Archivi per aprile, 2011

BERLUSCONI E NAPOLITANO ALLEATI E PAZIENTI

Pubblicato il 30 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Silvio Berlusconi e Giorgio Napolitano A dispetto di un certo immaginario collettivo che li vuole distanti anni luce per formazione e temperamento, Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi stanno affrontando insieme, con encomiabile pazienza, le proteste della Lega contro l’aumentato impegno dell’Italia nelle operazioni militari in Libia. Sarà inedita, ma è indice di buona salute delle istituzioni questa specie di ombra di Giobbe che si è allungata contemporaneamente sul Quirinale e su Palazzo Chigi.
La febbre leghista per le elezioni amministrative di metà e fine maggio non può sovvertire il buon senso, né provocare una crisi di governo, come lo stesso Umberto Bossi ha del resto riconosciuto invitando le opposizioni a non farsi illusioni. Ma una crisi si evita solo tornando a ragionare, non certo reclamando impossibili marce indietro del Cavaliere. Il leader del Carroccio non può ignorarne le funzioni assegnate dall’articolo 95 della Costituzione. Che dice, testualmente: «Il presidente del Consiglio dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri».

Il capo dello Stato ha già certificato la coerenza dell’aumentato impegno militare in Libia con la linea decisa, dopo la risoluzione delle Nazioni Unite, in una riunione del Consiglio Supremo di Difesa da lui presieduta al Quirinale. Vi partecipò, fra gli altri, il ministro leghista dell’Interno Roberto Maroni. Che farebbe bene ora non ad attizzare il fuoco, ma a svolgere opera di moderazione nel partito.  Francesco Damato, Il Tempo, 30 aprile 2011

LIBIA, I DUBBI DEI LETTORI SONO GLI STESSI DI BERLUSCONI, CON UNA DIFFERNEZA…

Pubblicato il 29 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Alcuni lettori in queste ore ci scrivono i loro dub­bi e le loro perplessità sulla linea del governo ri­spetto al nostro impegno milita­re in Libia e le polemiche che ne sono seguite, leggi caso Lega-Tremonti. Dicono di votare Pdl, sono sconcertati. Penso che par­lino degli stessi dubbi del presi­dente Berlusconi. La differenza tra noi e lui è che noi non abbia­mo l’onere e l’onore di dover prendere decisioni. Possiamo non condividere, cambiare opi­nione, addirittura partito, sen­za che questo metta a rischio nulla. Anche il premier ha le sue idee personali, e quelle sulla guerra alla Libia sono chiare. Per quello che ne so io non l’avrebbe mai fatta, per indole, per calcolo e per i suoi rapporti personali con Gheddafi. Un pre­m­ier deve però prima di tutto di­fendere gli interessi, gli impegni e la credibilità del suo paese. E qui le cose si complicano.

Non entrare nella coalizione era im­possibile. Lo imponevano il fare parte della Nato, la richiesta de­gli alleati di usare le nostri basi (già questo è schierarsi), la no­stra storia. Obiezione: la Germa­nia, per esempio, ha avuto la for­za di dire no. Certo, ma primo non è stata chiamata, secondo non ha nessun motivo di farsi avanti. Ai più infatti sfugge che gli interessi italiani in Libia, a dif­ferenza di quelli tedeschi e co­me oggi documentiamo, rappre­sentano circa il 3 per cento del nostro pil, una montagna di sol­di che non è il caso di regalare, nel dopo Gheddafi senza di noi, a francesi e americani, sottraen­dola alle nostre necessità per di più in un momento come que­sto. Sono, questi, calcoli che solo il premier deve fare, in solitudi­ne.

Tutti gli altri, ministri e parti­ti di maggioranza e di opposizio­ne, esprimono opinioni, alcune condivisibili, altre strampalate. Ma a un certo punto bisogna de­cidere, non su cosa è più giusto in astratto ma scegliendo la via che danneggia meno l’Italia nel suo complesso. Questa è la poli­tica. Tirare una bomba atomica su Hiroshima, per esempio, non è certo stato bello, ma un presidente ha dovuto prendersi la terribile responsabilità in no­me di un interesse superiore. E veniamo al caso Lega-Tre­monti. Ieri siamo stati duri con il ministro. Ci risultava, e nessu­no ci ha smentito, che si fosse mosso dietro le quinte in manie­ra ostile al governo per alcune decisioni (Draghi alla Banca Eu­ropea, via libera all’opa france­se su Parmalat) facendo sponda sugli amici leghisti già arrabbia­ti di loro per il caso Libia. La criti­ca non riguardava il ministro, al quale confermiamo tutta la no­stra stima, ma il politico. Primo perché non è il caso di aggiunge­re di questi tempi benzina sul fuoco, secondo perché ritenia­mo che un presidente del Consi­glio, in quanto punto di sintesi di un organo collegiale, abbia il diritto-dovere di assumere su di sé, dopo aver ascoltato tutti, de­cisioni strategiche. Questo non lo diciamo noi ma lo hanno sta­bilito gli elettori, votandolo co­me premier. Per carità, dissenti­re è legittimo e a volte utile. Al­tra cosa è rivendicare il potere che spetta soltanto a lui.

