zelanda, Usa, Cile, Perù, Malaysia, Vietnam, Brunei, Singapore. La trattativa è stato finora osteggiato da due potenti lobby nipponiche, quella agricola e quella automobilistica.
Ora Tokyo potrebbe avere l’interesse o la necessità di uscire dal proprio non più splendido isolamento commerciale. L’asse che si creerebbe modificherebbe la geografia commerciale planetaria andando ad urtare le alleanze di Cina e India. Che a questo punto intensificherebbero le attenzioni verso le altre economie emergenti del Sud America, verso il Medio Oriente ed anche verso la vecchia Europa. «Ferro azzurro ama Anacot acciaio» diceva Michael Douglas. Occhio alle nuove Anacot: Gekko le ha già puntate. Il Tempo, 16 marzo 2011