Giustizia, il testo sul processo breve arriva in Senato Poverini. Almeno a sentire i vertici del tribunale di Milano, i magistrati che vi lavorano sono “infastiditi” per il chiasso, diciamo così, dei processi a Silvio Berlusconi. I cui elettori, rintuzzati da dimostranti di opposto orientamento, si radunano davanti al Palazzo di Giustizia ogni volta che c’è udienza a suo carico per incoraggiarlo. E per raccoglierne i ringraziamenti e gli sfoghi sulla situazione “irreale” in cui egli si trova, costretto a dividersi in momenti difficili come questi fra gli impegni di capo di governo e di plurimputato. Anche per ovviare a simili inconvenienti il Parlamento ha più volte tentato non di cancellare, come sostengono le opposizioni, ma di sospendere i processi al presidente del Consiglio, e ad altre autorità istituzionali, durante l’esercizio del loro mandato, bloccandone contemporaneamente i termini di prescrizione. Lo ha fatto, in particolare, con diversi “lodi” e infine con la legge sul cosiddetto legittimo impedimento. Ma i magistrati di Milano, sempre loro, si sono costantemente opposti ricorrendo con successo alla Corte Costituzionale, le cui decisioni hanno consentito la ripresa dei processi, tutti insieme. L’elenco si è anzi allungato con il procedimento, ancora più clamoroso degli altri, che porta il nome di Ruby. E che ha ottenuto addirittura la corsia preferenziale del rito immediato per la presunta, assai presunta, completezza di prove addotta dagli inquirenti. Visti i loro insistenti e riusciti ricorsi alla Corte Costituzionale, il meno che si possa dire del “fastidio” ora lamentato dai magistrati milanesi è che se la sono cercata, sottovalutando peraltro le doti comunicative del loro imputato eccellente. Ma non minori sono naturalmente le responsabilità dei giudici costituzionali, che con le loro decisioni hanno disatteso anche il presidente della Repubblica. Il quale ci aveva messo la faccia nella promulgazione di leggi studiate apposta per risparmiare al Paese gli imbarazzanti spettacoli di questi giorni.

La Corte Costituzionale è alquanto permalosa quando se ne criticano le sentenze e se ne ricorda la natura oggettivamente politica, derivante dal fatto che i suoi giudici sono per i due terzi nominati o eletti, rispettivamente, dal capo dello Stato e dal Parlamento. D’altronde, essa fu definita una “bizzarria” all’Assemblea Costituente da Palmiro Togliatti e Pietro Nenni. Non minori furono le preoccupazioni successivamente espresse dall’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, che il 20 giugno 1952 scrisse così al suo vice Attilio Piccioni: «Diffido dell’Alta Corte, che diventerà, temo, un corpo politico paralizzatore». I fatti purtroppo gli hanno dato ampiamente ragione, così come ha ragioni da vendere il Cavaliere quando ne sostiene la riforma. Ma torniamo ai processi di Berlusconi e ai «fastidiosi» inconvenienti improvvisamente scoperti dai magistrati che li hanno promossi e li conducono. Di tutti, il più clamoroso, come ho già scritto, è quello che porta il nome di Ruby. Esso però è anche il più lontano dall’epilogo, a dispetto del suo rito abbreviato, e il più evanescente. L’accusa sostiene che il presidente del Consiglio abbia concusso qualcuno alla Questura di Milano telefonando l’anno scorso a favore di una minorenne che vi era trattenuta e che in precedenza avrebbe fatto sesso con lui a pagamento, ma al processo nessuno si è costituito parte civile come concusso. Né si è costituita come parte lesa la ragazza, che nega di avere fatto sesso con l’imputato. A corto di speranze su questo accidentatissimo percorso giudiziario, per quanto disseminato di carte e di intercettazioni adatte allo sputtanamento del Cavaliere, le opposizioni si sono aggrappate al processo che porta il nome dell’avvocato inglese Mills perché lo considerano il più vicino ad una sentenza di condanna di Berlusconi per corruzione in atti giudiziari. Gli si sono talmente aggrappate da avere alzato le barricate ostruzionistiche contro una legge all’esame della Camera perché contiene una norma che lo farebbe decadere in poche settimane. Essa accorcia di un sesto i tempi di prescrizione per gli incensurati, qual è ancora il presidente del Consiglio, nonostante i tentativi in corso da una ventina d’anni di farne un pregiudicato. Il fatto è però che anche senza questa norma il processo Mills non ha alcuna possibilità di concludersi con una sentenza definitiva, scattando comunque la prescrizione a fine gennaio dell’anno prossimo. Rimarrebbe a portata di mano solo una sentenza di condanna di primo grado, tanto ininfluente sul piano giuridico, mancando un verdetto definitivo di secondo o terzo grado, quanto spendibile sul piano propagandistico contro il Cavaliere. Ecco a che cosa mirano i suoi avversari, togati e non: alla ennesima, arbitraria speculazione elettorale. Che il presidente del Consiglio e la maggioranza parlamentare, a questo punto, cercano legittimamente di impedire. Di un processo destinato a dissolvenza naturale una magistratura svincolata da visioni e interessi politici si libererebbe da sola, come fa con tanti altri procedimenti analoghi, dando la precedenza a processi di più sicura prospettiva. Non è evidentemente il nostro caso. C’è da esserne non infastiditi ma indignati. Francesco Damato, Il Tempo, 13 aprile 2011