L’AMARCORD DI D’ALEMA: SI DICE ORGOGLIOSO DI ESSERE STATO COMUNISTA. E NON SI VERGOGNA…
Pubblicato il 26 marzo, 2011 in Costume | Nessun commento »
L’amarcord è uno dei piatti forti della sinistra. Comunisti da giovani e radical chic quando sulla testa spuntano i capelli bianchi. Quanto si piacciono… Da Botteghe oscure a Sankt Moritz passando per Mosca, il vessillo con la falce e il martello rimane piegato nel cassetto tra un maglioncino di cashmere e una polo da velista e nel frattempo si pontifica. Massimo D’Alema guarda nello specchietto retrovisore e si compiace, quanto si compiace. E lo fa giocando in casa, teneramente vezzeggiato dalle colonne del giornale di Concita De Gregorio. “Non mi sono mai pentito di essere stato un militante e un dirigente del Pci”. Contento lui… L’autocritica non è il piatto forte della sinistra, il partito comunista più potente dell’Europa occidentale, quello che teneva un piede a Roma e l’altro in Russia, per lui “tra luci e ombre è stata una grandissima esperienza umana e politica”. Alla faccia del tanto sbandierato riformismo, una vernice sempre buona per dare un’imbiancata alle cariatidi leniniste. Questa volta Massimo D’Alema parla fuori dai denti. Sono le parole dell’ex premier Massimo D’Alema, in un’intervista all’Unità, nella quale ripercorre le tappe della sua formazione politica a partire dall’iscrizione al partito ai tempi del liceo, passando per il matrimonio quasi imposto dal Pci perchè era diventato “un personaggio pubblico”, all’incarico di segretario della Fgci. Non c’è che dire, una grande scuola di libertà.
“Me lo chiese Berlinguer – afferma D’Alema – e il partito decise di puntare su un esponente della generazione del ’68. Mi disse: abbiamo deciso che sarai il segretario della Fgci”. D’Alema confessa che scelse di farsi accettare “più sul piano politico” dal gruppo dove c’era Veltroni, Errani, Turco, “perchè credo che a molti stavo antipatico”. Un attimo di lucidità e a D’Alema sorge un dubbio legittimo.
Poi ricominciano i violini e D’Alema languido torna sulla vie en rouge:
“Quello era un partito nel quale i giovani avevano uno spazio – prosegue -, ma certo ci furono anche scontri durissimi”. Berlinguer, nel ricordo di D’Alema, “aveva una vera passione per le questioni internazionali” e aggiunge “era un uomo riservato, non amava esibirsi”.
Poi, ricordando una vacanza bohemien nella Cecoslovacchia invasa (sic), un dubbio sgonfia leggermente la vela memorialistica dello skipper di Capalbio: “Certo che ci furono ritardi nel prendere le distanze dal socialismo reale. Ma, per la mia generazione, fu la Cecoslovacchia, nel ‘68 il punto di rottura. Nei giorni dell’invasione ero a Praga, all’alba del 18 agosto mi affacciai dal mio alberghetto e vidi i carri armati sovietici. Scesi in piazza con i ragazzi cecoslovacchi, si disegnavano le svastiche sui tank. Quando arrivò la notizia che il Pci aveva disapprovato quell’invasione fu motivo di grande orgoglio. Però, da allora fino all’82, quando Berlinguer parlò dell’esaurimento della spinta propulsiva, sono troppi anni rispetto alla consapevolezza che quello era un mondo che non aveva nulla a che fare con noi”. Essì, un po’ troppi. Ventiquattro lunghissimi anni, fino alla morte di Breznev, in cui l’Unione Sovietica stagnava nel comunismo e D’Alema scalava le vette del Pci. Troppi ma non abbastanza, quarantatre anni dopo l’invasione della Cecoslovacchia D’Alema è ancora fiero del suo passato comunista…