CELENTANO IN DELIRIO:”I NUCLEARISTI? DEMENTI”. E SE IL DEMENTE FOSSE LUI?

Pubblicato il 29 aprile, 2011 in Costume, Economia | No Comments »

Farneticazioni deliranti. Insulti intrisi di odio e conditi con una pseudo coscienza ambientalista. L’ultima lettera di Adriano Celentano – ormai troppo vecchio per vestire i panni del ragazzo della via Gluck – è indirizzata alla redazione del Fatto Quotidiano. Un appello a “studenti, comunisti, fascisti, leghisti e operai costretti a lavorare nell’insicurezza” per affossare il nucleare in Italia: “Essere nuclearisti  non è solo una bestemmia, ma significa essere dementi fin dalla nascita”. Ma a leggere lo sproloquio del Molleggiato viene da chiedersi se il demente non sia proprio lui.

C’era un tempo in cui Celentano inviava le sue lettere al Corriere della Sera. Erano i tempi in cui il cantautore cercava di accreditarsi come il guro ambientalista super partes. Arci noti i suoi attacchi contro i palazzinari milanesi. Oggi il Molleggiato fa un salto avanti. E scrive al quotidiano di Travaglio & Co. per sostenere – apertamente – la battaglia dell’idv di Antonio Di Pietro. Il referendum conhtro il nucleare, contro la privatizzazione dell’acqua e contro il legittimo impedimento. Il bersaglio – manco a dirlo – è il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, colpevole di “sfidare l’intelligenza anche di chi lo ha votato, nella sua demoniaca voglia di avvelenare gli italiani”.

Celentano ne ha un po’ per tutto. Anche per il ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani. “Che peso può avere oggi la saggezza degli italiani – si chiede il cantautore – se poi chi ci governa fa dei discorsi cretini”. Perché per Celentano chi non la pensa come lui è un cretino, un demente. “Berlusconi – attacca – è ormai in preda a uno stato confusionale”.

Eppure a leggere la lettera di Celentano viene proprio da chiedersi se sia stata scritta da una persona non disturbata. Il Molleggiato si rivolge, infatti, a Silvia, cioè “ciò che è rimasto della coscienza” del premier. “Per meglio identificarla a chi legge – spiega Celentano – la chiamerò con lo stesso nome del presidente del Consiglio, ma al femmile, poiché mi piace immaginare che la voce della coscienza abbia piuttosto i modi dolci e gentili di una bella figura femminile che non quelli rudi e maschili”. Un delirio, appunto. Un delirio infarcito di insulti in cui si accosta il nucleare al caso Ruby, “il malsano gesto di Lassini” alle berzellette del Cavaliere. “Non si tratta più di destra o sinistra – continua nella farneticazione – per capire che un uomo come Berlusconi non solo non può governare l’Italia, ma nessun paese. Al massimo lui e i suoi falsi trombettieri possono andare bene per una piccola tribù, dove tutti quanti, raccolti intorno al capo, si nutrono a vicenda della loro stessa falsità“.

Ci vuole un immane sforzo per portare a termine la lettura. Non solo perché i deliri del Molleggiato sono pesanti da digerire, ma anche perché il nuovo tribuno del Fatto – nell’intento di smascherare le “spaventose bugie” di un premier “senza un minimo di pudore” – non ha né capo né coda. Chiama a raccolta le truppe anti Cav per far cadere il governo ma, come al solito, non va oltre allo scherno e agli insulti. Ancora una volta non si capisce a quale titolo Celentano dia titoli a destra e a manca: sta a vedere che lo strambo sia il Molleggiato e non il Cav… Andrea Indini, Il Giornale, 29 aprile 2011

……Premesso che noi siamo, da sempre, nuclearisti convinti, e premesso che non ci passa “manco per la capa” di dare del demente a chi nuclearista non lo è, capita spesso che chi non abbia molti argomenti a supporto delle sue tesi e talvolta quando avverte disagio a sostenerle , dia del demente a chi non  la pensa come lui. Ma si dà il caso che spesso ad essere demente davvero (da ricovero immediato negli appositi reparti psichiatrici) è proprio chi dà del demente all’altro….torneremo sull’argomento perchè ci capita per le mani un caso di demenza semigiovanile che merita approfondimenti. g.

