L’IMMODESTIA DI SCALFARI, IL SUER EGO MILIONARIO DEI FONDATORE-VATE
Pubblicato il 17 aprile, 2011 in Costume | Nessun commento »
La vanità è una brutta bestia. Quando la vecchiaia si impadronisce di un uomo, e un futile compiacimento di sé si insinua nel suo cuore, perfino la disperazione di vivere diventa ridicola. Prendiamo Eugenio Scalfari, il Fondatore della Repubblica , il giornale che ha esercitato ed esercita con successo una pedagogia autoritaria ma non autorevole (glielo disse addirittura l’avvocato Agnelli, sempre attento al quotidiano- cognato). Da una sua bella vecchiaia, magari orgogliosa e superba, ma non vanitosa, avremmo avuto tutti qualcosa da guadagnare. Un bel vecchio sicuro della propria debolezza poteva riflettere sulla sua boria fascista d’antan (scriveva allegramente su giornali del Duce, ma non se ne è mai assunto la responsabilità civile, recitando invece nella parte di un eroe longanesiano dell’eterno antifascismo bacchettone); poteva indagare sulle miserie di una scalata sociale e mondana che ha deformato e massificato commercialmente la tradizione liberale del Mondo di Pannunzio, ma ha preferito lasciarsi pigramente coccolare dai beautiful people di una Roma carina e indulgente; sarebbe stata una bella lezione introspettiva il suo riandare ai giorni in cui divenne un riccastro, sacrificando a un pacco di miliardi debenedettiani le bellurie dolosamente bugiarde che raccontava sull’editore puro, e sul giornale che ha per soli padroni giornalisti liberi e lettori, libertà inesistente scambiata per solida paghetta nella urgente necessità di mettere insieme la dote per le figlie, come disse giustificandosi, spudorato e ingenuo; sarebbe stato bello se avesse denunciato il suo conflitto di interessi con il proprio editore nella ventennale crociata antiberlusconiana per strappare tanti bei milioni di euro all’Arcinemico, che aveva rilevato Retequattro dal fallimento degli eletti mondadoriani e poi la Mondadori dai suoi vecchi azionisti, lasciandogli la Repubblica e il tesoretto dei giornali locali per imposizione politica di Craxi e Andreotti, intermediario Ciarrapico; e una meraviglia, sarebbe stato, uno Scalfari sereno, con qualcosa di venerando sotto la sua ornamentale barba bianca, uno Scalfari equilibrato e non vacuo, non rancoroso, autoironico sul suo non facile rapporto di attrazione verso la cultura che lo possiede ma che lui non possiede, la filosofia che biascica da liceale del secondo banco, e magari capace di capire che la laicità è un valore laico e liberale, non una stupida confessione di fede e di ceto. Niente da fare. Il Fondatore affonda sempre di più nell’immodestia scritta, orale e televisiva. Si guarda pensare allo specchio, incontra il cardinal Martini per suggerire una spiritualità severa, profonda, ma la sua, non quella del prelato di riferimento. Butta fuori a ripetizione libri ariosi e primaverili, bozze di un banale giornalismo culturale di serie B, per farseli recensire con gridolini di pensosa delizia sul suo giornale. S’incarta nelle varie «biennali della democrazia », dove i suoi scudieri neopuritani, giuristi e ideologi altrettanto vanagloriosi, gli apparecchiano un simulacro di idee e di pubblico che fa mercato, che fa soldi, che fa politica con mezzi spesso indecenti, da cinepanettone porno. Questo per la coltivazione dell’amor proprio dal basso. Intanto il suo italianista de chevet , debole in congiuntivi, lo sprona a tirare le conseguenze dei suoi ragionamenti sull’Arcinemico, a chiamare i Carabinieri e la Polizia di Stato per congelare le Camere in una bella prova di forza dall’alto. Il liberalismo del 113. In molti, tra i miei amici, avevano provato a restituire a Scalfari un po’ di fiducia in se stesso,sollecitandolo a essere come vorrebbe apparire, una specie di piccolo Montaigne meridionale, un diarista introspettivo di magagne troppo umane, e non una caricatura di filosofo, un guru pomposo e semplicista per una élite di ignoranti in molta fregola, pieno di albagìa e di intolleranza. Non c’è stato verso. Viltà e vanità sono il carattere, evidentemente indelebile, del chierico italiano medio, il suo stigma botanico, la parte che riceve quella che Jonathan Franzen descrive come «l’impollinazione culturale » dei liberal derelitti e mediocri nonostante tanta volgare presunzione di sé. Peccato, e pazienza. Bisognerebbe sottoporre il petulante narciso alla cura del silenzio, che gli farebbe un gran bene. Non fosse che per questo Paese soffocato dai cercatori di applauso, intontito dagli amplificatori di un senso comune forcaiolo e fazioso, la cura delle vanità è un sottile quotidiano veleno, fa male, sfinisce, imbruttisce. GIULIANO FERRARA, 17 APRILE 2011