Molti nella sinistra italiana e dintorni hanno celebrato il 66.mo anniversario della liberazione dal nazifascismo pensando ad un’altra liberazione ancora da venire: quella da Silvio Berlusconi. Del quale desiderano la fine politica più ancora dell’uscita dalla crisi economica, o della guerra in Libia, o delle tante altre crisi che insanguinano troppe parti del mondo, spesso a prezzo anche della vita dei militari italiani impegnati a fronteggiarle. Se si andava ieri sul sito web dell’Unità si trovava un titolo a tutta pagina sul 25 aprile con la cancellazione però dell’anno 1945, sostituito con l’avverbio sempre. La battaglia adesso sarebbe «contro l’attacco alla democrazia» proveniente dal governo del Cavaliere e dalla sua maggioranza. Già il giorno prima, d’altronde, il giornale storico del Pci e delle sigle successive era arrivato in edicola con questo allusivo titolo antiberlusconiano, a tutta pagina: Liberiamoci. Gli faceva concorrenza sul Manifesto un corsivo ragionato di Alessandro Rebecchi con l’auspicio finale di «una liberazione urgente» dall’odiato Berlusconi.
L’odioso e purtroppo ricorrente accostamento della liberazione dal nazifascismo al desiderio di quella da Berlusconi ricorda ciò che poco prima di morire, in un saggio dedicato a Dossetti, scrisse l’indimenticabile don Gianni Baget Bozzo. Che commentò così le reazioni immediatamente opposte dalla sinistra alla prima vittoria elettorale del Cavaliere, nel 1994: «Si creò il clima di una nuova guerra civile, che riproduceva quella tra Resistenza e fascismo e che vedeva nei partiti democratici dell’alleanza berlusconiana i nuovi fascisti». Il povero don Gianni non immaginava che dopo qualche anno la situazione di Berlusconi si sarebbe, diciamo così, aggravata sul terreno dell’assonanza con “i nuovi fascisti”. Dai quali sarebbe riuscito a sfilarsi tra l’interesse, anzi l’entusiasmo di certa sinistra addirittura Gianfranco Fini. Che pure era, ed è storicamente, il più diretto erede politico del fascismo italiano, nonostante il “male assoluto” improvvisamente scoperto in quello stesso Mussolini da lui ancora considerato e definito nel 1994, dopo la vittoria elettorale con un imbarazzatissimo Berlusconi, “il più grande statista del secolo”. Ieri Fini, che ha tuttavia preferito starsene fra i militari italiani in Afghanistan, avrebbe paradossalmente rischiato meno del Cavaliere unendosi in piazza ai celebranti del 25 aprile.
I fischi, in compenso, se li è presi a Roma il ministro della Difesa Ignazio La Russa, che tra Fini e Berlusconi, quando si è consumata la rottura, ha avuto evidentemente il torto di scegliere il secondo. È solo l’ultimo dei paradossi dei 150 anni della storia dell’unità italiana che abbiamo cominciato a celebrare nelle scorse settimane. E che hanno fornito ieri al presidente della Repubblica un’altra occasione per rinnovare i suoi inascoltati appelli alla concordia e all’abbassamento dei toni nel confronto, si fa per dire, tra le forze politiche. Un bel confronto, quello in cui una parte parla dell’altra come di qualcosa da cui bisogna liberarsi, per quanto sia proprio quella provvista della maggioranza in Parlamento, e uscita nettamente vincente nell’ultimo appuntamento con le urne. Forse la sinistra italiana ha mutuato in politica la filosofia finanziaria della buonanima di Enrico Cuccia, che combinava e scombinava tutto nel suo ufficio a Mediobanca sostenendo che le azioni andassero non contate ma pesate. A pesarle naturalmente provvedeva direttamente lui. Massimo D’Alema, tanto per fare un nome, muore dalla voglia di fare altrettanto a Montecitorio. Nel secolo e mezzo di unità d’Italia il mio amico Sandro Fontana, docente di storia contemporanea all’Università di Brescia, già vice segretario nazionale della Dc, direttore del Popolo, ministro dell’Università e della ricerca scientifica e vice presidente del Parlamento Europeo, ha giustamente indicato in un libro ancora fresco di stampa- Il Dna degli Italiani, Marsilio editore- “troppe guerre civili”, cioè “fratricide”.
L’ultima delle quali è in corso, speriamo solo metaforicamente, per la presunta liberazione da Berlusconi. L’elenco comincia con quella “ingaggiata, all’indomani dell’unità, contro il brigantaggio meridionale”. Seguono “quella che ha favorito nel primo dopoguerra l’avvento del fascismo e che s’è prolungata, con altro spargimento di sangue, dal 1943 al 1945″, ma anche oltre perché i partigiani continuarono ad ammazzare fascisti veri o presunti dopo la conclusione formale della Resistenza. Si aggiungono infine la “guerra civile strisciante e manichea” che ha accompagnato quella “fredda fino al crollo del muro di Berlino nel 1989″ e il terrorismo. Che “dal 1968 al 1978 ha insanguinato con centinaia di morti il nostro Paese ed è stato prodotto dal falso mito della Resistenza tradita”. Che è un po’ anche il “mito” sventolato ieri con gli attacchi diretti o indiretti, espliciti o impliciti, a Berlusconi e ai suoi progetti di riforma costituzionale. Francesco Damato, Il Tempo, 26 aprile 2011