UMBERTO L’AFRICANO

Pubblicato il 29 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Umberto Bossi La crisi beduina è grave ma non seria. La Padania esiste, solo che non è quella che immagina Umberto Bossi. O meglio, non è tutta così. La prova è che la Lega è sulla piazza della politica da oltre vent’anni, presidia il territorio di riferimento, ma non è mai riuscita a trasformarsi in un partito per la maggioranza degli elettori del Nord. La realtà, piaccia o meno, è che senza i voti di Berlusconi non ci sarebbero mai stati governi nazionali e locali a trazione leghista. Certo, qualcuno potrebbe dire che la formula vale anche al contrario, senza Bossi non c’è Berlusconi, ma attenzione: il Carroccio esce dal suo anonimo garage del Varesotto solo quando il Cavaliere scende in campo. Prima è un puntino nell’universo politico, pulviscolo del Nord. Dopo Silvio, cresce come un satellite importante che ruota intorno a un pianeta gigante in via di formazione. Che succede oggi? La coppia scoppia? Silvio e Umberto si separano in nome di Maroni? La storia ci dà dei fatti a cui agganciare il presente. Quando Umberto fece le prove tecniche di distacco dal Cavaliere, subito dopo la crisi del 1994, fece partire saette, rutti, tuoni e fulmini contro l’uomo di Arcore, ma non trovò una grande strada spianata. No voti, molti limits. E infatti l’uomo in canottiera tornò all’alleanza con Forza Italia in breve tempo. Il fatto è che solo restando nella scia berlusconiana la Lega è riuscita a pesare, conquistare potere (vedere alla voce lottizzazione) e condizionare il governo. Ma allora cosa sta succedendo? Si apre una crisi nella maggioranza? L’asse del Nord è incrinato per sempre? Ho la netta impressione che il rampantismo leghista di queste settimane sia figlio di un calcolo errato di Bossi e dei suoi colonnelli. Troppa sicurezza. Pensano che siano già maturi i tempi della «autonomizzazione» del Carroccio da Berlusconi e il giochetto sia solo una questione di tempo. Non nego un fondamento a questa visione delle cose, ma se è così, allora porta direttamente a due risultati possibili: 1. la Lega corre da sola e ritorna automaticamente un partito secessionista e anti-sistema; 2. la Lega fa un patto con il Pd, entrambi i partiti rinunciano a un pezzo importante della loro retorica e propaganda attuali e mettono sul mercato una nuova alchimia. Buona fortuna. In entrambi i casi la soluzione è un gioco d’azzardo altissimo e una evidente «diminutio» del ruolo del partito di Bossi, al quale in realtà conviene continuare a vestire i panni del movimento di lotta e di governo. Finché è possibile. Perché prima o poi il conto da pagare arriverà anche ai leghisti. Le loro sparate contro l’immigrazione fanno a pugni con la realtà e la ricetta delle cannonate e del filo spinato è un colpo di spingarda da fumetto. Il protezionismo economico e l’euroscetticismo in camicia verde non hanno portato a casa alcun risultato concreto a parte alcune battute di Speroni e Borghezio. Rispetto al pragmatismo berlusconiano, i leghisti affannano. Per questo Bossi quando si lamenta dei risultati del vertice italo-francese non è credibile. Il presidente del Consiglio in una condizione oggettivamente difficile – con una serie di errori gravi sulla Libia consumati anche per colpa della Lega – forse riesce a salvare la baracca: difende il nostro business energetico, concorre a piazzare un italiano (Mario Draghi) a capo della Bce e si arrende all’evidenza che gli imprenditori italiani non vogliono scucire il grano per competere con la Francia, dal lusso (Bulgari) al latte (Parmalat). Berlusconi in questo scenario fa quadrare il bilancio con quel che ha realmente a disposizione in cassa, non con i sogni. Il mondo dipinto dai leghisti è una metafora che serve ad acchiappare voti al Nord, ma non a comprendere cosa sta accadendo e soprattutto a risolvere il problema dei problemi dell’Italia contemporanea: come uscire dal ruolo di preda e diventare almeno un piccolo e rapido predatore. Come continuare a navigare nel Mediterraneo in prima e non in terza classe. Come sopravvivere alla globalizzazione. E la campagna libica fa parte di questo scenario. Bossi è un uomo concreto, sa bene che viviamo in uno scenario dove vale più che mai quel che Wall Street non dimentica: «Money never sleeps», i soldi non dormono mai. Il Tempo, 29 aprile 2011. Marlowe

L’ASSOCIAZIONE MAGISTRATI SI INFILTRA NELLE UNIVERSITA’ PER FARE PROPAGANDA CONTRO LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA

Pubblicato il 27 aprile, 2011 in Costume, Giustizia | No Comments »

“L’Associazione nazionale magi­s­trati sarebbe interessata a pro­muovere incontri di tipo infor­mativo con gli studenti degli atenei, in merito al progetto di riforma costituzio­nale della Giustizia”. È una lettera invia­ta in questi giorni alla presidenza della facoltà di Architettura di Napoli, mica di Giurisprudenza. E diramata a tutte le cat­tedre. L’iniziativa non sarebbe solo loca­le.

Non sono un giurista o un cultore di questioni giudiziarie, ma non riesco a tro­vare precedenti a un’iniziativa del gene­re. Mi pareva già un cedimento dei magi­st­rati accogliere inviti per dibattiti “politi­ci”. Ora addirittura i magistrati stessi pro­muovono quei dibattiti, chiedono di co­miziare per propagandare le proprie tesi contrarie alle leggi varate dal Parlamen­to. Non riesco a trovare analogie di indottrinamento studentesco da part­e di un organo dello Stato se non in Paesi sotto tutela dei militari o dei guardiani della Rivolu­zione, tipo pasdaran. Fino a qualche tem­po fa coltivavo un’idea sacra della giusti­zia e un rispetto istituzionale della magi­stratura, almeno prima di averne fatto esperienza da cittadino. Tuttora rifiuto di tifare nel derby dei poteri tra legislati­vo, esecutivo e giudiziario; trovo avvilen­ti le tifoserie. Ma qui siamo all’ultimo sta­dio. Prima si perse la sobrietà del ruolo, il rigore impersonale, dandosi ad uno sfre­nato protagonismo che debordò dalle se­di giudiziarie ai media fino alla letteratu­ra e al teatro. A Bari i magistrati sono stati protagonisti e registi di rappresentazio­n­i teatrali con attori istituzionali in costu­me, come il presidente della Regione Pu­glia Vendola e altri politici, in spettacoli finanziati con denaro pubblico da Regio­ne, Comune e Provincia. Ora siamo alla predicazione e all’istigazione studente­sca. Conosco l’alibi: siamo sotto una dit­tatura, la Costituzione è in pericolo, dun­que ogni reazione è ammessa. A quando le ronde togate, la trasvolata di magistra­ti su Montecitorio con lanci dimostrativi e le spedizioni punitive? Succedeva al tempo dei giacobini che i tribuni confu­tassero in assemblea le proposte di leg­ge. Però non esercitavano il potere giudi­ziario. Erano tribuni, non magistrati. Marcello Veneziani

BOMBE, IMIGRATI E LEGA: BERLUSCONI VA IN CONTROPIEDE

Pubblicato il 27 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

A leggere certi giornali sembra che Silvio Berlu­sconi sia felice di bombardare i libici, al contra­rio di Umberto Bossi che invece ha orrore delle bombe e del san­gue. Spero che nessuna persona dotata di buonsenso cada in que­sto tranello mediatico. Non sol­tanto il premier odia la guerra tanto quanto l’amico Umberto, ma per quanto ne so ha in più l’angoscia di dare il via libera ai nostri caccia contro una perso­na, Gheddafi, con la quale ha in­tratte­nuto un rapporto persona­le leale e sincero. Anzi, se france­si e americani non hanno già ra­so­al suolo Tripoli e se c’è una spe­ranza che ciò non accada lo si deve proprio al freno a mano che il governo italiano ha tirato sin dall’ inizio sul caso Libia. Prima ha preteso che l’operazione passas­se sotto il comando della Nato, poi ha tenuto aperto l’unico ca­nale di trattativa con il rais, oggi ha ottenuto regole rigide per le operazioni (solo obiettivi milita­ri con armamenti limitati). Cose non da poco, se addirittura ieri Sarkozy è sceso a Roma a trattare la pace con Berlusconi, ricono­scendo all’Italia il ruolo e la digni­tà che le competono, aprendo per la prima volta una trattativa seria a livello europeo sulla que­stione dei clandestini in arrivo dalle coste del Nord Africa e fino ad oggi lasciati sul gobbone no­stro.

La contraddizione tra Pdl e Bossi, quindi, è soltanto appa­rente. Del resto la posizione del­la Lega è stata chiara fin dall’ini­zio e coerente con il suo Dna cul­turale che la vincola al principio dell’autodeterminazione dei po­poli e quindi alla non ingerenza in case altrui. In questo senso le questioni dei costi e dei clandesti­ni, sollevate un po’ da tutto il cen­trodes­tra e con forza da esponen­ti del Carroccio, sono importanti ma non decisive. Più che altro funzionano eccome in chiave di consenso elettorale, e Bossi che di voti se ne intende non ha per­so la ghiotta occasione di smar­c­arsi con quel cinismo che lo con­traddistingue: noi non sparia­mo, dice. Un lusso, quello delle parole, che lui può permettersi, a differenza del capo del governo (e pure di quello dello Stato) che oltre a pensare al federalismo ha il compito e l’obbligo di tenere l’Italia nel mondo, di rispettare accordi e trattati internazionali firmati non soltanto da lui.

A Berlusconi si possono rinfac­ciare alcune cose ma non certo di non aver ingaggiato, sulla guer­ra alla Libia e sui clandestini, un braccio di ferro con i potenti del mondo. Addirittura l’Italia è riu­sci­ta ad aprire una breccia sull’in­violabilità dell’architettura euro­pea, e ieri è stato Sarkozy a fare sua la tesi di Tremonti sulla ne­cessità di rivedere trattati ormai obsoleti, compreso quello sulla libera circolazione degli uomini. Dall’alleanza militare e politica della Nato non si può uscire, ma condizionarne le scelte dall’in­terno si può ed è esattamente quello che stiamo facendo.

Per via di tutto questo aspette­r­ei a parlare di crisi della maggio­ranza, di vittoria della linea fran­cese. Quando si gioca con avver­sari più grandi e quindi più forti è da suicidi usare la forza. Meglio, se si vuole arrivare sull’obiettivo, usare altre tecniche. Il calcio inse­gna, molte partite si vincono con catenaccio e contropiede. E scommetto che anche questa volta Bossi e Berlusconi, con ruo­li diversi, stanno tirando nella stessa porta. Il Giornale, 27 aprile 2011

BERLUSCONI DIFENDE IL NUCLEARE: STOP SOLO PER EVITARE CHE IL REFERENDUM POSSA FAR SALTARE PER SEMRE L’OPZIONE DEL NUCLEARE

Pubblicato il 26 aprile, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Berlusconi difende il nucleare: stop solo per saltare referendum

Roma, 26 apr. (TMNews) – Lo stop del governo al referendum non è un addio definitivo all’energia prodotta dall’atomo. Piuttosto è una pausa temporanea per evitare che il referendum di giugno, dopo la tragedia di Fukushima, affossasse definitivamente il piano italiano di ritorno al nucleare. A chiarirlo è stato lo stesso premier Silvio Berlusconi nel corso dell’incontro bilaterale Italia-Francia a Villa Madama. “Se fossimo andati oggi – ha detto Berlusconi – a quel referendum il nucleare non sarebbe stato possibile per molti anni a venire”. Berlusconi ha infatti voluto sottolineare che il governo italiano resta convinto che “l’energia nucleare sia il futuro per tutto il mondo”. Pertanto vanno avanti anche gli accordi che l’Italia ha già stretto con la Francia e in particolare quello tra l’italiana Enel e la francese Edf: “I contratti continuano – ha precisato il premier – non vengono abrogati”. Nel corso della conferenza a Villa Madama Berlusconi ha ricordato come l’Italia negli anni ‘70 fosse all’avanguardia nella realizzazione di centrali nucleari, progetti che, a causa “dell’ecologismo di sinistra che si è messo di traverso”, ha dovuto abbandonare. Da allora l’Italia ha acquistato, ha spiegato il premier “tutta l’energia che consuma dall’estero”, con un aggravio su famiglie ed imprese del 30-40 o anche 50 per cento di costi aggiunti”. “L’evento giapponese, a seguito dei sondaggi che abitualmente facciamo sull’opinione pubblica, ha spaventato ulteriormente i nostri cittadini”, ha ammesso Berlusconi. È per questo che il governo “responsabilmente – ha detto Berlusconi – ha ritenuto di introdurre questa moratoria per restare nel nucleare e far sì che si chiarisca la situazione giapponese e che magari dopo uno o due anni si possa ritornare ad avere una opinione pubblica consapevole della necessità di tornare all’energia nucleare”. ANSA, 26 APRILE 2011

NONOSTANTE TUTTO SONO ANCORA PER IL NUCLEARE, di Marcello Foa

Pubblicato il 26 aprile, 2011 in Economia | No Comments »

Nonostante Fukushima, continuo ad essere favorevole all’energia nucleare. La mia posizione è pragmatica: considerati i limiti produttivi delle energie rinnovabili, il progressivo esaurimento del petrolio, gli elevati standard di sicurezza delle nuove centrali e la necessità di sottrarsi o comunque di limitare la dipendenza dall’estero, ritengo che un Paese moderno debba coprire con l’energia nucleare una parte del proprio fabbisogno.

Per sempre? No, fino a quando non verranno sviluppati metodi alternativi che consentano di produrre grandi quantità di energia con minori inquinamenti e rischi rispetto al nucleare e a petrolio-gas. Qualche tempo fa ad esempio ho visto un filmato sull’energia marina che mi ha affascinato per le sue straordinarie potenzialità. E’ credibile? Realizzabile? Non sono un esperto e dunque non so valutarne l’attendibilità, però varebbe la pena di considerarle attentamente. nel frattempo, però, il nucleare resta – a mio giudizio – una variabile obbligata.

Per questo non approvo la decisione del governo italiano di rinunciare alle nuove centrali; non la approvo ma non mi meraviglia. E’ appena uscito un sondaggio dal quale risulta che oggi gli italiani temono il nucleare più … dei giapponesi vittima di Fukushima. Secondo un sondaggio Win-Gallup-Doxa in Italia i contrari sono il 74% della popolazione, in Giappone il 47%. Nel mondo in media il numero dei contrari al nucleare è passato dal 32% nella situazione pre-catastrofe all’attuale 43%, con un incremento quindi del +11% rispetto al periodo precedente alla tragedia di Fukushima.

Più contrari dell’Italia sono l’Austria (90%), la Grecia (89%), mentre in Germania i contrari sono saliti al 72%.

E questi dati spiegano più di qualunque analisi le ragioni dello spettacolare dietro front della Markel e di Berlusconi: non possono andare contro opinioni così radicate, perlomeno non in prossimità di elezioni. La Merkel, infatti, ha svoltato prima delle elezioni del Baden Wuerttemberg, anche se la giravolta non è servita a evitare una sconfitta annunciata. Berlusconi non teme la sconfitta nel feudo di Milano (dove è improbabile che Pisapia riesca a battere la Moratti), ma vuole evitare il ballottaggio e deve evitare il referendum di giugno, proprio sul nucleare.

Morale: le decisioni sono state prese in fetta, dettate prevalentemente da motivi contingenti. E’ possibile che Berlusconi, scampato il rischio referendum ci riprovi, ma non ne sono certo, perchè l’onda emotiva di Fukushima si farà sentire a lungo, come accadde per Chernobyl. E come allora rischiano di essere sacrificati gli interessi strategici di lungo periodo dell’Italia. Che infatti soffrirà pagherà bollette sempre più salate e sarà sempre più ricattabile.

Ne valeva davvero la pena? Marcello Foa, giornalista, dal suo blog

…………….Condividiamo! g.

LA SINISTRA PRIGIONIERA DEL 25 APRILE

Pubblicato il 26 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Silvio Berlusconi Molti nella sinistra italiana e dintorni hanno celebrato il 66.mo anniversario della liberazione dal nazifascismo pensando ad un’altra liberazione ancora da venire: quella da Silvio Berlusconi. Del quale desiderano la fine politica più ancora dell’uscita dalla crisi economica, o della guerra in Libia, o delle tante altre crisi che insanguinano troppe parti del mondo, spesso a prezzo anche della vita dei militari italiani impegnati a fronteggiarle. Se si andava ieri sul sito web dell’Unità si trovava un titolo a tutta pagina sul 25 aprile con la cancellazione però dell’anno 1945, sostituito con l’avverbio sempre. La battaglia adesso sarebbe «contro l’attacco alla democrazia» proveniente dal governo del Cavaliere e dalla sua maggioranza. Già il giorno prima, d’altronde, il giornale storico del Pci e delle sigle successive era arrivato in edicola con questo allusivo titolo antiberlusconiano, a tutta pagina: Liberiamoci. Gli faceva concorrenza sul Manifesto un corsivo ragionato di Alessandro Rebecchi con l’auspicio finale di «una liberazione urgente» dall’odiato Berlusconi.

L’odioso e purtroppo ricorrente accostamento della liberazione dal nazifascismo al desiderio di quella da Berlusconi ricorda ciò che poco prima di morire, in un saggio dedicato a Dossetti, scrisse l’indimenticabile don Gianni Baget Bozzo. Che commentò così le reazioni immediatamente opposte dalla sinistra alla prima vittoria elettorale del Cavaliere, nel 1994: «Si creò il clima di una nuova guerra civile, che riproduceva quella tra Resistenza e fascismo e che vedeva nei partiti democratici dell’alleanza berlusconiana i nuovi fascisti». Il povero don Gianni non immaginava che dopo qualche anno la situazione di Berlusconi si sarebbe, diciamo così, aggravata sul terreno dell’assonanza con “i nuovi fascisti”. Dai quali sarebbe riuscito a sfilarsi tra l’interesse, anzi l’entusiasmo di certa sinistra addirittura Gianfranco Fini. Che pure era, ed è storicamente, il più diretto erede politico del fascismo italiano, nonostante il “male assoluto” improvvisamente scoperto in quello stesso Mussolini da lui ancora considerato e definito nel 1994, dopo la vittoria elettorale con un imbarazzatissimo Berlusconi, “il più grande statista del secolo”. Ieri Fini, che ha tuttavia preferito starsene fra i militari italiani in Afghanistan, avrebbe paradossalmente rischiato meno del Cavaliere unendosi in piazza ai celebranti del 25 aprile.

I fischi, in compenso, se li è presi a Roma il ministro della Difesa Ignazio La Russa, che tra Fini e Berlusconi, quando si è consumata la rottura, ha avuto evidentemente il torto di scegliere il secondo. È solo l’ultimo dei paradossi dei 150 anni della storia dell’unità italiana che abbiamo cominciato a celebrare nelle scorse settimane. E che hanno fornito ieri al presidente della Repubblica un’altra occasione per rinnovare i suoi inascoltati appelli alla concordia e all’abbassamento dei toni nel confronto, si fa per dire, tra le forze politiche. Un bel confronto, quello in cui una parte parla dell’altra come di qualcosa da cui bisogna liberarsi, per quanto sia proprio quella provvista della maggioranza in Parlamento, e uscita nettamente vincente nell’ultimo appuntamento con le urne. Forse la sinistra italiana ha mutuato in politica la filosofia finanziaria della buonanima di Enrico Cuccia, che combinava e scombinava tutto nel suo ufficio a Mediobanca sostenendo che le azioni andassero non contate ma pesate. A pesarle naturalmente provvedeva direttamente lui. Massimo D’Alema, tanto per fare un nome, muore dalla voglia di fare altrettanto a Montecitorio. Nel secolo e mezzo di unità d’Italia il mio amico Sandro Fontana, docente di storia contemporanea all’Università di Brescia, già vice segretario nazionale della Dc, direttore del Popolo, ministro dell’Università e della ricerca scientifica e vice presidente del Parlamento Europeo, ha giustamente indicato in un libro ancora fresco di stampa- Il Dna degli Italiani, Marsilio editore- “troppe guerre civili”, cioè “fratricide”.

L’ultima delle quali è in corso, speriamo solo metaforicamente, per la presunta liberazione da Berlusconi. L’elenco comincia con quella “ingaggiata, all’indomani dell’unità, contro il brigantaggio meridionale”. Seguono “quella che ha favorito nel primo dopoguerra l’avvento del fascismo e che s’è prolungata, con altro spargimento di sangue, dal 1943 al 1945″, ma anche oltre perché i partigiani continuarono ad ammazzare fascisti veri o presunti dopo la conclusione formale della Resistenza. Si aggiungono infine la “guerra civile strisciante e manichea” che ha accompagnato quella “fredda fino al crollo del muro di Berlino nel 1989″ e il terrorismo. Che “dal 1968 al 1978 ha insanguinato con centinaia di morti il nostro Paese ed è stato prodotto dal falso mito della Resistenza tradita”. Che è un po’ anche il “mito” sventolato ieri con gli attacchi diretti o indiretti, espliciti o impliciti, a Berlusconi e ai suoi progetti di riforma costituzionale. Francesco Damato, Il Tempo, 26 aprile 2011

A DAMASCO SI MUORE: L’OCCIDENTE SE NE INFISCHIA PERCHE’ LI’ NON CI SONO PETROLIO E GAS

Pubblicato il 26 aprile, 2011 in Politica estera | No Comments »

Tremila soldati, appoggiati da otto carri armati e due blindati, hanno iniziato ieri il rastrellamento a Deraa. Le testimonianze sono drammatiche: “Stanno bombardando coi mortai il centro della città e colpiscono le case con i mitra pesanti”. E ancora: “Avanzano a plotoni nelle strade e sparano all’impazzata, a caso”. Il regime baathista siriano ha deciso di soffocare la ribellione della città che ha dato inizio alla protesta, dispiegando la stessa ferocia con cui nel 1982 il padre di Bashar, Hafez, soffocò la rivolta di Hama. La differenza è che questa volta il rais, dopo le prime stragi, ha affiancato alla violenza delle brigate speciali guidate dal fratello Maher un volto “riformatore”. Ha ricevuto i parenti delle prime vittime, le ha chiamate “martiri”, ha licenziato il governatore della città, ha promesso riforme.

Questo è il gioco delle parti tra due fratelli che incarnano l’ala politica e l’ala militare del Baath, ma è chiaro che oggi a Damasco prevale la linea della repressione più spietata. Abolite le leggi di emergenza in vigore dal 1963 – è l’unica riforma attuata, ma di fatto non ha ridotto la pressione del regime, anzi – il governo è passato direttamente alla legge marziale (è impressionante il video sull’ingresso dei tank e della fanteria a Deraa), con un incremento esponenziale dei morti: un centinaio al minimo le vittime nel solo fine settimana tra Duma, al Maadamiyeh, i sobborghi popolari di Damasco, Jabla, Deraa e altri centri (i morti sono oltre quattrocento dall’inizio della rivolta).

Ieri la Siria ha anche chiuso
la sua frontiera con la Giordania perché, secondo il regime, il governo di Amman ha “spalleggiato gli insorti”. Mentre gli Stati Uniti valutano la possibilità di imporre “sanzioni mirate”, la crisi siriana si internazionalizza. La Giordania, infatti, appartiene allo schieramento saudita-sunnita, strettamente alleato con gli Stati Uniti e contrapposto al blocco dell’“Internazionale sciita” che fa perno sull’alleanza tra la Repubblica islamica dell’Iran e la Siria. Negli ultimi mesi, il “blocco sunnita” (la definizione è dell’ex segretario di stato americano Condoleezza Rice, che teorizzò la funzione di contenimento di Teheran proprio facendo leva sul fronte dei paesi sunniti, che comprende soprattutto l’Arabia Saudita e l’Egitto) è stato indebolito dalla rivoluzione del Cairo, che ha reso instabile – e molto più aperturista nei confronti degli ayatollah di Teheran – il più importante tra i paesi arabi del blocco, così come dalla rivolta sciita in Bahrein e dalla crisi yemenita. Ma ora la rivolta dei sunniti (e dei curdi) siriani contro la minoranza sciita al governo di Damasco – discretamente appoggiata, appunto, da Giordania e Arabia Saudita – non soltanto pareggia i rapporti di forza con l’Iran, ma apre una faglia di instabilità pericolosa nel cuore della “rivoluzione sciita”.

Il regno di Riad aveva già da tempo cercato di dividere la primavera araba in due tronconi: le rivolte del Golfo e tutte le altre. Se sulle seconde – come si è visto in Libia – l’Arabia Saudita ha lasciato che la comunità internazionale intervenisse e guidasse il gioco, con le proteste nel Golfo non ha permesso alcuna ingerenza, arrivando anche ad atteggiamenti ben poco diplomatici con l’alleato americano. La rivolta in Bahrein è stata sedata con la forza dalle truppe saudite; in Yemen, il rais Saleh sta negoziando una via d’uscita cui Riad non è certo estranea. In più, internamente re Abdullah non deve temere le proteste – gli appuntamenti per le rivolte sono andati deserti –, mentre nel rivale Iran l’Onda verde rumoreggia: “Perché gli altri sì e noi no?” 26 aprile 2011